4. Io però non sapevo chi ero

[…] “Ecco in cosa ero stata brava fino a quel momento: a non cadere. A tredici anni, dopo la scomparsa di mio padre io, per vivere, mi sarei dovuta inventare. Come altri si costruiscono il corpo muscolo dopo grazie all’allenamento e all’atletica, oppure si scolpiscono la mente e l’intelligenza con la psicoanalisi, la cultura o la meditazione, come in palestra intagliano un tricipite o disseppelliscono un tendine che neppure sapevano di avere, come trovano il lavoro, lo stipendio necessario, la poltrona al sicuro, il titolo di studio, la posa per la foto sul passaporto, la postura adatta al carattere, il vestito che pare cucito addosso, insomma allo stesso modo in cui tutti inventano chi sono e inventandolo si impongono, allo stesso modo toccava a me. lo però non sapevo chi ero. Quello che mi era accaduto mi riguardava, ma era accaduto quando ero troppo piccola perché il mondo me lo riconoscesse. La gente non avrebbe interrotto il tempo e le proprie abitudini, tutti saremmo andati avanti perché il pianeta è pieno di sciagure, guerre e fame e stupri, e se un professore contrae la tristezza è soltanto colpa sua, ha mancato nel proteggere moglie e figlia dagli attacchi esterni e perfino da sé. Che uomo doveva essere un uomo cosi? Non gli è importato nemmeno della bambina, bisbigliava il silenzio della città; o forse alla città non importava nulla di me, di mio padre e della nostra famiglia, e quella era l’ipotesi più verosimile. Io e mia madre eravamo due certificati di nascita e un giorno saremmo state due certificati di morte, e in mezzo due schede elettorali, due testamenti, infine una leggenda lontana: guarda, in questa casa abitavano due donne – avrebbero detto i cittadini fra loro, passando sotto il mio balcone. Oppure non saremmo state niente, neanche due folcloristici fantasmi, e dopo di noi un’altra famiglia avrebbe acquistato la casa e l’avrebbe resa un luogo diverso. Allora aprendo la porta si sarebbe respirata una fresca normalità, ci sarebbero stati rumori di bambini e giocattoli, mobili lucidi e pareti tinteggiate, lavatrici efficienti, un calendario, una piccola lavagna e gessi colorati in cucina come dagli evangelici; la mia vita e quella di mia madre sarebbero finite, morte con noi, perché nuovi legittimi proprietari avrebbero comprato le nostre pareti e il diritto di spazzarci via. A questo pensavo nell’ultimo tratto di strada, tornando a casa, mentre dal finestrino cercavo lo stesso mare della mia infanzia. Io, se volevo vivere, quel mare dovevo attraversarlo e non fermarmi: il mio posto non era Scilla né Cariddi, e forse non esisteva in nessuna carta geografica, di sicuro non era una questione di chilometri. Ecco perché, anni addietro, Roma mi era apparsa la meta più adatta: la città più grande, la più forte, cinta da mura. Dovevo fuggire, entrare a cavallo nell’Urbe come un conquistatore e voltarmi, guardare la Sicilia con la distanza del telescopio e la sicurezza dei rifugiati, per poi dimenticarmi e confondermi con i turisti di piazza Navona, con i barboni della stazione Termini, con le fioriere sotto i balconi borghesi dei quartieri residenziali. Io ero fatta, in ogni atomo, dell’aria della casa di Messina, e per questo motivo avrei dovuto lasciarla. Poi le cose mi avrebbero seguito come i cani, la miseria e il fato, ma una volta al sicuro le avrei addomesticate, rese innocue, lontano dalla casa sarei stata nuda e lieve, libera. Cosi pensavo a vent’anni. Chi ero, continuavo dunque a chiedermi mentre mia madre parcheggiava e tiravamo fuori dal cofano le scatole appena comprate. Ero la bambina nata da un uomo e una donna che si erano amati per giorni brevi, la custode della depressione di mio padre, la figlia rabbiosa di mia madre, la studentessa paziente e meritevole, la giovane donna spaventata. Ogni giorno imparavo a nascondere la vergogna e indossare la forza come i marinai, a comandare da un angolo come comandano le donne. Io e mia madre eravamo una famiglia come se nulla fosse successo, ma eravamo anche speciali perché eventi innominabili erano successi proprio a noi. Il trascorrere del tempo restava, per me, una grande fatica.

Commento

Io non sapevo chi ero, questa è la verità di tutti noi, non solo della piccola Ida, che era già stata abbastanza brava a non cadere sotto il peso del trauma. Se prima non si era posta il problema per mancanza di autoriflessione, di autocoscienza, la scomparsa del padre è anche un trauma che interrompe bruscamente lo scorrere del tempo lungo un continuo uniforme. Tutto per lei non è più come prima, il trauma sconvolge i punti cardinali della navigazione della vita, per lei come per tutti noi, come fossimo dei sopravvissuti sperduti. Ma anche senza traumi violenti siamo costretti comunque ad assumere identità variabili, pur nella continuità e nella stabilità del nostro Io. Noi non siamo identità monolitiche, prima o poi nel corso della vita assumiamo o per scelta o per necessità identità diverse nei vari contesti sociali, familiari e lavorativi tanto da poter essere pirandellianamente “uno, nessuno e centomila”. Io non sapevo chi ero. Anche se poi ognuno di noi si costruisce le sue certezze e si inventa ingenuamente un suo modello di identità nella speranza di aver trovato il punto fermo del fluire eterno delle cose. Ma poi inesorabilmente ci pensa la vita a porre l’eterna domanda, chi sei, dove vai. Siamo figli per un pò, padri per un altro po’, mariti, mogli per un altro ancora, ma sempre alla ricerca di un senso che sfugge, tanto che alla fine ci pensa l’istinto atavico alla vita a sospendere la ricerca e a farci accontentare dell’immediato che incombe. Eppure si continua a credere all’illusione di sapere chi sono io e di sapere chi è l’altro che ci vive accanto. Io continuo a chiedermi chi sono e a darmi una risposta all’ammonimento sapienziale degli antichi greci scolpito sul frontone del tempio di Apollo a Delfi: Conosci te stesso. Conoscenza inesauribile, anche se i confini si possono ampliare, se c’è desiderio e passione, e prenderne atto ci fa sentire più umani, perché fragili, insicuri e bisognosi di aiuto e di amore.

GB