Il sentimento di utilità nella psicoterapia
Il sentimento di utilità è quello che mi conforta e mi ha confortato ad andare avanti negli anni con il lavoro di psicoterapeuta, anche se la percezione di essere stato veramente utile l’ho avuta solo in pochissimi casi che si possono contare sulle dita di una mano. E mi fanno dire: ne vale la pena andare avanti, fino a quando qualcuno ancora bussa alla porta o chiama. Anche se è antieconomico tenere la porta aperta per quei pochi che si fanno vivi. Chiuderò la porta quando la mente e le forze non me lo permetteranno di essere utile. Quando non avrò più niente da dire per poter aiutare l’altro. O quando si esaurisce la passione che mi spinge ad essere quello che sono.
Ho fatto l’esperienza, rara nella vita, di aver fatto due mestieri: il primo per necessità, (come capita a tutti), l’insegnante, il secondo per scelta, lo psicoterapeuta. Entrambi amati, e nel secondo riconosco la presenza del primo. Perciò posso dirmi fortunato.
Non faccio più corse per apparire, per essere in vetrina. Accetto di prendere in carico solo quelli che chiedono, perché indirizzati da altri che sono passati per quella porta. E solo ad una condizione: che siano fortemente convinti di intraprendere con me questo percorso di conoscenza di sé e delle cause sconosciute che fanno star male. Ho imparato che la psicoterapia è efficace solo se si crea quella sottile intesa relazionale fra me e l’altro che si affida a me e che mi impegna e mi responsabilizza ad assumermi una funzione di “cura” e di “ricerca”.
In prima seduta annullo il tempo canonico (da tempo mi sento in questo un trasgressivo) per recuperare il tempo dell’ascolto e il tempo della mia presentazione all’altro. Mi piace spiegare chi sono, cosa faccio, come lo faccio e cosa posso fare e se lo posso fare per lui. Non ho resistenze a parlare di me e della mia storia. Me lo posso permettere, la mia età e l’esperienza mi fanno essere libero in questo, perché sono convinto che la psicoterapia è una relazione ed un incontro, e in una relazione sana e autentica il coinvolgimento è necessario, pur nel rispetto della diversità di ruolo e di persona.
Così dopo la prima seduta, lascio andare l’altro con il bagaglio di quanto ci siamo detti, raccomandandogli di pensare e riflettere. Solo dopo, quando ne è maggiormente convinto, può telefonare per iniziare il percorso. L’altro se ne va ancora più confuso, quando lo accompagno alla porta, senza pagare, per questo, “l’onorario”, perché sono convinto che l’ascolto dell’altro non ha prezzo, non è mestiere. Il “mestiere” comincia dopo, quando deciderà lui. Ed è un mestiere difficile, impegnativo, è una esplorazione senza bussole rassicuranti, è una ricerca paziente e convinta di quello che non si vede, dei segni nascosti, che richiedono di essere portati alla luce per dare senso a quello che senso apparentemente non ha.
E anche se, come succede, l’altro non si fa più vivo, mi piace pensare di essergli stato utile in qualche modo.
GB