Il malessere dell’adolescenza
Michela Marzano
Nel corso degli ultimi anni le domande dei nostri ragazzi si sono moltiplicate. Ma le risposte sono state spesso banali e insufficienti. Perché noi adulti non siamo stati per loro un punto di riferimento.
[…].
Nel corso del Novecento, si capisce pian piano che l’io non è né uno, né indivisibile, ma frammentato; non è né libero né indipendente, ma assoggettato; non agisce, ma è agito. Come scrive Freud, introducendo la nozione di inconscio: «Nessuno è padrone a casa sua». Perché nessuno ha sotto controllo la totalità dei processi psichici che possono spingerlo a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Uscendo dall’illusione dell’io come pura trasparenza a sé stesso, si precipita nel nuovo paradigma contemporaneo della crisi permanente. Conclusione: chi oggi dice io, non sa più chi è. È sempre più perso, e chiede agli altri di spiegarglielo. Ma quanto spazio occupano le aspettative altrui all’interno del processo che porta alla costituzione identitaria del soggetto? Se io mi definisco in base alle tue aspettative, fino che punto riesco a essere altro rispetto a quello che tu pensi che io sia?
Nel corso degli ultimi anni, le domande si sono moltiplicate, ma le risposte di fronte alla quali ci si trova (e si trovano soprattutto i più giovani) sono spesso banali, insufficienti, per non dire semplicistiche. E allora è inutile che ci stupisca poi se il malessere adolescente aumenta, come sa chiunque e come ci ricordano quasi quotidianamente i fatti di cronaca. Sono sempre più numerosi i ragazzi che faticano a sapere chi sono e dove vogliono andare, e spesso e volentieri si rinchiudono all’interno di sintomi devastanti. Come se solo il sintomo potesse raccontare loro, se non proprio «chi sono», almeno «che cosa sono»: anoressici, bulimici, depressi, ansiosi, autolesionisti.
Chiunque, oggi, si sente in dovere di dire la sua sulla sofferenza e sul disagio dei più giovani, convinto di sapere esattamente perché si ammalano o non vogliono andare a scuola o sono aggressivi, violenti – non è colpa loro, dicono alcuni: c’è stata la pandemia, c’è stato il lockdown, ci sono i social; è difficile, pontificano altri: i ragazzi non si impegnano, non credono più a nulla, non hanno nessun senso del sacrificio. Ma quali certezze, punti di riferimento o esempi noi adulti siamo stati capaci di dare loro? In tanti costruiscono un falso sé, e passano il tempo a cercare di diventare ciò che immaginano di dover essere per ottenere l’amore e il riconoscimento degli adulti (genitori, educatori, insegnanti).
Fanno fatica a stare dentro i modelli talvolta estremamente rigidi e binari che vengono proposti loro, si sentono fluidi e rifiutano le etichette; ma poi, quando sono travolti dalle emozioni, non sanno come contenerle, e sempre più spesso si attorcigliano su loro stessi.
Vorrebbero poter capire come convivere con le proprie fratture in un mondo in cui nessuno sembra più avere il diritto di essere fragile, ma l’unica risposta di fronte alla quale si trovano è la patologizzazione dei propri disagi, con diagnosi che talvolta accolgono con sollievo – almeno hanno un quadro all’interno del quale iscriversi, anche se il quadro è quello della patologia: sono borderline o schizofrenico o anoressica. Una parvenza di identità che, dell’identità, non ha nulla. Anche perché non possono essere gli altri a dirci chi siamo – lo dobbiamo scoprire noi, pian piano, anche se a tratti è faticoso, doloroso. A meno di non voler tornare indietro nel tempo, quando a definire l’identità di ciascuno erano la tradizione, la religione, il potere politico o il pater familias.
Identità eterodirette che fanno a pugni con ogni forma di autonomia personale.
la Repubblica 13 settembre 2024
*** *** ***
Commento
Ci sarebbe da chiedersi perchè noi adulti non siamo più un punto di riferimento per i nostri adolescenti, intendendo per adulti specialmente noi genitori, insegnanti. Già l’aveva detto Freud nel secolo scorso che tre sono mestieri impossibili: educare, governare, curare. Mestieri e azioni che competono all’essere genitore con l’educare con il suo stile, con la sua personalità, con la storia vissuta nella sua famiglia di origine. E così comportamenti e modi educativi che si trasmettevano nel tempo, tanto che spesso si diceva “talis pater talis filius”, al punto tale da diventare copia del padre e della madre. Adesso assistiamo ad un cambiamento radicale della vita familiare che riflette il cambiamento della vita sociale. Ormai fin da piccoli i figli frequentano i più disparati corsi, non sempre per scelta, ma quasi per una collocazione per necessità, data l’attività lavorativa dei genitori e l’assenza dei nonni non più presenti come una volta. Così si sta molto meno tutti assieme in famiglia, forse poche ore la sera all’ora di cena, poi ognuno in solitudine nella sua stanza attaccato al suo smartphone. Meglio forse dire in una falsa solitudine, perché di fatto si passano ore a “navigare”, a vedere, ascoltare, incontrare chi vuoi tu. Ovvia la selezione con chi chattare e chi evitare, rafforzando così il potere della scelta, che il più delle volte appare una scelta sotterranea forzata, manipolata dalla informazione informatica. Giorno dopo giorno ognuno costruisce un falso sé, padrone di sè stesso di selezionare con chi stare e chi rifiutare: così senza accorgersene si costruisce a lungo andare, un modello di relazione narcisistica, per cui ci si relaziona in modo molto selettivo solo con quelli che condividono e accettano il suo “sé”.