LE STANZE di Antonio Frizzera

LE STANZE

di Antonio Frizzera

Le parole, una volta dette, non ci appartengono più.

Eugenio Borgna, Parlarsi

 

Quel pomeriggio Edoardo si svegliò di soprassalto con il vago ricordo di un brutto sogno. Rimase seduto sul letto con le mani appoggiate al materasso e si guardò intorno: sentiva la testa piena di un liquido oleoso che formava lente onde alle quali lui cedeva, oscillando il capo. Si trovava nella stanza degli uccelli, chiamata così per via dei disegni sulla testiera del letto. Quelle figure, uccelli o pavoni, non distingueva bene, erano entrate nel suo sogno e ora vedersele lì a fianco gli provocava una strana inquietudine. Tirò indietro le spalle e spinse il mento in alto facendo scricchiolare gli ossicini del collo, poi si alzò per andare in cucina. Era rimasto solo in casa. Gli altri erano al mare, ma lui quel mattino aveva deciso di concedersi una tregua: era troppo caldo e ne aveva abbastanza di sole e di mare.

In controluce, sul fondo del corridoio che terminava nella cucina, notò una donna indaffarata, in piedi davanti al tavolo. Non gli sembrava di averla mai vista prima e pensò fosse una delle donne del paese che ogni tanto aiutavano la padrona di casa nelle faccende domestiche. Fu sul punto di tornare indietro e rifugiarsi ancora in camera. Aveva infatti deciso di rimanere a casa per godere di qualche ora di perfetta solitudine, da accompagnare con la lettura di uno dei suoi amati libri. Avrebbe dovuto condividerla con una sconosciuta? E intrattenere una civile conversazione, come si usava ancora tra la gente di Calabria, pena passare per un maleducato e scostante turista del nord? Tuttavia, il desiderio di un caffè che sciacquasse il gusto paludoso del sonno pomeridiano prevalse, ed entrò in cucina.

La donna stava preparando le fileja[1].

C’erano già due vassoi pieni di finissimi cannoli e con rapidi e abili movimenti ne stava completando un terzo. Sul fuoco bollivano una pentola con salsa di pomodoro e una con dell’acqua. Un intenso profumo di cipolle e basilico rendeva corposa l’aria ferma della cucina.

«Buongiorno!» esclamò cordiale Edoardo.

Lei fece un brusco movimento che dalle spalle si propagò lungo le braccia fino alle mani, finendo per rompere il bastoncino di legno di cui si serviva per avvolgere la sfoglia.

«Mi scusi» disse «Non volevo spaventarla».

La donna indietreggiò, entrando nella sagoma di luce della porta che dava sul terrazzo ed Edoardo notò qualcosa di particolare nella sua figura. Fu però questione di un momento, la donna si spostò di lato e si appoggiò al lavello di pietra e l’impressione svanì.

«Mi chiamo Edoardo,» disse «sono qui in vacanza con la mia famiglia ma ora sono tutti al mare. Mi preparo un caffè e poi la lascio lavorare, ne gradisce anche lei?» La donna rifiutò con un cenno delle spalle e continuò nel suo lavoro, ma i suoi gesti avevano perduto la fluidità e la precisione di prima.

Edoardo si sedette e rimasero in silenzio fino a quando furono interrotti dal gorgogliare della moka. Istintivamente la donna la prese e versò il caffè nella tazzina; poi, come pentendosi, le poggiò entrambe bruscamente sul tavolo. A Edoardo parve come se la caffettiera e la tazza le fossero uscite dalle dita.

La donna riprese a lavorare e lui bevve a piccoli sorsi. Mentre osservava ancora le sue mani muoversi, tentava di capire lo strano disagio che provava.

«Come si chiama?» le chiese. «Non ci siamo mai visti prima, nemmeno gli anni scorsi.» «Mi chiamo Teresa» rispose la donna. «In verità ho sempre vissuto in questa casa». Edoardo, distratto dalla voce che si dileguò subito come quel che resta di una bolla di sapone, non diede peso alle sue parole e catalogò Teresa tra i personaggi originali del paese. Terminò il caffè e fece per alzarsi ma la donna lo trattenne: «Assaggiate, per cortesia, e ditemi come sono di sale». Dall’acqua sul fuoco pescò due fileja e le mise in un piatto, glielo porse e rimase ferma a scrutarlo.

Edoardo ne prese una con due dita e attese qualche secondo che si intiepidisse, poi la mise in bocca. Fece appena in tempo a sentire una lieve presenza e la pasta si dissolse tra la lingua e il palato, come la spuma delle onde quando si assorbe nel bagnasciuga. In quel momento diede corpo alle sue impressioni: quella donna non aveva consistenza. Poteva vedere i contorni delle cose dietro di lei come attraverso un vetro umido e non emetteva alcun rumore, se non quella voce evanescente e impalpabile che non lasciava memoria.

Senza attendere la domanda, Teresa iniziò a raccontare.

«Lavoravo in questa casa e nei campi di proprietà di don Pepè prima che salisse Garibaldi con i Piemontesi. Ci lavoravano anche mia madre e mio padre: assieme agli altri operai, ci occupavamo della coltivazione dei pomodori e delle olive, dell’allevamento dei maiali e delle pecore. In questa cucina, bollivamo la salsa di pomodoro, preparavamo gli insaccati e facevamo il formaggio.

Svolgevamo tutto il necessario in vista dell’inverno: per don Pepè, la sua famiglia e anche per noi.

Don Pepè aveva un figlio che si occupava della gestione dei campi e delle bestie: si alzava con noi, all’alba, e lavorava insieme a mio padre. A un estraneo sarebbero sembrati padre e figlio, tanto erano simili nell’aspetto. Nicola, così si chiamava, era un uomo buono, ma aveva il sorriso sempre velato di una tristezza malinconica. Era sposato con una donna che soffriva di isteria. Le voleva bene ma non l’amava. Lei rimaneva chiusa nella stanza di sopra quasi tutto il giorno, raramente scendeva al giardino nella bella stagione e, quando accadeva, poi doveva mettersi a letto, preda di forti emicranie che, sosteneva, le erano causate dagli umori insopportabili delle piante in fiore.

Nicola trascorreva così gran parte della giornata con noi, lavoravamo insieme e pranzavamo nel campo. Spesso, la sera, lui e mio padre rimanevano a parlare a lungo delle cose del lavoro o dei fatti accaduti. Io facevo sempre il possibile per rimanere lì intorno con la scusa di preparare qualche pietanza per il giorno dopo o di sbrigare qualche faccenda di casa. Capii che Nicola apprezzava la mia presenza perché, quando non potevo fermarmi, si ritirava subito nelle stanze di sopra mentre, quando c’ero, si attardava a conversare. Poco a poco cominciai anch’io a sedermi con loro fino a quando mio padre, una sera, ci lasciò soli. Fu quella sera che diventammo amanti. Da allora mio padre e gli altri fecero in modo che avessimo qualche momento di intimità; noi stavamo ben attenti a non dare scandalo e a rispettare la malattia della signora e non causarle inutili turbamenti.

Fu per caso che morimmo a poca distanza l’uno dall’altra: lui, travolto dalla sua cavalla quando caddero nella ripa oltre l’oliveto; io, un mese dopo, per una appendicite.

Verso la fine degli anni trenta, una sera d’autunno, Natuzza Evolo[2] stava nella stanza di sopra a convocare i morti e fu chiamato anche il mio uomo. Nicola mi portò con sé ed entrai per la prima volta nell’appartamento dei signori dove non ero mai stata prima. Mentre lui rispondeva alle domande dei pronipoti, io mi aggiravo per le stanze e mi fermai alla finestra da dove si scorgeva il golfo. Potevo vedere solo le luci delle lampare e immaginarmi dove finiva la valle e incominciava il mare. Rimasi, non so quanto tempo, con la fronte appoggiata al vetro e poi tornai nella sala dove stavano gli altri.

Natuzza era distesa su un divano mentre una donna le stava facendo sorseggiare una bevanda color caramello: si stava riprendendo dallo sforzo estatico e io mi resi conto di essere rimasta sola.

Da allora abito qui. Trovo strano che voi mi possiate vedere, ma forse oggi l’aria è così calda e afosa che mi rimane sui vestiti: quello che vedete è l’umidità che si condensa sul mio passato».

Edoardo la ascoltò senza muoversi, lo sguardo fisso sulla seconda fileja nel piatto.

Avrebbe voluto riprovare l’emozione di assorbirla, ma non voleva mancarle di rispetto.

Le chiese invece cosa facesse durante le giornate, oltre a cucinare conserve e cibi che ormai nessuno più gustava.

«Trascorro il tempo tra le stanze e la cucina e continuo a fare quello che ho sempre fatto. Lavoro, mi riposo, guardo fuori dalle finestre la gente che passa per strada.

Dall’appartamento di sopra non riesco più a vedere il mare: hanno costruito delle case proprio lì davanti, ma mi piace tornare spesso a quei vetri dove ho perduto la mia eternità. Per tanto tempo ho vissuto in solitudine. Mentre sbrigavo le faccende mi faceva compagnia il silenzio e io lo accompagnavo canticchiando qualche vecchia canzone. Poi, all’inizio di un’estate, la casa cominciò a rivivere: giunsero la padrona con i fratelli e la mamma, e rimasero qui tutta la bella stagione. I primi tempi venivano solamente loro e io li aspettavo per vedere come cambiavano da un anno all’altro.

In seguito iniziarono a venire anche gli amici, i fidanzati e quindi i mariti, le mogli e i figli; ed ora anche altre famiglie, come la vostra».

Teresa coprì i vassoi della pasta e si sedette al tavolo asciugandosi con il grembiule la fronte sudata. Edoardo, finalmente, mangiò anche l’altra fileja e anche quella si dileguò in un attimo, come la prima. Probabilmente, se fosse stato meno intontito, l’avrebbe salutata allora e sarebbe andato in giardino da qualche parte all’ombra a leggere un libro: non aveva un carattere propenso a credere ai fantasmi. Invece si appoggiò allo schienale della sedia e la guardò, come a chiederle di continuare.

«Quando la casa a settembre si svuota, la padrona esce sempre per ultima e, sulla porta, getta uno sguardo dentro la penombra del salone. Poi chiude il portone e il silenzio esce dalle stanze, inseguendo le voci attutite che si allontanano. Infine tutto si ferma e io sono di nuovo sola.»

Teresa si interruppe, chiuse gli occhi e sospirò lentamente, facendo uscire piano piano il dolore che quel ricordo le riportava. Poi riprese.

«Fino a quando non ho scoperto che le stanze parlano, quello era il momento più triste e ancora oggi, a ripensarci, mi assale la stessa angoscia. Ora, invece, mi fermo qualche attimo e poi entro nella stanza più vicina: perché voi non lo sapete, ma le vostre parole, quelle che vi dite dietro le porte chiuse, rimangono impregnate negli oggetti. Basta scrollarli un po’ ed escono a fiotti vivaci ed io le ascolto quando sono di nuovo sola, per tenermi compagnia.

La prima volta che le udii, stavo spolverando un libro su una mensola nella camera che dà sulla strada. Sentii una ragazza che rideva sottilmente, come le bollicine nel vino frizzante, e un’altra che recitava uno scioglilingua incespicando frequentemente, fino a quando anche lei si unì al riso della prima.

Sentivo anche il cigolare dei letti sui quali erano sdraiate: posai il libro e mi girai spaventata, ma i letti erano vuoti. Lo ripresi per sistemarlo nella scansia e la ragazza dal riso fine ricominciò: sopra la panca la pacra campa, sotto la… . Appena il libro fu al suo posto tornò il silenzio. Provai allora con un altro, si intitolava “Viaggio a Shangai”. Non appena lo toccai sentii chiaramente il silenzio che segue a una domanda e poi una voce che tratteneva a fatica il pianto: domani, torniamo a casa domani!

Tornai a riprendere il primo libro e le ragazze ora sussurravano, forse erano sdraiate una di fronte all’altra, parlavano di ragazzi alla spiaggia. Le loro voci erano leggere e ridevano e sospiravano.

Capii in seguito che per ascoltare un dialogo intero dovevo muovere gli oggetti lievemente e di continuo; se lo volevo interrompere, bastava che mi fermassi e li posassi con delicatezza. Quando ricominciavo le parole riprendevano dove le avevo lasciate.

Iniziai allora ad ascoltare le cose, cominciai con i libri. Ne prendevo uno e mi sdraiavo sul letto, poi, lentamente, ne facevo uscire le storie».

Edoardo si trastullava con il cucchiaino e la tazzina, mentre tentava di ricordare quello che lui e Paola si erano detti nei giorni addietro.

Riteneva che quelle parole fossero ormai perdute per sempre e che nessuno gliene avrebbe mai chiesto conto. Si inquietò nell’apprendere che le parole non volavano, rimanevano: dentro alle cose e quindi dentro le persone. In quella casa e, probabilmente, ovunque. Teresa riprese a raccontare.

«Un giorno ascoltai salire il frastuono dei tamburi che annunciavano i Giganti. La ragazza aprì la porta a vetri ed esclamò: guarda! Arrivano fino al terrazzino! Poi, per un po’, sentii solo percussioni forsennate fino a quando lei disse ancora: il loro viso di cartapesta rimane uguale ogni anno che passa, sarà così anche tra noi? Non sentii lui rispondere, ormai il rumore dalla strada copriva ogni altro suono.

Un pomeriggio d’inverno, nella stanza della nonna, trovai dei cappelli. C’era un tiepido sole e l’aria ferma, ne indossai uno e andai nel giardino. Mentre camminavo nell’erba ingiallita, tra gli alberi di pesco che delimitano il viale di mezzo, ad ogni passo cadeva la sua voce che raccontava ai nipoti una delle vicende di questa terra che lei aveva imparato ad amare.

Al suo timbro, potente e rauco, rispondeva quello infantile dei commenti dei bambini. Mi fermai all’ombra della palma, in fondo al giardino, ed ora era la brezza che saliva dalla valle che scrollava le parole dalle tese di paglia; scendevano calme, come quelle di lei, nel momento in cui i piccoli si addormentarono con respiri lenti e profondi. Si interruppe cautamente, lasciando la voce al frinire delle cicale.»

Edoardo ascoltava e continuava a pensare alle parole: vibrazioni che ponevano domande senza risposte e risposte a quesiti ancora non espressi. Chissà se la ragazza ricevette una sentenza. Lui, forse, fece finta di non sentire.

Lui, forse, conosceva il segreto di quelle stanze e non volle lasciare il sigillo di un impegno.

Chissà se i ragazzi, un giorno, salendo verso il paese, si sarebbero sorpresi in un sorriso, senza capire, nel momento esatto in cui il ricordo incontrava la bellezza.

«Ho ascoltato molto di voi». Continuò la donna. «Siete qui, in queste stanze, nei giorni durante i quali, più tenacemente che mai, ognuno di voi cerca la propria felicità. Gli insoliti affacci, le insolite ore, non trovano confine in ciò che solitamente fate. Ognuno di voi cerca di riportare a sé il ricordo perfetto di quando, crisalidi d’uomo, inseguivate spensierati, una farfalla su un prato».

I due rimasero a lungo in silenzio mentre l’acqua nella pentola continuava a bollire inutilmente.

Il campanello della porta sotto il terrazzo suonò, ridestando Edoardo dai suoi pensieri. Si alzò e uscì per aprire, e il riflesso abbacinante delle piastre bianche lo accecò per un istante.

Quando rientrò in cucina Teresa non c’era e sulla tavola rimanevano ancora le tazze della colazione. Mentre gli altri entravano, scaricando le borse della spiaggia e cercando un sorso d’acqua fresca dal frigorifero, solo a lui parve di sentire un remoto profumo di cipolle e basilico.

Commento

“Ho scoperto che le stanze parlano”, specialmente se hanno visto passare fra le loro mura diverse generazioni. Si sarebbe potuto titolare questo racconto, Radici, prendendo a prestito l’omonimo titolo di una canzone di Francesco Guccini, Radici [3], tale è la sintonia tematica fra i due testi. Le stanze non sono solo mura di una vecchia casa, conservano in sé la memoria di generazioni familiari, le radici di una storia familiare che con il passare degli anni si perdono. Se non vengono rinnovate e rievocate muoiono definitivamente, se non c’è più nessuno che le interroga su ciò che è stato e su ciò che siamo. Le stanze hanno vita, una presenza invisibile, una Teresa, che interroga e dà risposte. La vita si muove e riappare ad una condizione, che ci sia qualcuno che la risvegli, perchè spinto dal desiderio di capire e vedere, “Trovo strano che voi mi possiate vedere, ma forse oggi l’aria è così calda e afosa che mi rimane sui vestiti: quello che vedete è l’umidità che si condensa sul mio passato». Ha bisogno di un interlocutore che pone domande, che vuole vedere quello che non c’è e dove “succede anche che si trova ciò che non si va cercando”. Se non c’è curiosità, desiderio di conoscere, di sapere, non si trova mai niente. Può anche capitare di imbattersi in quello che non si cerca, ma solo perché le domande, la richiesta del perché di ogni cosa, è nascosta nel lavorio del nostro processo inconscio. E’ l’eureka dei greci che improvvisamente svela quello che si cercava da tempo, senza far vedere e rendere conto dello stimolo delle miriadi di domande sottostanti, specialmente se quello che si cerca è il senso esistenziale della vita. E’ ciò che fa la differenza fra la crisalide e la farfalla, si può restare crisalide umana bloccata in un involucro, senza diventare farfalla, “Ognuno di voi cerca di riportare a sé il ricordo perfetto di quando, crisalidi d’uomo, inseguivate spensierati, una farfalla su un prato”. Perché mai, se no, farsi domande, cercare risposte, sentire l’inquietudine del non sapere, non accontentarsi delle risposte scientifiche e dare credito invece all’indefinito, all’invisibile, ai fantasmi, ai riti del passato, ai legami relazionali che nel tempo ti legano ad altre generazioni, alle voci di stanze mute, ma che a loro modo danno risposte?

Tutto si muove in noi perché un desiderio leggero e prepotente non ci fa accontentare dell’esistenza che viviamo nella quotidianità e dell’identità che ci riconosciamo. È il desiderio che ci spinge a ricostruire una storia che ci appartiene, perché là ci sono le nostre radici sconosciute. E le cerchiamo nei luoghi della memoria, che sono la casa, dove le generazioni si sono succedute, ma che sono anche le cose arrivate fino a noi e con cura conserviamo, come reliquie preziose di una vita passata e che ci appartiene. Solo così la casa è luogo di memoria dove ci riconosciamo e dove riconosciamo gli oggetti immobili che attendono la presenza familiare e il ritorno della vita, del dialogo con le presenze che vi dimorano.

Ma la casa rimane, per chi non ha consapevolezza delle radici, solo e semplicemente un luogo fisico da usare e da abbattere se non serve più, un luogo dove passare le vacanze e vivere le distrazioni dal tempo impegnato. Una casa muta e fredda e senza radici, dove non palpita nessun’altra vita, se non la propria, assordata da rumori fuorvianti e da false luci abbaglianti. “Mentre gli altri entravano, scaricando le borse della spiaggia e cercando un sorso d’acqua fresca dal frigorifero, solo a lui parve di sentire un remoto profumo di cipolle e basilico”.

[1] Tipica pasta fresca Calabrese, fatta in casa.

[2] Fortunata Evolo, detta «Natuzza». Mistica calabrese che frequentò il palazzo di Sciconi al servizio dell’avv. Silvio Colloca nel 1938.

[3]Testo  http://www.viafabbri43.net/testo-canzone/radici

Canzone  https://www.youtube.com/watch?v=zAJCatKl4Ao