[…] Indicai una polaroid di lei e mio padre sotto una coperta ocra, nel letto della loro stanza. Aria di domenica, mia madre scarmigliata, appena sveglia rideva guardando da una parte, mio padre si scansava, stava dicendo qualcosa, l’ammirava adorante. Lei dentro una maglietta azzurra di cotone, lui a torso nudo. Sotto la coperta tenevano le gambe intrecciate, si davano la mano. La foto, l’avevo scattata io.
– Vi amavate?
– Ti ho mai chiesto qualcosa di tuo marito?
[…] – Mio marito non si è alzato una mattina decidendo di scomparire.
– Tu non sai niente, Ida. Nessuno sa cosa c’è dentro un matrimonio, tranne il marito e la moglie. A volte neppure loro.
– Di mio padre però posso parlare. E tutti i pomeriggi in cui non c’eri, e le mattine in cui uscivi presto per andare al lavoro, io c’ero e stavo con lui, anche la mattina che è andato via, tu dov’eri?
– Eri una bambina, cosa ne sanno i bambini?
– Era a me che lo lasciavi tutti i giorni. Non so neppure se hai sofferto davvero.
– Sei sempre stata così, una che non ascolta, una che s’inventa il carattere degli altri, come t’inventi quelle storie che scrivi per la radio. Dov’ero lo sai. Al museo, quella mattina come sempre. Tuo padre non aveva più un lavoro: devo ricordartelo io, che mangiavate grazie a me? Te lo ricordi o no, che senza tua madre non avresti avuto un piatto sulla tavola?
– Sarebbe meglio se i bambini fossero allevati non da due genitori ma dalla comunità intera, se appartenessero a un paese, a un villaggio, non alla biologia. Così forse non esisterebbe più questo terribile senso di proprietà.
– Ma cosa stai dicendo? Cosa stai dicendo a tua madre?
[…] – Non t’importa mai niente. Non sei cambiata, sei sempre quella che di sua madre se ne frega. Sei la piú grande egoista che conosco. E ti ho partorita io.
Fui assalita da una confusione che non sapevo da che parte afferrare: la raccattai a mani aperte e organizzai una difesa.
[…] Dagli anni della scomparsa di mio padre, mia madre aveva accumulato la sua tempesta personale, a volte l’avrebbe mostrata e a volte no, a volte l’avrebbe scatenata e altre rinchiusa, io ero l’oggetto della sua rabbia ma non la causa, perciò i miei tentativi di lenirla sarebbero stati sempre insufficienti.
A mia madre avrei dovuto rispondere ciò che sapevo.
[…] … quando papà non si alzava e tu dicevi: guarda tuo padre cosa fa nel nostro letto, guarda il letto cosa è diventato. Come fosse il letto il problema, e non la sofferenza. Dicevi: non funziona piú, neppure fosse un oggetto, un utensile della cucina. Me l’hai ripetuto quante volte, tre, quattro, per assicurarti che avessi capito che era lui a non fare il suo dovere, non tu, dovevi dirmi che tu invece eri a posto, una brava moglie, anche se dimenticavi di pulire il dentifricio dal lavabo. Sarei scappata anche io da una moglie cosí, che mi umiliava davanti a mia figlia.
– Non l’ho mai detto davanti a lui.
– Solo perché stavamo in un’altra stanza, separati dal corridoio? Questa casa ha pareti di burro. Sai che ti dico? Vendila. Vuoi darla via? Che m’importa. É pieno di infelicità, qui.
Nadia Terranova, Addio Fantasmi -Einaudi
Ida è tornata da Roma nella casa familiare di Messina per aiutare la madre a sistemare e svuotare la casa perché la vuole vendere. Nella sua mente si ripresentano all’appello i fantasmi del passato, della Ida tredicenne. Facendo ordine rivede gli album fotografici dell’infanzia. Ripensa il passato e si fa domande nella speranza di trovare risposte.
“Vi amavate?” – chiede alla madre ingenuamente, e forse maliziosamente perché in cuor suo sapeva la risposta vera. Perché da quando aveva vissuto in quella casa da bambina, da adolescente aveva visto e sentito se c’era amore. Perché l’amore non si dice, si sente, si vede, si comunica con quel linguaggio dimenticato, il non verbale, che usiamo quando dobbiamo comunicare sulla relazione stando attenti non tanto a quello che si dice, ma a al come lo si dice.
“Siete una bella coppia” – ci disse qualche anno fa, alla fine del suo lavoro, un idraulico nel salutarci prima di andarsene. Mi ha colpito quell’apprezzamento, perché, pur avendo parlato del più e del meno, involontariamente avevamo comunicato anche di come siamo nella relazione, per come ci aveva visto lui.
“Vi amavate?”, – risposta che fa parte dei segreti familiari, domanda legittima, risposta inaffidabile, criptica.
“Nessuno sa cosa c’è dentro un matrimonio, tranne il marito e la moglie. A volte neppure loro”. Forse questa è la risposta vera. Forse si sa quello che c’è ora, ma non quello che c’è prima, né quello che ci sarà dopo. La verità è che siamo e restiamo degli sconosciuti a noi stessi e tanto più agli altri. Possiamo spostare solo in avanti i confini della conoscenza di noi e dell’altro. Ognuno di noi è un mistero. Solo il nostro bisogno logico razionale ci spinge a dire “Io so chi sei, io ormai ti conosco e di conseguenza mi regolo”. Come se l’altro con cui siamo in relazione avesse la testa di cristallo trasparente in cui si può veder tutto. E specialmente succede quando siamo in disaccordo o in conflitto relazionale per cui la comunicazione viaggia su binari diversi, preparando la patologia della relazione.
L’altro viene mummificato, nessun cambiamento è immaginabile, l’altro con cui si è in relazione, vene ridotto ad una icona fissa. “Sei sempre stata così, una che non ascolta, una che s’inventa il carattere degli altri …. Non sei cambiata, sei sempre quella che di sua madre se ne frega. Sei la piú grande egoista che conosco” .- così la madre accusa la figlia, e altrettanto la figlia accusa la madre di non essere stata una buona madre e una buona moglie “Sarei scappata anche io da una moglie cosí, che mi umiliava davanti a mia figlia”.
La fuga come terapia e difesa dalla sofferenza, come il lavoro clinico ci fa vedere. Ma quale sofferenza? e perché questo stimato insegnante di liceo precipita nella depressione per poi sparire alle 6.16?
Come fosse un ladro e un traditore del patto d’amore
GB