Solo chi è forte sa mostrare il suo dolore
di Umberto Galimberti
Perchè i maschi non possono piangere in pubblico? Perché devono negarsi a quell’espressione che è stata data all’ umano per esprimere il dolore che fa riferimento a una vita che più non torna, a un amore che per sempre se ne è andato, a un’immagine di sé che è stata distrutta, e in genere a tutte quelle situazioni in cui la vita, come talvolta è solita fare, subisce quei bruschi sconvolgimenti da rendere ciascuno di noi irriconoscibile a se stesso, senza continuità con ciò che era, senza il mondo che da tempo abitava, senza nessuno sguardo che raccolga il suo dolore e senza nessuna parola che sappia contenerlo nei limiti del pianto. Piangere non è solo sfogarsi per ottenere una consolazione come solitamente si crede, non è solo una faccenda di donne che, con disprezzo, si crede teatralizzino tutto.
Piangere è concedere a quanti ci conoscono una via d’accesso al profondo di noi stessi che solitamente teniamo ermeticamente sbarrato, non perché nasconde un tesoro, ma perché temiamo riveli la nostra debolezza. Si tratta di quel profondo che ci fa vibrare col mondo che sollecita tutti i nostri sentimenti, e in nessuno dei suoi aspetti corrisponde a quella faccia imperturbabile che tale resta di fronte a qualsiasi evento, per consentire a chi la interpreta di potersi vantare della sua impenetrabilità. Che ce ne facciamo di uomini che non piangono e che scambiano la loro imperturbabilità per una sorta di forza, quando invece è solo un’assoluta indifferenza a quanto accade intorno a loro e, con molta probabilità, a ciò che accade (o più non accade) dentro di loro? Diffidiamo di quegli uomini che in pubblico resistono alla loro commozione, perché, più della gioia, più della rabbia, più dell’imperturbabilità, è il pianto a rivelare l’ “umanità” di un uomo, la sua capacità di partecipare al dolore del mondo con quella “com-passione“, che sola sa mitigare anche il proprio dolore. Negarsi questa possibilità che le lacrime concedono non significa essere forti, ma non essere al mondo e tra gli eventi del mondo con la tonalità giusta, quella che consente a chi soffre di dire: «quest’uomo è davvero accanto a me», e a chi con le lacrime manifesta il proprio dolore consente di segnalare la propria impotenza, cosa che possono concedersi solo le persone forti, aduse a frequentare più la loro verità che la loro apparenza.
Repubblica — 28 ottobre 2010
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La riflessione di Umberto Galimberti, filosofo, psicoanalista, nasce da un episodio di vita politica in Francia, dove di recente un ministro, dileggiato e umiliato in parlamento dalle opposizioni per la sua supposta incapacità, chiedendone a gran voce le sue dimissioni, non ha nascosto le sue lacrime e le sue emozioni. Ancor più per questo tacciato di essere una femminuccia, come se manifestare le proprie emozioni fosse una questione di sesso.
Molti anni fa, poco prima della sua morte, venne a Rovereto, per una conferenza, Cesare Musatti, padre della psicoanalisi in Italia. E davanti al folto pubblico, ad un certo punto della narrazione sulla sua vita, scoppia a piangere. Mi colpì questo episodio, impensabile, dato il personaggio, e spesse volte mi viene in mente. Possibile commuoversi facilmente in pubblico, e per di più, un uomo, e uomo famoso? Come se commuoversi fosse prevalentemente un fatto esclusivamente femminile, come se il pianto fosse un segno di debolezza?
Ma cosa significa commuoversi?, parola che deriva dal latino commovére che a sua volta è composta da cum e movére, “muovere con”, muoversi con/verso se stessi o con altri. Commozione è una emozione interna che si esterna, un sentire interiore, un partecipare visibilmente alla gioia o al dolore dell’altro con cui siamo in relazione, un segno di solidarietà umana e non di debolezza. Tutto il contrario di indifferenza, di freddezza, di disinteresse, di estraneità.
E’ il riconoscere la nostra umanità, comunque bisognosa dell’altro.