10. Facciamo festa perché mio figlio era morto ed è tornato in vita”

10. Facciamo festa perché mio figlio era morto ed è tornato in vita”

 

Scena terza (4)

 “Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.”

 

Commento

Il ritorno del figlio, il riconoscimento della caduta, l’incamminarsi verso il padre, la confessione del proprio “peccato” da una parte, dall’altra il perdono del padre, l’accoglienza aperta, la gioia del ritrovamento del figlio dopo l’erranza, la festa che sancisce la rinascita, non significano però che tutto ritorna come prima, al punto di partenza, agli equilibri precedenti, che sparisce la cicatrice della ferita inferta al corpo familiare.

Il dopo è sempre qualcosa di nuovo, incorpora il prima, non lo cancella, non ci sarebbe il nuovo se non ci fosse stato il prima, la caduta, il fallimento sono necessari per imparare a rialzarsi e andare avanti più forti, più sicuri. È vero che ricominciare e ripartire è un guardare avanti e non volgersi indietro, perché “il passato è passato e non conta, perché conta il presente e il futuro”, come spesso si sente dire anche dagli addetti ai lavori. Ma il passato è sempre un presente che tormenta, se non si sono fatti i conti, se non si è capito bene il perché dell’allontanamento e della perdizione.

“Quando, all’inizio della parabola di Luca, il padre divide le sue sostanze, rompe un’unità. È quello che accade sempre quando un legame si spezza: il vaso si rompe e non può più tornare come prima. Il ritrovamento del figlio non è una festa che implica un ritorno alla situazione così com’era prima della separazione, ma una trasformazione irreversibile: il figlio ritrovato non è lo stesso di quello che è partito. Il ritrovamento non può dunque essere la ricomposizione dell’unità originaria del vaso. […]

Il perdono non può essere ciò che incolla i cocci provando a restaurare la sostanza com’era prima della sua divisione. Un’arte giapponese del xv secolo chiamata Kintsugi – letteralmente, “riparare con l’oro” – mostra bene l’impossibilità di ricostituire il vaso rotto com’era prima della sua rottura.  All’origine di questa arte c’è la volontà di un ricco aristocratico di recuperare un prezioso vaso che era stato accidentalmente rotto. Egli si rivolge a un artigiano chiedendogli di fare il possibile per recuperare la perduta bellezza del vaso ridotto in frammenti. Quando il proprietario si vede riconsegnare il vaso “riparato”, lo attende una sorpresa: anziché provare a nascondere le tracce della rottura ricomponendo l’unità perduta del vaso, l’artigiano ha deciso di evidenziarle con una pittura d’oro. La scelta non è solo estetica, ma anche etica: si tratta di valorizzare le crepe, le fratture, le lacerazioni subite dal vaso, anziché provare a nasconderle.

Dipingere d’oro le fratture del vaso significa fare in modo che la memoria dell’offesa non sia semplicemente cancellata – dimenticata-, ma possa segnare un nuovo inizio. La riparazione diventa così un’avventura, una poesia costruita sulla spaccatura del vaso, più che sulla sua riparazione. In gioco non c’è un semplice restauro – far esistere il vaso come era prima della sua rottura – ma una vera e propria conversione, l’apparizione di una nuova forma. La stessa in causa nel perdono: si tratta di trasformare le cicatrici in poesia. La cicatrice non è, infatti, solo la memoria di quanto è già avvenuto, ma diventa un nuovo possibile inizio, una nuova lingua, una lingua altra. Al centro del gesto del perdono è infatti la possibilità del ritrovamento come ricominciamento, ripartenza, resurrezione della vita che pareva morta. (Recalcati, Il segreto del figlio, pagg. 111-112)

Ricominciamento, ripartenza resurrezione: se valgono per il singolo valgono ancor di più per la famiglia. Nella parabola non ci sono singoli che si muovono, chi apertamente e chi nell’ombra, chi apparentemente rimane sullo sfondo e chi occupa la scena., chi si impone e chi subisce, chi soffre nel silenzio e chi non s’accorge e sembra indifferente. Nella parabola non ci sono solo il figlio minore e il padre, non è la storia di un rapporto di un padre e di un figlio. Sullo sfondo rimangono il figlio maggiore geloso e invidioso e una madre silenziosa e non nominata. È la storia di una famiglia che vive in modo sistemico, in cui i membri si relazionano influenzandosi reciprocamente e necessariamente, costituendo però uno stile unitario familiare e un corpo familiare. Se c’è festa è festa per tutti, se c’è dolore è dolore per tutti. Così funzionano le nostre famiglie e questo spiega la nascita della terapia familiare. Se bisogna fare i conti e guardare le cicatrici, bisogna farli tutti assieme senza farsi inutili sensi di colpa impropri, perché la famiglia come sistema ha anche energie positive interne che, se attivate, sono di grande aiuto per ripartire.