Quando il paziente ha ragione avendo torto
Giuseppe Basile
Può sembrare un paradosso, ma in terapia la “verità” può essere un pre-giudizio e non è raro addirittura trovarsi difronte a due verità contrastanti, quella del paziente e quella dello psicoterapeuta.
Di solito nella pratica psicoterapeutica vale la verità del terapeuta, è insignificante quella del paziente, perché ritenuta patologica, pertanto si fa inconsciamente un “abuso” di potere da parte di chi ha il potere. Ovvio quello dello psicoterapeuta, sebbene ha potere anche il paziente con il suo sintomo.
I fatti.
-
-
-
-
-
- Seduta di psicoterapia familiare in presenza di genitori, Silvia e Carlo, con una figlia adulta, Lucia e della collega che assiste e registra come di norma nella sala della videoregistrazione.
- Terapia iniziata l’anno precedente sospesa e ripresa da alcuni mesi.
- Nella seduta precedente la paziente chiede una seduta individuale, accordata dopo qualche giorno, comunicata data e ora con messaggio. Nessuna risposta. Io non sollecito la risposta volutamente.
- Di solito la paziente arriva in seduta da sola con un notevole ritardo.
-
-
-
-
La seduta
Ad inizio seduta preliminarmente faccio notare a Lucia il solito ritardo e la mancata conferma della data e ora della seduta individuale richiesta.
A questo punto scatta immediatamente una escalation verbale con un linguaggio e un pensiero egocentrico ed ermetico contro di me e contro i genitori, tutti accusati di non capire i suoi problemi emotivi, relazionali, familiari e lavorativi. Ma soprattutto la sua paura di aprirsi agli altri, di affrontare la vita, di comunicare il suo dolore perché gli altri non lo capiscono e che si sente vicino alla morte. Inarrestabile il suo dilagare senza tempo e senza limiti. Muto Carlo, Silvia accenna qualche timido tentativo di comprenderla, ma bloccata anche lei dalla veemenza di Lucia. Per lei il mio richiamo alla puntualità e alla mancata risposta al mio messaggio erano una piccola cosa marginale, quasi insignificante, rispetto al suo dolore indicibile, anzi erano segni di grave incomprensione del suo sintomo proprio da chi invece avrebbe dovuto capire.
Io recupero il mio equilibrio, la necessaria emotività almeno per capire questo dolore e questa paura apparentemente astratti e incomprensibili, senza nome né contenuti specifici.
Dopo un’ora faticossima faccio la rituale pausa per confrontarmi con la collega. Vagliati i pro e i contro non solo della seduta, ma della terapia, alla fine facciamo la scelta di comunicare onestamente che in queste condizioni sarebbe stato meglio interrompere la terapia, visti gli esiti e specialmente la mancata alleanza terapeutica fra terapeuta e paziente.
Rientriamo entrambi nella stanza della terapia, comunico la nostra decisione di interrompere la terapia per onestà professionale spiegando le ragioni della scelta. Mentre Carlo si dichiara d’accordo visti i risultati, Silvia non si esprime. È la paziente che immediatamente dichiara la sua opposizione all’interruzione, perché, secondo lei, almeno essere in terapia è un modo di comunicare in famiglia, cosa impossibile fare a casa, dove vige l’immobilismo, il silenzio, la separazione emotiva, l’incomunicablità, l’estraneità. A questo punto anche Silvia appoggia la richiesta di Lucia, convinta che le relazioni familiari sono in una condizione di “stallo”.
Convinti delle ragioni di Lucia, accettiamo la sua richiesta e quella di Silvia. Alla fine della seduta diamo un appuntamento per il prossimo incontro.
Alla seduta successiva notiamo immediatamente un clima diverso, sereno, pacifico già dall’entrata. Ci chiediamo cosa è successo? Entriamo entrambi, facciamo una seduta congiunta.
Domanda iniziale rituale: se è successo qualcosa di rilevante in famiglia durante dopo la seduta.
Carlo risponde sorridente che vede meglio Lucia, “avevo perso la speranza, … è cambiato il suo umore, … tutto merito suo, io non ho fatto niente per cambiarglielo, … viene a mangiare con noi”.
Silvia sorridendo concorda sul cambiamento di Lucia, “più profondo di quello che si vede, … sicuramente un percorso evolutivo sia nei nostri confronti sia nei confronti di se stessa, … un cambiamento sostanziale”.
Secondo Lucia tutto quello che è successo in seduta, specialmente per come ha espresso il suo stato d’animo, le sue ragioni, anche se con violenza, irruenza, esasperazione, le ha fa fatto nascere dentro “una forza positiva, … sono uscita più sicura, … è stato anche il modo come io ho potuto esprimere il mio punto di vista e riuscire a vivere senza nessuna ansia, libera, senza sintomi psicosomatici”.
Cosa è successo allora in quella seduta?
Stando semplicisticamente ai fatti, l’interpretazione che si può fare è che ci sia stato uno scontro non voluto né cercato tra il terapeuta che richiede il rispetto delle regole della terapia (puntualità e comunicabilità, e quella sottintesa dell’alleanza terapeutica, perché altrimenti non si va lontano) e il paziente che oppone le sue ragioni: il livello di sofferenza, il dolore che lo blocca, la paura che frena le sue possibilità di movimento e di essere. Nella mente del terapeuta c’è una verità indiscussa, che tutto ciò che è confuso, non definito, illogico non ha senso, con la quale non si va da nessuna parte se non verso il fallimento.
Nella mente di Lucia c’è l’altra verità che, essendo paziente, il terapeuta deve comunque accogliere e rispettare il suo star male, la sua sofferenza, anche se indefinibile e per lui incomprensibile, come se ci fosse un grado di priorità.
Viene prima la verità del paziente o la verità del terapeuta?
Senza dimenticare che comunque le nostre conoscenze del mondo esterno e interno sono influenzate dalle “distorsioni cognitive che l’evoluzione ci ha lasciato in eredità. È il caso ad esempio del cosiddetto «bias di conferma», ossia la tendenza ad accogliere e interpretare solo quelle informazioni che corroborano una nostra convinzione o un particolare sistema di valori”[1]
Due verità inconciliabili destinate ad escludersi e quindi bloccare e porre fine alla psicoterapia, se Lucia, con tono implorante e fermo non avesse dichiarato con insistenza una terza verità: “che comunque se siamo qua, qualcosa si è mosso, e lo dico io che qualcosa si è mosso, … se non fossimo venuti qua non parlavamo, … che comunque c’è un risultato per la dinamica familiare: che ci parliamo”.
E’ forse la speranza di una possibile riconciliazione familiare nonostante i fallimenti in tanti anni di sofferenza, di tentativi di cura che ancora una volta fa dire a Lucia: andiamo avanti ancora, nonostante l’impossibilità apparente, con l’unica risorsa che ci rimane, la possibilità della comunicazione familiare.
A tanta richiesta noi ci arrendiamo indifesi!
Ci ritroviamo dopo quindici giorni e vediamo quasi un’altra famiglia e un’altra Lucia.
[1] Perchè vedo soltanto ciò che voglio vedere? di Fabio Deotto -Corriere della Sera lunedì 3 maggio 2021