2. Il figlio che si fa padre
Scena prima a) Lc 15,11b-13
11b Un uomo aveva due figli.
12 Il più giovane dei due disse al padre:
12b “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta“.
12c Ed egli divise tra loro le sue sostanze.
13 pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano
La parabola si apre con una descrizione sommaria ed essenziale di una famiglia con un padre e due figli adulti. Manca la madre, non è nominata, è assente, quasi fosse una figura senza valore, secondaria, marginale.
Un uomo
Mi son chiesto tante volte il perché di questa assenza, mi son dato delle risposte non sempre convincenti. Forse perché la parabola non ha intenti psicologici relazionali, ma religiosi e metaforici, letti sul filo giuridico della spartizione dell’eredità, di spettanza del padre, nella cultura ebraica di quel tempo.
Eppure vi si narra la storia di un figlio irrequieto, che abbandona famiglia e familiari per “perdersi” nel mondo, e di fronte a questa scelta, la presenza della madre non è marginale, è la prima ad essere allarmata, a percepire i segni di una difficoltà di vita familiare. O forse perché a Luca interessa focalizzare la relazione in linea maschile padre-figli. O ancora forse perché dietro la figura del padre traspare piuttosto una funzione psicologica, quella della genitorialità che non ha genere, si parla di un padre, ma che può essere anche una madre. Quest’ultima è quella più convincente, anche se non del tutto, sostenuta da Paolo Farinella già nello stesso titolo del suo libro: Il padre che fu madre, “perché fa riferimento al genere umano indistinto” (Farinella, pag. 109), e perciò nel padre e nei figli ci siamo tutti noi che regoliamo la relazione genitoriale e filiale.
Due figli, di cui il maggiore, compare solo nell’ultima scena con un suo profilo dettagliato. Sul minore, pertanto, è tutta centrata la dinamica relazionale fra il padre e il figlio. Dinamica descritta in modo asciutto, volutamente essenziale, ma che fa apparire la complessità della relazione genitoriale.
Dammi
Nelle poche righe del quadro della prima scena colpisce come un pugno allo stomaco quel “Dammi” che è una stonatura relazionale, un violare una legge non scritta che regola la relazione fra un genitore e un figlio, ma certamente un violare il comandamento “Onora il padre e la madre, perché si prolunghino i giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio” (Es 20,12). Il figlio si rivolge al padre con un secco imperativo, dammi, con una secca pretesa, che non lascia margini di negoziazione, quasi fosse un suo diritto, anche se inizialmente lo chiama con il vocativo “padre”, che implica un riferirsi all’altro in modo confidenziale, affettuoso e rispettoso.
E’ l’ordine che stona nella relazione, in questa relazione, perché l’ordinare implica esercitare un indiscutibile potere relazionale su un altro, che ha minore potere, come avviene nella relazione complementare in cui uno, il genitore, è su e l’altro, il figlio, è sotto, uno comanda, l’altro ubbidisce. Questa è la tipica relazione padre-figlio, o insegnante-alunno e tutte quelle relazioni caratterizzate da una differenza di potere relazionale, come anche si verifica nella relazione di coppia. Relazione complementare che è funzionale nella relazione e nella comunicazione se non è rigida, bloccata, ma elastica, altrimenti diventa patologica.
Con quel dammi il figlio annulla la differenza fra sé e il padre, anzi la inverte, è lui che si fa padre con una inversione di ruoli, nuovo Edipo che sostituisce e “uccide” il padre, non riconosciuto come tale.
“I nostri figli non sono forse animati da domande imperative, dalla spinta a realizzare il prima possibile un godimento che non tollera più alcun differimento? Non è questo forse uno scoglio sul quale sembra infrangersi il discorso educativo contemporaneo? L’esclamazione «Dammi!» misconosce il debito ribaltandolo in un credito infinito. Essere figli non implica l’iscrizione della vita nella catena delle generazioni che ci hanno preceduto, non implica alcun debito simbolico ma solo un credito sconfinato. Il figlio minore non assume nessuna responsabilità se non quella della sua domanda impaziente.” (Massimo Recalcati: Il coraggio del figliol prodigo di sfidare il padre – Repubblica)
Ancora, in quel “dammi la parte di patrimonio che mi spetta”, c’è ancora una perentoria rivendicazione di un diritto, mi spetta, è mio. Ed in parte è vero, ma per la legge ebraica il figlio poteva entrare in possesso dell’eredità solo dopo la morte del padre. Quindi una terza violazione di una legge civile. Sa, il figlio, che c’è una legge che impedisce di avere quello che lui chiede, però, è certo che quel padre gli avrebbe dato quello che era “suo”, perché conosce bene quel padre buono che non gli avrebbe opposto un rifiuto. E cosi avviene: “Ed egli divise tra loro le sue sostanze”, senza esitare, senza chiedersi, apparentemente, se fosse giusto fare e dare quello che il figlio reclama.
E qui la mia domanda di sempre: Perché questo padre/madre è così accondiscendente, remissivo, accetta di mettersi down nella relazione con il figlio. Perché? Perchè non fa valere il suo ruolo e il suo potere? E perché ritiene giusto il suo comportamento? E perché accetta, subisce senza reagire, sceglie di accettare la posizione down nella relazione con il figlio, che si impone occupando la posizione di up?
Non si fa menzione di una reazione del figlio maggiore di fronte al comando del fratello minore. Certamente doveva sapere quello che suo fratello chiede e pretende dal padre. C’è invece silenzio, come se implicitamente, sapesse che sarebbe stato un vantaggio per lui restare figlio unico nella casa del padre, come succede a volte nella relazione conflittuale fra fratelli.