Psicoterapia relazionale e gli incomodi interlocutori – Giuseppe Basile

Psicoterapia relazionale e gli incomodi interlocutori

Giuseppe Basile

Non dimentico a questo proposito il giorno in cui il mio analista mi disse: «Lei continua a essere pressato, in ciò che mi dice in risposta a cosa io le dico, da una sorta di fretta di cambiare: il suo problema è “essere”, non è dover “diventare diverso”, “cambiare”».

Fu un radicale mutamento di prospettiva: «potevo essere me stesso»… e quanto era difficile esserlo e acquistare il senso di avere importanza per quello che si è e si fa di per sé e per sé, visto che sino ad allora mi ero giocoforza dovuto specializzare nel cambiare per andare bene rispetto alle aspettative e ai bisogni dei miei, che mi avevano comunicato qualcosa del tipo: «devi cambiare, non va bene come tu sei».

(Franco Borgogno, The Vancouver Interview)

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Commento

Per poter Essere sé stesso e non un altro, bisogna conoscere sé stessi.

Per questo già nell’antichità Socrate, pur non lasciando niente di scritto, si limitava a interrogare, a porre domande ai suoi meravigliati interlocutori aspettando risposte. Per conoscere sé stessi bisogna scavare dentro di sé, avere cura di sé per conoscersi. γνθι σ(ε)αυτόν («Conosci te stesso») era scritto a caratteri cubitali sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, perché le verità che noi cerchiamo sono dentro di noi.

La stessa risposta dà lo psicoterapeuta a Franco Borgogno: le risposte dobbiamo trovarle in noi stessi se ne abbiamo la capacità, senza bisogno di aspettarsi da qualcuno che ci dica «“di dover “diventare diverso”, “cambiare”», a comando o secondo modello educativo sociale.

“Essere se stesso” è un lavoro di scavo dentro di sé, non facile e mai completo, è una ricerca che richiede passione di sapere, capacità di attesa perché gli esiti non sono immediati, presenza di familiari disponibili, che conoscono la storia familiare. E nonostante la presenza di queste condizioni, bisogna riconoscere che non siamo capaci di saper tutto, perché rimane pur sempre una parte nascosta e dimenticata di noi stessi e delle relazioni familiari, trasmesse e vissute, ma presenti e attive in noi, anche se non riconosciute e dimenticate.

Ma che si presentano in seduta, senza volerlo e saperlo, e si attivano, a volte prepotentemente, come altro del paziente:

“qui entrano in gioco l’essere calati nelle aspettative di chi ti è vicino, della società, ma anche del nostro vedere noi stessi, della nostra capacità di accettare le nostre ombre. Non è facile accettare la nostra parte oscura. Accettare la nostra parte oscura, non implica il dovere di raccontarla. E comunque quando con un sorriso si riesce a raccontarla, allora saremo sicuri di averla accettata.”

Così si esprime un mio paziente: “accettare le nostre ombre” non riconosciute e impensabili, attive, ma presenti in noi senza saperlo. La verità è che ognuno di noi, ha una identità composita, fatta per così dire per sedimentazioni di parti di relazioni precedenti, confuse, sovrapposte, contrastanti, dimenticate, sconosciute, inconsce, specialmente quelle infantili. Parti sensibili che si attivano in terapia a volte senza controllo, senza volerlo, a seconda delle circostanze nella comunicazione con l’altro con cui siamo in relazione. Tanto che a volte il terapeuta sente che il paziente in seduta è cambiato, come fosse altro, con altra personalità, con un sentire e un parlare diverso da quello conosciuto, quasi fosse un doppio. Non solo, ma anche il terapeuta inesperto ha la percezione di trovarsi davanti un “altro paziente” che ha una percezione del terapeuta diversa dal primo, quasi ci fossero dei doppi. Doppi pazienti, doppi terapeuti!

P: “Allora a tratti in quello studio siamo in quattro”, prende atto il paziente. “E perché il terzo sarebbe “Incomodo“? Probabilmente è il terzo che ha bisogno di cura, di Essere.

GB. ma perchè il probabile terzo è sconosciuto, è invisibile. E a dir la verità gli incomodi probabilmente sono più di uno: c’è anche il mio sconosciuto che lei vede in me e con cui si relaziona senza che io lo sappia. Quindi in seduta siamo almeno in cinque.

 Quando cerchiamo di capire e conoscere noi stessi, si attiva una relazione invisibile e silenziosa, che non ha bisogno di parole, ma che non è muta, caratterizzata dal bisogno di capire e scoprire i “perchè” mancati, ma presenti.

Assenze senza risposte, zone d’ombra nella storia di tutti noi, mancanze che si sono trasmesse e che forse si trasmetteranno di generazione in generazione senza saperlo e volerlo. Peggio se assunte acriticamente e passivamente, convivendo così con false verità e segreti familiari.

Certo non tutto si può sapere e scoprire del passato depositato in noi dalle generazioni precedenti, ma il desiderio di conoscere dovrebbe essere coltivato.

Ciò che hai ereditato dai Padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero!

era solito affermare Freud parlando di trasmissione dell’eredità psichica e non ancora di transgenerazionale in senso lato”[[1]].

Ci si potrebbe chiedere: ma a che serve tornare indietro, al passato che è in noi, anche se sconosciuto, tanto la vita è quella che si vive oggi e il futuro è imprevedibile, perché nessuno può dire quello che saremo domani e il passato non si può più cambiare?

Ma è vero che il passato, anche se sconosciuto, vive in noi attivamente, anche se raramente ce ne accorgiamo, e se siamo quello che siamo oggi in parte è grazie al passato che vive in noi nel bene e nel male, miscuglio familiare di sentimenti, esperienze, storie, credenze, segreti, giustizia e differenze generazionali.

Bisogna fare i conti con il passato quando il dolore di vivere bussa sistematicamente alla nostra porta. Aprire e aprirsi per ascoltare è la cosa più saggia da fare, se si ha la forza di farlo. È quello che avviene in psicoterapia familiare, specialmente se sono presenti più componenti della famiglia: aprire scenari diversi, dare voce anche agli assenti richiamati dal loro dimenticatoio, scrivere storie diverse.

Allora si aprono altri e nuovi scenari di una storia sconosciuta, inconscia, depositata, e a volte volutamente resa segreta. Il non detto, il non conosciuto, attivato inizialmente come scelta difensiva o protettiva, è potenzialmente patologico, se trasmesso e vissuto inconsapevolmente dalle generazioni successive.

 “Il problema si fa rilevante quando la necessità di acquisire uno stato di autonomia e separatezza comporta un processo di disidentificazione o di trasformazione creativa delle precedenti identificazioni. Questo processo comporta una selezione, una trasformazione, forse un abbandono delle precedenti eredità fantasmatiche che abbiamo ricevuto dagli altri, specialmente dai nostri genitori”.[2]

Processo non facile quello dell’abbandono delle identificazioni forzate per costruire una identificazione libera e personale.

 

[1] Il suono del silenzio. La dinamica della trasmissione transgenerazionale di Maurizio Gasseau, Fabio Borghino

[2] Il transgenerazionale tra mito e segreto, di Anna Maria Nicolò Corigliano, Contributo presentato al Seminario Internazionale di Studi “Dinamiche intergenerazionali nello sviluppo e nella clinica”, Napoli, 12-14 novembre 1993