Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai! –
Giuseppe Basile
“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”
Luigi Pirandello “Sei personaggi in cerca d’autore
commento
Anche se sembra paradossale, è la verità: Non conosciamo noi stessi e non possiamo avere la pretesa di conoscere gli altri.
“Si passa la vita a cercare di conoscere, capire ed è opportuno sapere che ci sono limiti che in qualche modo dovremmo imparare al più presto a superare”, così commenta un amico del gruppo.
Ciononostante capirsi è problema per tutti, perché ci sono parti di noi stessi che rimangono sconosciute a noi stessi e agli altri e neanche la psicoterapia può esserci del tutto di aiuto. Perché ognuno di noi è figlio di generazioni che si sono succedute, e ognuna ha depositato tracce nello zaino invisibile che ognuno di noi si porta dietro le spalle.
Questo non significa che allora è inutile cercare di conoscerci se possiamo conoscere di noi stessi solo una parte della nostra vita presente e quindi rinunciare a mettersi in gioco per conoscere se stessi. Certo si può rinunciare a sbrogliare una vecchia matassa con cui è intessuta la nostra storia, ma se c’è un bisogno necessario per capire una difficoltà, una frattura nel nostro modo di vivere, se compare cioè un sintomo psicopatologico, allora può essere utile fermarsi per poter capire. Perché il sintomo è parola e comportamento che significa qualcosa, è dotato di senso, è messaggio, è comunicazione, anche se comunicazione metaforica, e non è solo patologia classificata, etichettata in un manuale psicodiagnostico, a cui si possa attingere per avere ragguagli e certezza su come possa essere curato ed eliminato. Vuol dire soprattutto che è arrivato il tempo in cui cominciare a fare i conti, specialmente quelli che non tornano, in cui bisogna diradare le nebbie e trovare una linea di continuità nella nostra vita fra presente e passato, è un tornare indietro per capire il presente.
Allora si va alla ricerca dello psicoterapeuta che può aiutare a guarire e quando lo si trova comincia anche una nuova relazione, la relazione terapeutica. Relazione unica, così come sono unici il paziente e il terapeuta, con le loro storie e i loro vissuti, specialmente quando il paziente “si mette nelle mani dell’analista” per imparare a “prendersi in/e per mano”, per sviluppare le capacità di autocura e di accudirsi da sé stesso.[1] E’ questa, a mio pare la cura più efficace, imparare a prendersi cura di sé, a conoscere se stesso mediante autoapprendimento anche se con l’aiuto e il sostegno del terapeuta, novello Socrate che si limita a fare domande di apprendimento di autoconoscenza e quindi di autoguarigione.
Così comincia il viaggio, chiedendo al paziente: dove andiamo e come, che a sua volta mi chiede se bisogna avere una attrezzatura adeguata, se ci sono mappe da seguire.
Ovviamente rimane imbarazzato e anche curioso. L’unica cosa che può dire è che sta male e non sa perché, e rimane stupito quando gli dico che non lo so nemmeno io nonostante quello che ha già detto.
Specifico che dove andiamo e quale percorso seguiamo non è scritto in nessuna mappa e che partiamo dai pochi segni visibili che lui porta e manifesta. E’ un viaggio e un apprendimento della conoscenza di sé che deve essere fatto quasi in solitaria, con l’unico accompagnatore che dice però “di non sapere”, ma pronto, al bisogno, di aiutare, anche se “sta tre passi indietro”. Il paziente deve sperimentarsi nella ricerca di sé in modo autonomo, nessun altro può fare questo lavoro di autoconoscenza al posto suo e nessuno può insegnargli regole o saperi su come fare.
Si modificano così i ruoli dell’analista e del “paziente”.
Chi cura chi, in questo nuovo contesto? Di quale domanda di cura si tratta? E‟ proprio la trasformazione della domanda l’indicatore dell’evoluzione del setting e, in esso, del diverso utilizzo del tempo: dalla fretta dell’efficienza del tutto e subito, all’efficacia del prendersi il tempo che serve per riflettere su di sé, analizzare i propri comportamenti, il proprio mondo emotivo, rendendo esplicito e accettando il proprio groviglio di desideri, paure, dolori, legami e interazioni con “gli altri”[2].
Autoconoscenza che diventa più significativa, e possibile, se i familiari del paziente si rendono disponibili a partecipare alla ricostruzione della storia familiare.
[1] Angelo Rovatta, Il tempo: elemento della cura e del setting in psicoterapia
[2] Angelo Rovatta, Il tempo: elemento della cura e del setting in psicoterapia