Troppo odio, ripensare la fratellanza”
Massimo Recalcati

 

Come si diviene fratelli e sorelle al di là del mito della consanguineità? Si tratta di realizzare un legame solidale discreto senza la pretesa che tutto sia condiviso. Senza annullare l’esistenza separata dell’altro. Senza voler a tutti costi costringere il reale del Due dentro il recinto chiuso dell’Uno.
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Varrebbe la pena a questo proposito ricordare che il primo moto che orienta i legami tra i fratelli non è quello della fratellanza ma quello dell’odio e dell’inimicizia: l’odio è più antico dell’amore, il ripudio del fratello o della sorella più originario rispetto alla loro accoglienza. Questo per una ragione evidente: la nascita del fratello o della sorella impone un decentramento inevitabile alla vita del figlio, il quale è costretto a esporsi giocoforza al regime plurale del Due, all’impossibilità di essere un Uno tutto solo.
In gioco è la difficile esperienza del lutto dell’Uno. Non è, infatti, possibile sottrarsi all’incontro traumatico con il Due, non è possibile consistere solo di sé stessi.

Accade, come sanno bene gli psicoanalisti, anche ai cosiddetti figli unici. Essi non solo vivono sospesi al fantasma sempre in agguato della nascita di un possibile fratello o sorella, ma molto spesso si trovano nella necessità narcisistica di ribadire costantemente la loro condizione di superiorità.
Non a caso Franco Fornari, che fu mio professore all’Università Statale di Milano nei primi anni Ottanta, quando qualche studente indugiava troppo nel formulare in aula domande che assomigliavano più a veri e propri interventi, usava chiedere loro, con aria un po’ maliziosa: «Mi scusi, ma lei è figlio unico?».
Sapeva bene il mio vecchio professore quanto l’esistenza di un fratello o di una sorella introduca nella vita del figlio l’esperienza benefica, sebbene traumatica, di un limite e quanto sia difficile accettarne l’esistenza.
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Per un’altra parte però i fratelli e le sorelle rischiano il conflitto aperto, la lotta senza esclusione di colpi, l’aggressività inesausta di una rivalità irriducibile (Romolo e Remo, Caino e Abele, Giacobbe e Esaù, ecc). È l’altra faccia della stessa medaglia poiché sia la follia della fusione sia quella della rivalità fratricida vorrebbero sopprimere il Due.
Il mito di Narciso che si specchia nella rappresentazione ideale di sé stesso converge in questo senso con quello di Caino che uccide il fratello Abele mosso dall’invidia nei confronti di chi incarnava il proprio ideale. Invece di intraprendere il lutto dell’Uno imposto dall’esistenza del Due, Caino vorrebbe, infatti, cancellare per sempre il Due al fine di continuare a essere “l’unico” e il “solo” figlio.

È questo uno dei complessi psichici a fondamento del fenomeno collettivo della guerra: difesa a oltranza dell’Uno di fronte alla minaccia destabilizzante del Due. Non a caso i vissuti che scaturiscono dalla nascita di un fratello e di una sorella non sono mai solo di gioia, ma evocano sempre anche l’intrusione e l’esclusione. Il fratello e la sorella incarnano, infatti, la minaccia sempre possibile della nostra sostituzione. Si tratta di una esperienza di intrusione che ha come effetto principale una espropriazione: “il mio posto è stato preso da un altro”.
Ma come si diviene fratelli e sorelle al di là del mito della consanguineità che sostiene l’illusione fondamentalista dell’Uno che vorrebbe escludere il Due? Come si realizza una fratellanza e una sorellanza che non siano preda dell’odio? Si tratta di realizzare un legame solidale discreto senza la pretesa che tutto sia condiviso, senza annullare l’esistenza separata dell’altro, senza voler a tutti costi costringere il reale del Due dentro il recinto chiuso dell’Uno.
È quello che possiamo trovare nel gesto solo apparentemente enigmatico con il quale Esaù e Giacobbe si abbracciano lasciandosi alle spalle la lotta a morte per il loro prestigio, decidendo però di seguire due cammini differenti, di rimanere Due.
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La Repubblica 15 gennaio 2025

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Commento

Giuseppe Basile

Chi ha vissuto l’infanzia assieme ad un fratello o sorella forse si può riconoscere nella descrizione che ne fa Recalcati, passare dall’esistenza di essere Uno a quella di essere in Due: l’esperienza del sentirsi spodestato, senza più il privilegio dell’essere il primo e unico figlio. La nascita del secondo figlio modifica necessariamente gli equilibri relazionali della famiglia, anche se apparentemente l’unica novità, il nuovo arrivato, non scompiglia all’inizio radicalmente il modo di vivere in famiglia. Ma mano a mano che il secondo cresce e fa le sue richieste, il primo fa l’ esperienza della perdita del privilegio dell’essere unico, dell’essere al centro dell’attenzione, del non sentirsi amato come prima dai genitori, che invece si prendono cura del nuovo arrivato. Colpa dell’intruso, ora sentito come rivale, se i genitori non sono più unicamente disponibili totalmente ed esclusivamente per lui, lo scontro è conseguentemente anche con i genitori da cui si sente abbandonato e rifiutato.
Insofferenza e rifiuto dell’altro che a volte è sottaciuto, apparentemente invisibile, non riconosciuto dai genitori, ma che può esplodere visibilmente nell’età adulta con comportamenti patologici.
Differenza fra figli, che genitori riconoscono e attribuiscono totalmente e ingenuamente alla biologia che spiegherebbe anche la diversità di carattere. Non c’è la convinzione che ogni figlio/a che nasce è profondamente diverso, perché diverso è il contesto familiare e relazionale. Cambiano le relazioni, i genitori non sono gli stessi genitori del primo figlio e del secondo, perché il contesto in cui nasce il secondo non è lo stesso contesto del primo, tanto da poter affermare che ogni figlio che nasce ha genitori diversi.
Possono sembrare paradossali queste affermazioni, ma con il lavoro di psicoterapeuta, giunto alla fine, ho imparato che ognuno che nasce è Unico e inconoscibile nella sua profondità e nella sua stessa famiglia. Per questo da anni non uso manuali psicoterapeutici che per funzione e necessità, generalizzano inquadrando l’individuo in una classe diagnostica.

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