La scena rituale della sparizione del padre
[…] Nei sacchi ritenuti importanti da mia madre non c’era traccia dell’epoca in cui eravamo in tre, non c’era memoria di quando questo numero significava: me, mio padre, mia madre. Quello era il triangolo originario, ma la vita, per lei, partiva da un’altra epoca, da un altro numero tre: me, mia madre, la casa. E anche questo triangolo si sfaldava, perché i rapporti fra noi funzionavano come una diade ossessiva, un continuo duello: me e mio padre, me e mia madre, me e la casa, madre e padre.
[…] Arrivò da lontano un dolore familiare, non il languore della malinconia che è avido e ha bisogno di nutrirsi, ma il limpido richiamo della tristezza che chiede di arrendersi e basta, una sirena a cui mi consegnai disarmata. Dai sacchi saliva la stessa forza inarrestabile che avevo trovato negli occhi di mio padre, nella passività con cui subiva la nostra falsa allegria mentre noi facevamo finta che lui potesse guarire, temendo che la depressione sarebbe fuoriuscita dal suo sguardo per strisciarci incontro come una cosa che ci poteva contagiare. Se era un’epidemia allora mio padre era l’untore, e noi non avremmo potuto difenderci.
Passati il trauma e l’inverno, una sera qualsiasi nell’estate, con le zanzare a tormentarci le gambe, il filetto cotto poco e male sul piatto di portata, il brusio del neon e la polvere sulla plastica del lampadario, la televisione accesa con le più brutte canzoni per l’estate, io e mia madre avremmo dovuto semplicemente posare una forchetta e dire l’una all’altra: se n’è andato. Non parlare dell’umidità, non discutere dei centimetri innalzati dai vicini, non graffiarci le mani col ghiaccio del freezer per tirare fuori la carne congelata, non scottarci i palmi o l’avambraccio mentre la giravamo sulla graticola, non ferirci il corpo pur di tacere le parole. Piuttosto: mescolare le nostre lacrime con l’olio e il grasso della bistecca, nominare il corpo di mio padre, creargli una tomba fatta di frasi e anche di pianti, se necessario.
Non l’avevamo fatto, e la sua bara era rimasta dappertutto.
Supina, i sacchi ai miei piedi, le mani insozzate dalla patina sudicia del tempo, arrancavo verso l’oblò attraverso cui sarei potuta uscire, lanciarmi verso l’acqua o la luce, liberarmi, non girare più a vuoto. Ma nessuno dei miei pensieri si scansò per fare spazio a mia madre: non si può piegare un cerimoniale a una trasformazione, un cerimoniale si tramanda intoccabile di anno in anno, di giorno in giorno. Come sempre avrei dovuto agire da me. Stesi le braccia, aprii i palmi e mi rassegnai. Sul palco salì allora quell’attore perfetto che era stato mio padre, buio, luce, una suoneria, la sveglia, niente più sveglia, tre numeri: sei uno sei. Mio padre cominciò a stiracchiarsi e si alzò, apri l’armadio, scelse la camicia, fissò l’immagine di sé allo specchio, scelse la cravatta, abbandonò quella sbagliata sulla poltrona, allacciò le scarpe, si guardò indietro e via, fuori dalla stanza, fuori dalla porta, fuori dalle scale. Sipario.
Un milione di volte avevo ordinato a quella scena di ripetersi, seduta in prima fila nel mio teatro: più che un’ossessione, un rituale anancastico, come per alcuni lavarsi le mani in continuazione, non passare in mezzo ai pali della luce prima di un appuntamento, dividere gli oggetti di una stanza per forme e per colori. Riti, soltanto riti: permettono di attraversare un tempo minaccioso e oscuro promettendo la salvezza dopo la reiterazione. A ciascuno il suo, il mio era l’uscita di mio padre dalla casa. Al riparo dentro la mia narcosi potevo ritrovare sempre uguale la verità che preferivo: la sua era stata una ribellione, non una resa. Contro la paura della morte e la malattia depressiva, mio padre aveva reagito recidendo mia madre, me, il lavoro, la coperta color ocra, camicie, cappotti, pentole, sveglie, scarabei, un tetto pericolante, fotografie che non gli somigliavano più, un corridoio lungo come una galleria, tutti quei libri, tutta quella vita. Contro la morte che lo teneva in scacco e lo inchiodava a letto, aveva pronunciato la formula magica: niente mi appartiene più.
Sembra un comportamento immotivato, folle, malato. Solo così lo definisce l’opinione pubblica, quando non sa trovare una motivazione logica e razionale, come se il nostro mondo interiore fosse regolato solo da logica e razionalità. E la malattia sarebbe la depressione, che da male di vivere è classificata patologia sempre e in tutti i casi e curabile con gli psicofarmaci. Come fosse un’epidemia che non si sa come e perché colpisce e che va diffondendosi vertiginosamente nel mondo occidentale negli ultimi decenni, tanto che ”si è verificato un aumento straordinario di pazienti diagnosticati e trattati per questa psicopatologia. Questo aumento è davvero sbalorditivo per i pazienti ambulatoriali: negli USA tale incremento tra il 1987 e il 1997 ha raggiunto il 300%. Sulla base dei dati epidemiologici di cui disponiamo l’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che entro il 2020 la depressione diventerà la seconda causa principale di disabilità nel mondo” (V. Ugazio, Quello che la serotonina non spiega, – Terapia Familiare 2010).
Dunque la verità della figlia, assodata, costruita e ricostruita infinite volte in ventitré anni all’interno di una rappresentazione scenica ripetitiva è che la scomparsa del padre ”era stata una ribellione, non una resa”, piuttosto che arrendersi impotente a vivere in uno stato vegetativo insignificante. In quei lunghi giorni di solitudine e di silenzio assordante, la verità del padre: “niente mi appartiene più” di questa casa e di questa famiglia, ha il sopravvento. Quasi si fosse risvegliato dopo un lungo torpore, condannato a vivere una estraneità muta in una casa non più sua, una mattina alle 6.16, rimessosi dopo tanto tempo gli abiti ”curiali”, sceglie di sparire, “recidendo mia madre, me, il lavoro … “.
Eppure quest’uomo appare vivo e lucido nella sua scelta finale. Si riveste puntigliosamente dei suoi abiti professorali, sceglie di uscire di scena in silenzio, non visto e non sentito da nessuno. Perché? Non perché fosse un depresso, o paziente con disturbo ossessivo-compulsivo, come si dirà nelle pagine più avanti, ma perché spinto da altre motivazioni, anche se sconosciute. Colpisce la risposta della figlia, la sua verità: suo padre aveva finalmente scelto la ribellione alla morte psichica, alla condanna di una vita senza amore, alla comparsa di una presenza evanescente. Riappropriarsi in extremis della sua libertà di scelta di cosa fare della sua vita. Verità consolatoria a cui arriva la figlia dopo infinite ripetizioni rituali della rappresentazione della scena che si era costruita e che per lei era liberatoria.
Possono esserci altre verità nascoste all’interno di un matrimonio fallimentare, che niente hanno a che fare con la depressione, che andrebbero riscoperte con le tante trame relazionali con cui sono intessute le nostre storie familiari. Risuona comunque l’accusa e la rabbia alla madre che illuminano quello che c’era dentro in quel matrimonio: “Sarei scappata anche io da una moglie cosí, che mi umiliava davanti a mia figlia”.