Il colloquio psicoterapeutico
“Nel colloquio ascoltiamo delle parole, ascoltiamo le parole di un soggetto. Siamo confrontati con un testo e dobbiamo fare attenzione estrema a ciò che un soggetto dice, alla lettera del suo discorso. […] L’attenzione al testo di chi parla è un parametro fondamentale e non ovvio nella conduzione di un colloquio. […] Dunque, la prima e fondamentale regola del colloquio clinico ci impone di non scavalcare mai il testo del paziente. Siamo come San Francesco rispetto ai Dottori della Chiesa quando nel Medioevo vi fu l’importante dibattito su come leggere i testi sacri. Le grandi università produssero testi di commento teologici, di interpretazione filosofica dei testi sacri; una produzione enorme, straordinaria, un’ermeneutica infinita. Poi arrivò san Francesco e disse: “Stiamo alla lettera!”, “Seguiamo alla lettera il Vangelo!”… È un’indicazione che deve servire anche alla nostra pratica. Non si interpreta il testo, lo si segue alla lettera. Questa indicazione costringe chi ascolta in una posizione di umiltà soggettiva. Non è importante ciò che interpreto in ciò che ascolto, ma è importante che io ascolti la parola del soggetto.”
Massimo Recalcati, “La pratica del colloquio clinico. Una prospettiva lacaniana”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017.
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Commento
Perché nel colloquio psicoterapeutico il testo del paziente, i suoi modi di dire e specialmente i suoi contenuti non vanno interpretati, ma si seguono alla lettera? Perché bisogna accettare quello che viene detto senza commentarlo? Perché il terapeuta deve districarsi come fosse in un labirinto di parole inconcludenti e rispettarle?
Ma perché il dire del paziente, anche se sconclusionato, incoerente, frammentario, fatto di silenzi, è il suo modo di essere e di viversi, anche se appare agli occhi degli altri illogico.
Tutto perché la logica del paziente non è la logica del terapeuta, egli parla e comunica con il suo sintomo, cioè con un comportamento e un pensiero irrazionale, con un modo di vedere la vita e viverla con un pensiero unico, il suo, anche se patologico.
Perché allora chiede aiuto? E se lo chiede, lo fa certamente per non sentirsi trattato da malato, desidera il cambiamento, ma non a qualsiasi costo, specialmente se il prezzo è l’annullamento del suo pensiero o l’indottrinamento del terapeuta.
Il paziente prima di tutto vuole sentirsi ascoltato e non interpretato in base ad una casistica o schemi diagnostici di psicopatologia, perché il paziente è sempre “unico” e diverso dagli altri apparenti simili, vuole sentirsi rispettato nella sua unicità.
Ho sempre presente quanto mi disse una paziente, ad una mia domanda curiosa, precedentemente in cura da un anno con un’altra psicoterapeuta, mi rispose: “Perché mi sono sentita strumentalizzata da una che mi dice che si era sbagliata ad inquadrarla in una categoria secondo il manuale diagnostico.”
Il paziente, in quanto unico, ha una sua storia relazionale, personale e familiare che lo differenzia nel suo essere in relazione da fratelli/sorelle, così come ha una relazione paterna/materna diversa. Così come una relazione terapeutica è sempre unica.
Perciò la relazione psicoterapeuta non può scavalcare quanto il paziente riferisce e racconta in un cammino di esplorazione, a volte lungo, della sua storia, e con la sua famiglia, quando questa è disponibile.
Qual è allora la funzione dello psicoterapeuta, se non è quella di interpretare l’origine e la funzione del sintomo?
A me piace definire la funzione terapeutica: l’essere accompagnatore del paziente nella conoscenza di se stesso, non protagonista del percorso, ma che stimola, attento, che sta tre passi indietro, che interroga e si interroga.
“In psicoterapia noi spesso agiamo come compagni di un paziente che è troppo spaventato per incontrare da solo le sue difficoltà.” (Alfredo Canevaro).
Specifico che dove andiamo e quale percorso seguiamo non è scritto in nessuna mappa e che partiamo dai pochi segni visibili che lui porta e manifesta. Partiamo così dai segni osservabili e dalla cronologia delle loro manifestazioni, come naviganti solitari che si avventurano per necessità in mare aperto verso un luogo più sicuro, dotati di una bussola e poche informazioni. E’ un viaggio e un apprendimento della conoscenza di sé che deve essere fatto quasi in solitaria con l’unico accompagnatore che dice però “di non sapere”, ma pronto, al bisogno, ad aiutare, anche se “sta tre passi indietro”. Il paziente deve sperimentarsi nella ricerca di sé in modo autonomo, nessun altro può fare questo lavoro di autoconoscenza al posto suo e nessuno può insegnargli regole o saperi su come fare.