Meno si ama e più si soffre
Michela Marzano.
[…] Il punto di partenza è la vulnerabilità. Che si doni o meno il proprio cuore a qualcuno, infatti, si è sempre vulnerabili. Si è vulnerabili quando si nasce, visto che si dipende in tutto e per tutto dai propri genitori. Si è vulnerabili quando si cresce, visto che anche se la dipendenza non è più totale, si è pur sempre dipendenti da quello che gli altri pensano e dicono di noi. Si è vulnerabili sempre, visto che anche se decidiamo di restare da soli, dobbiamo fare i conti con tutto quello che ci manca, quello che non siamo, quello che non avremo mai. La famosa “mancanza” di cui parla Jacques Lacan. Quella ferita ontologica che ci portiamo dentro perché nessuno di noi può mai «essere tutto» o «avere tutto».
E quindi? Quindi l’amore è ciò che ci aiuta ad attraversare questa mancanza, ad accettarla, a conviverci. L’amore è la certezza che l’altro ci riconosce così come siamo, anche se fragili e imperfetti. Anzi. Soprattutto se fragili e imperfetti. Ci riconosce e ci tollera. Ci riconosce e non ci domanda niente. Ci riconosce e ci aiuta a mettere insieme i cocci sparsi del nostro cuore. Il cuore non si spezza perché l’altra persona ce lo spezza. Il cuore si spezza perché è già spezzato, fin dall’inizio. Almeno fino a quando non si incrocia lo sguardo di colui o di colei che, amandoci, ci permette di convivere con le nostre ferite, esattamente come noi gli permettiamo di convivere con le sue.
Quando si ama, non si dona mai un cuore intatto. Quando si ama, si donano frammenti. Un puzzle che si ricompone pian piano, di fronte alla certezza di essere unici e non rimpiazzabili tra i frammenti del cuore altrui.
Vanity fair.it
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Commento
Già da quando nasciamo abbiamo bisogno dell’Altro per sopravvivere, dell’Altro che si prende cura di noi con o senza amore. Siamo vulnerabili fin dalla nascita per il bisogno di accudimento necessario e salutare, che se manca, gli esiti si vedranno durante la crescita evolutiva. È il bisogno di attaccamento che ci fa volgere lo sguardo e l’interesse verso l’altro che sentiamo che si prende cura di noi, per cui ci attacchiamo a lui, anche se non conosciuto nel suo mistero nascosto. L’Altro è la speranza che possa essere quello che ci aiuta a colmare la nostra mancanza, “è ciò che ci aiuta ad attraversare questa mancanza, ad accettarla, a conviverci”. Conoscenza destinata ad essere capita nel tempo dello stare assieme, quando si delinea una immagine dell’altro sempre più chiara, che ci porta a chiederci “chi è l’altro per noi”, e “chi siamo noi per lui”. A lungo andare le immagini reciproche si cristallizzano, diventano definitive fino a che noi vediamo l’immagine che l’altro si è fatto di noi. Solo allora c’è il riconoscimento se ci si sente amati dall’altro e viviamo reciprocamente nell’amore, se l’altro accetta il mio essere come sono ed io il suo.
Ma solo se nel tempo l’immagine che noi ci facciamo di come l’altro ci vede è negativa e dolorosa, allora subentra l’abbandono, si arriva alla rottura definitiva. Perché “Quando si ama, non si dona mai un cuore intatto”, c’è sempre una qualche ferita, coscia o inconscia, che si spera di sanare con l’amore dell’altro.
Perciò, quando un amore finisce, non sempre capiamo perché finisce, almeno al momento. Ci chiediamo nel tempo sempre il perché è finito, fino a quando non capiamo che nell’amore facciamo i conti con la nostra “mancanza ontologica” e le successive mancanze che accumuliamo nel corso della nostra storia. Tutto perché fin dall’inizio ci innamoriamo non dell’altro, ma delle nostre mancanze che speriamo inconsciamente possano essere sanate nello stare con l’altro.
Tutti noi abbiamo una storia in parte conosciuta e in parte sconosciuta, anche se raccontata dai testimoni, che ovviamente vedono i fatti e le vicissitudini con i loro occhi. Storia che come un puzzle frammentato, che, pezzo dopo pezzo, si ricompone gradualmente aiutati dall’altro che ci sta accanto che ci accetta come siamo.
La speranza, chiave della forza dell’amore, è che l’altro abbia occhi per vedere queste ferite e ci aiuti ad accettarle, rafforzandoci nella sicurezza di non essere soli nel viaggio. Ovviamente questo riconoscimento deve essere reciproco.
In fondo, ognuno di noi è specchio per l’altro in cui riflettiamo e vediamo le immagini parziali di quello che siamo e di chi è l’altro.