Finalmente potevo diventare vecchio – Michele Serra

 

Finalmente potevo diventare vecchio

di Michele Serra

28 gennaio 2014 alle ore 21:44 Giuseppe Basile

Nota lunga, ma vale la pena di andare fino in fondo, per chi ha la pazienza

 

“Poi un giorno ci sei venuto, al Colle della Nasca. Non ho capito bene per quale congiuntura, se per esasperazione o per pietà o per puro caso. (Perché non avevi nient’altro da fare. Perché ti sei distratto un attimo. Perché avevi perso una scommessa con i tuoi amici e la penitenza era “devi fare la cosa che ti fa più schifo al mondo”.) Certo non per corrispondere a una delle mie innumerevoli e fallimentari forme di pressione, minaccia, ricatto.

Ma alla fine ci sei salito, e ci sei salito insieme a me. Quando non ci contavo più, e i miei sforzi per trascinarti su quel mio pietroso zenit parevano il prontuario completo dell’impotenza seduttiva e dell’insipienza educativa. 

[…] Ero da quelle parti già da un paio di giorni, mi hai telefonato, mi hai detto che saresti arrivato. E stranamente non con drappelli di amici, o con una ragazza, insomma in una di quelle composite formazioni che hanno il vantaggio di creare folla evitando la fatica del tu per tu. Eri solo, dunque proprio tu e proprio io.

Mi hai detto: adesso che sono qui, portami dunque in questo cazzo di posto di cui parli sempre. Così vediamo, mi hai detto, che cosa c’è di così speciale.

Ti ho detto che non avevi i vestiti adatti. Mi hai detto che erano adattissimi.
[…] Siamo partiti, secondo precetto, poco dopo le cinque di mattina. Essendo più o meno l’ora in cui di solito vai a dormire, non ti è pesato. Hai passato la notte fumando, scrivendo sms, girovagando nel web, forse dormendo un paio d’ore sul divano, avvoltolato in un plaid.

[…] lo l’ho passata, quella breve notte, in un tenebroso dormiveglia, tra presagi di disgrazie in alta quota, colpi di tosse, confusi propositi di una paternità redenta e soprattutto (applausi! applausi!) redentrice. Ripassavo mentalmente il percorso, temendo di non ritrovare la deviazione sotto la vetta del Corno Basso. Non la facevo da almeno vent’anni, quella passeggiata. Da prima che tu nascessi. E nella vaghezza allarmante dei pensieri notturni il percorso, un tempo così familiare e fatto in giovinezza decine di volte, mi pareva confuso, forse più impervio di quanto ricordassi. Forse molto più lungo. Forse assai meno suggestivo, specie nella scarpinata iniziale dentro il bosco di larici, umido e interminabile. Confidavo invece nell’impatto estetico con la parte finale; ma la vedevo, in abbacinante contrasto con la coltre delle mie palpebre chiuse, pericolosamente esposta al vento, al freddo e al vuoto, e noi due inermi, io forse imprudente a portarti là in cima, anzi sicuramente incosciente, un pazzo, un padre sbruffone e prepotente che espone il figlio a un’avventura agghiacciante, chissà quanti ne sono morti, in montagna, di padri che simulavano prestanza per sedurre il figlio, vecchi coglioni in cattedra come me, e di figli che gli sono andati dietro per non deludere il padre, sai che affare, non deludere il padre .

[…] “E più immaginavo la luce e il vento incombere, di lì a poche ore, e presagivo la stanchezza, il freddo, la demoralizzazione, e ti vedevo assiderato e con i piedi devastati dalle vesciche, più mi rannicchiavo nel letto, nella piccola stanza buia, e raccoglievo braccia e gambe nel minore spazio possibile, come se quel rimpicciolimento fetale potesse rimandare il mattino, proteggermi da quella assurda passeggiata in un luogo che ricordavo male, e sul quale, rifacendo un po’ meglio i conti, sarò salito in fondo cinque o sei volte al massimo, e come ogni maschio fanfarone ne parlo sempre come della “mia passeggiata”, pensa quanto vaniloquenti, quanto cialtroni possiamo essere, noi maschi. Tutta la vita (tua) che ti parlo della “mia passeggiata”, ti avessi mai chiesto una volta se ne conosci una tu, di passeggiata, e perché non mi ci porti mai.

[…]

Perché spingerti a tutti i costi nel mondo insicuro? Perché costringere anche te alle  mie stesse prove in fin dei conti risapute, banalissime, ripetute per centinaia di generazioni con la monotonia della scimmia, sempre la stessa roba, la paura  di non farcela, di precipitare, di sfigurare, di non essere all’ altezza, la sopravvalutazione delle proprie forze, la sottovalutazione della inesausta ferocia del mondo, perché ti ho rotto l’anima così implacabilmente, negl iultimi dieci anni, per trascinarti su un mucchio di sassi stupidamente mitizzato dal bambino che fui, certamente ingannato a mia volta da un adulto nvadente così come oggi pretendo di fare con te?

[…] Partendo ti sei acceso una sigaretta e mi hai detto, facendomi il verso: “Adesso si suda e si tace”. lo facevo strada, tu mi seguivi muto, ascoltando in cuffia, immagino a un volume assurdo, non so quale geremiade di ghetti urbani assortiti.

[…]

Salivo trattenendo il passo, temevo che il tuo pacchetto di sigarette al giorno ti avrebbe tagliato il fiato, che ti saresti stancato presto. O stufato presto. E mi aspettavo di sentirti imprecare da un momento all’ altro, per un sasso cheti feriva un piede, o per una storta alla caviglia. O perché maledicevi l’idea di avermi seguito fin lassù. Non ti avevo mai visto camminare più di dieci minuti filati, in qualcuno dei tuoi rari shopping al quale ero stato ammesso come finanziatore senza diritto di voto.

Ma per il momento, salivi e tacevi. Mano a mano che acceleravo il passo, ti avvertivo alle mie spalle. Quando sbucammo al sole, dopo un paio d’ore, sopra la linea degli alberi, e ci fermammo per levare le felpe, bere al torrente, tu fumare, io guardarti fumare, non eri più sudato di me.

[…]

La crisi ti è venuta dopo la ripartenza, mentre cominciava a fare caldo. Ti sei fermato dopo neanche un’ora di salita, a mezza strada tra il lago e la cresta, con le occhiaie scavate dalla fatica, il fiato grosso, l’umore cupo, dicendo che avevi male ai piedi e avevi camminato anche troppo. Ti ho detto che era un peccato tornare indietro, ma che l’avremmo fatto senz’altro perché è pericoloso camminare in montagna in cattive condizioni fisiche. Mi hai detto che non eri affatto in cattive condizioni fisiche. Ti ho detto che non avere allenamento, fumare un pacchetto di Camel al giorno e avere dormito solo un paio d’ore era l’equivalente perfetto di “cattive condizi0ni fisiche” .

Hai tirato fuori dallo zaino un tuo berretto da rapper. Te lo sei messo con la visiera al contrario, non ho potuto evitare di farti notare che la funzione della visiera è riparare gli occhi dal sole. lo invece mi riparo la nuca, mi hai detto, e poi hai ricominciato a salire e tacere.

[…]

Sei arrivato ansante, a passo lento, fino al sentiero che aggira il Corno Basso e poi infila la pietraia ripida che sale fino alla forca d’arrivo. Ti precedevo di poco. Mi ero fermato un paio di volte ad aspettarti. Ero dispiaciuto per te, per la fatica inutile che ti avevo inflitto, come se fosse obbligatorio amare la montagna, salire e tacere, inzupparsi di sudore, ricalcare le orme degli altri. Riflettevo che il mio mondo sentimentale e culturale è in fin dei conti il lascito di un pugno di generazioni, un paio di secoli al massimo,…… In un montaggio neanche troppo fantasioso di miei ricordi diretti, e di vecchie fotografie, vedevo le generazioni precedenti salire quello stesso sentiero, i miei genitori, i nonni, gli zii, la categoria delle marraines e dei parraines che radunava le parentele imprecisate e gli amici di famiglia … Quanto mi sono sentito obbligato, lungo quella traccia tra tante? Quanto l’ho voluto? Quanto ho dovuto? Ed è poi così necessario saperlo?

Salivo a testa bassa, con il fiato corto ma regolare, era un camminare introverso, ormai disattento al cielo e al paesaggio per quanto ero sprofondato nei miei pensieri. E tu?

E tu, di colpo, senza che ne avessi avuto percezione, non eri più alle mie spalle. Mi sono voltato con qualche ansia, non sentendoti più camminare, e non ti ho visto. Capendo che mi ero distratto, che ero riemerso da chissà quanti minuti rimuginanti, solitari, mi sono spaventato, e ti ho chiamato ad alta voce. Un paio di volte. Nessuna risposta. In ansia, ho fatto qualche passo in discesa, per tornare a cercarti.

Poi ho sentito la tua risposta – Sono quiiiii!- rimbalzare tra i sassi, arrivando da lontano. Cercavo la tua sagoma più in basso, voltato verso il percorso già consumato, percorrendo con lo sguardo i lastroni di ardesia in mezzo ai quali l’esile traccia del sentiero si perdeva.Ti ho sentito ancora:

Sono quiiiii! Papàààà!

Udire il nome del padre nella sua forma infantile fece lievitare la mia ansia fino a mutarsi in spavento. Sentirmi chiamare papà, e da lontano, e in quella esposta porzione del mondo, in quella incerta dimensione del tempo dove la mia infanzia ancora galleggiava, quasi mi atterrì. Come un’accusa. Un richiamo all’ordine. lo – non altri – sono quelle due sillabe. lo sono quello che deve. Forse non vuole, forse non può, comunque deve.

Confuso, e sentendomi ingannato dalla quota e dalla vastità, ruotavo lo sguardo ovunque, perlustrando tutti i trecentosessanta gradi dei quali ero lo sperduto centro. E finalmente ti ho visto. Eri in alto. Molto più in alto di me, quasi un chilometro avanti, appena sotto alla sommità del colle. Mi avevi sorpassato e seminato senza che me ne rendessi conto, immerso com’ero nei miei complessi rendiconti con i massimi sistemi. Sentii il fiatone, all’improvviso, opprimermi, e le gambe pesanti, come se tutti i miei anni, tutti i miei passi, reclamassero udienza. Tutti insieme.

Sopra di te solo il cielo limpido rarefatto dei tremila metri, un blu cobalto che contiene il nero cosmico, ma quando è acceso dal sole diventa pura luce. Mi fermai a guardarti, meravigliato, infine emozionato. Salivi veloce, con un passo elastico, che esprimeva destrezza, sicurezza, forse felicità, quella felicità che solo a dirla, in relazione a te e agli altri della tua tribù, le lacrime mi velano gli occhi. Mentre non ti guardavo ti eri assestato le brache alla vita, stringendo la cintura. E a vederti da sotto quasi volavi, con le tue gambe lunghe e le tue scarpe assurde, magro, alto, padrone del percorso.

Molto più in alto di me.

Sei salito in pochi passi fino al colle. Quando la tua sagoma è arrivata a stagliarsi contro il cielo, al colmo, ti sei voltato, hai levato il berretto da rapper e l’hai sventolato verso di me. Eri troppo lontano perché potessi vederti in faccia, ma so che sorridevi. Poi mi hai dato le spalle, ti sei calcato di nuovo il berretto in testa e in pochi passi sei scomparso dietro il ciglio grigio della montagna.

Ti ho chiamato – Aspettami! – ma non hai risposto. Non mi sentivi più.

Finalmente potevo diventare vecchio.

Michele Serra, Gli sdraiati – Feltrinelli

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Giuseppe Basile .

“Finalmente potevo diventare vecchio”.

Con questa frase si chiude il racconto. E da giorni vado pensando nel silenzio della notte al senso e al messaggio che rimane socchiuso in quel finalmente potevo diventare vecchio. E agli interrogativi che pone: che vecchio si può diventare e, finalmente dopo tanto tempo, che l’essere vecchio non è un necessario decadimento fisico e fisiologico, ma una meta, un arrivo, una conquista, quasi un diritto.

Mi son messo così a parlare con il libro, come suggerisce di fare António Lobo Antunes, scrittore portoghese: “il libro non è qualcosa che deve essere letto, è un oggetto che ascolta. Siamo noi lettori che parliamo con lui. Il libro è qualcosa che mettiamo contro un orecchio per udire il rumore del mondo”. Proprio così, gli ho parlato, ho cercato, ho ascoltato per decifrare il perché di quel finalmente potevo diventare vecchio.

La prima cosa che ho capito è che diventare vecchio non è un accadimento individuale, fisiologico, è sempre in relazione a qualcos’altro, in questo caso al figlio.

Il padre, quasi per la prima volta vede il figlio con altri occhi. Diventare vecchio è vedere la realtà e il tempo con altri occhi. Se prima vedeva il figlio, (chiamato mai né per nome proprio, né con il termine figlio, ma semplicemente con un tu) senza ordine, senza regole, senza passione, incapace di fare una passeggiata più lunga di trecento metri, ora improvvisamente ne vede un altro in cima alla montagna, agile, forte, sicuro, felice della conquista, di essere arrivato prima del padre, con quel suo sventolare allegro il suo cappello da rap a braccia alzate. Il padre, che finalmente si sente chiamare papà dopo tanto tempo, con quel nome perso forse nei ricordi dell’infanzia, capisce e si accorge che ad un figlio cambiato deve corrispondere un padre cambiato. Se prima il padre era critico, ansioso, preoccupato, pronto alla correzione, al rimbrotto, al giudizio, sfiduciato, ora nel figlio vede le risorse e le capacità nascoste, che quanto meno te l’aspetti si rivelano.

Così i padri si rassicurano, si potranno sentire più liberi di lasciare liberi i figli di fare la loro strada, anche se diversa da quella immaginata dai padri.

Ma nello stesso tempo “Sentirmi chiamare papà, e da lontano, e in quella esposta porzione del mondo, in quella incerta dimensione del tempo dove la mia infanzia ancora galleggiava, quasi mi atterrì. Come un’accusa. Un richiamo all’ordine. lo – non altri – sono quelle due sillabe. lo sono quello che deve. Forse non vuole, forse non può, comunque deve”. Il richiamo all’ordine è il richiamo alla responsabilità, che non può essere delegata o ignorata.

Così è un prendere atto del passaggio generazionale e che ognuno deve fare la sua parte, senza confusione e senza finte amicizie. “Come se fossimo, o se provassimo a essere, almeno una volta, almeno questa volta, io un po’ meno io, tu un po’ meno tu”, non un tu e un io stereotipato.

È questa la verità segreta di quella salita in montagna.

GB

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