A chirurgo sta bisturi come a psicoanalista sta parola [1]

  1. A chirurgo sta bisturi come a psicoanalista sta parola [1]

  1. A chirurgo sta bisturi come a psicoanalista sta parola [1]

La vita puramente biologica è mortificata dall’azione del linguaggio.

Recalcati, Il complesso di Telemaco

“Raccontò anche lui all’amico le sue vicende, e n’ebbe in contraccambio cento storie, del passaggio dell’esercito, della peste, d’untori, di prodigi. – Son cose brutte, – disse l’amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio aveva resa disabitata; – cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi l’allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo”. (Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. XXXIII)

Da dove deriva il sollievo di cui parla il Manzoni? Adesso lo possiamo enunciare: deriva dalla basilare condizione di mancanza nella quale si trova l’essere umano fin dal momento della nascita e che il linguaggio cerca di colmare. La venuta al mondo è contrassegnata dalla fine della beatitudine che la vita intrauterina apportava, capace di garantire l’assenza di qualunque forma di necessità. Dalla nascita in poi il soggetto non è altro che un grido nella notte, una preghiera rivolta all’Altro, nel tentativo di colmare la mancanza ormai costituzionale[3]:

Nei primi mesi di vita il bambino produce comportamenti (pianto, sorriso, vocalizzazioni) come diretta espressione del suo stato di bisogno. Non c’è in lui alcuno scopo comunicativo, alcuna intenzionalità. L’adulto, tuttavia, può ricavare da questi comportamenti delle indicazioni sullo stato di benessere o di malessere del bambino. È significativo il fatto che molte madri imparino ben presto a distinguere il pianto causato dalla fame, da rumori molesti o dal bisogno di essere cambiato.[4]

Dunque, la vita umana è caratterizzata dalla presenza dell’Altro che risponde al grido. “In questo senso, ancora prima di imparare a pregare […], noi siamo una preghiera rivolta all’Altro. La vita può entrare nell’ordine del senso solo se il grido viene accolto dall’Altro […]. Solo se l’Altro risponde alla nostra preghiera”. Questa dialettica molto rudimentale e viscerale nella fase infantile non farà altro che riproporsi continuamente e costantemente per tutto il corso della vita di ogni essere umano.

[…] Il compito dell’analista è quello di restituire il senso della parola del paziente al paziente stesso, in una forma levigata. Ma questa levigazione non può avvenire sulla base di un preconcetto dello psicoanalista, ma deve instaurarsi sulla falsariga della vita del soggetto, che, come detto, è sempre una vita unica, irripetibile e non universalizzabile. Ecco perché l’ascolto e la valorizzazione della parola del paziente è il primo ed irrinunciabile passo. La pena è lo spostamento del paziente verso una presunta verità universale stabilita da canoni scientifici ritenuti universali, ovvero validi in qualunque situazione e per qualunque persona. Ma il funzionamento dell’essere umano non ha nulla a che vedere con il funzionamento del corpo umano. La verità della psicoanalisi non è la verità scientifica della medicina. La verità della psicoanalisi e la verità dell’uno per uno, la verità della pluralità delle lingue.

[…]

Laddove “l’Altro che disturba” può essere anche inteso come “colui che è disturbato”, espressione con la quale nel gergo si addita colui che soffre di una qualsiasi forma di psicopatologia o che semplicemente si comporta in maniera “stramba”. Tali semplici stramberie o anche i veri e propri sintomi non solo altro che dei comportamenti inizialmente funzionali per mantenere l’equilibrio del soggetto, ma che successivamente si sono estremizzati facendo propendere l’ago della bilancia verso il disfunzionale piuttosto che il funzionale. La psicoanalisi insegna che anche le forme più acute di delirio rispondono a questo schema, ovvero:

Il senso di un sintomo deriva, come abbiamo appreso, da una relazione con le esperienze del malato. Quanto più individualizzata è la forma del sintomo, tanto più possiamo sperare di riuscire a stabilire questa connessione. Sarà allora nostro compito, semplicemente, di rintracciare, per un’idea senza senso e per un’azione senza scopo, quella situazione passata nella quale l’idea era giustificata e l’azione rispondeva a un fine.[5]

[…] Prima di concludere, è d’obbligo rammentare una massima di Freud: Niente di ciò che abbiamo posseduto nella mente una volta può andare completamente perduto. Alcune di queste conoscenze, esperienze e ricordi si possono sedimentare nella mente in maniera disfunzionale e che il soggetto deve imparare a trasformare in funzionale ed “è necessario tutto un processo educativo per consentire a una persona di reimparare a leggere un testo[6]. Il testo in questione è ovviamente la vita stessa del paziente. La clinica psicoanalitica è una clinica sotto transfert, ovvero una pratica in cui è in gioco l’amore fra due esseri umani e solo l’esperienza dell’amore rende possibile la nascita una nuova vita, “una nuova apertura del mondo, un mondo visto non più dalla prospettiva dell’Uno da solo, ma in quella del Due”[7] E dunque, l’Uno non è più da solo. Ha gridato nel buio della notte. Ha ricevuto la risposta dell’Altro, in grado di accogliere la sua preghiera sotto forma di parola che appartiene ad una lingua unica che appartiene alla verità della vita unica ed irripetibile di colui che ha gridato.[8].

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Commento

Il paragrafo proposto per la riflessione al gruppo fa parte dell’articolo Psicoterapia solo chiacchiere o talking cure con sottotitolo La forza della parola nel trattamento della sofferenza umana.

 

L’attacco inziale è:

“In un’epoca in cui l’utilizzo dello psicofarmaco è sempre più quotidiano, si assiste ad un netto peggioramento delle condizioni di chi ne fa utilizzo piuttosto che al miglioramento preventivato dalla molecola farmacologica[9]. Superando le iniziali resistenze, le evidenze scientifiche hanno iniziato a constatare come in sé e per sé il farmaco non costituisca una soluzione e che dei benefici a lungo termine sono apprezzabili solo in combinazione con un trattamento psicoterapico”.

[…] Parte della popolazione si interroga ancora su come possa considerarsi una vera e propria terapia una seduta di psicoterapia in cui lo specialista non fa altro che interloquire con il paziente”.

Bisogna ammetterlo: avanza di anno in anno la tendenza a psichiatrizzare e psicologizzare in modo sempre più indiscriminato il disagio, il malessere, la relazione difficile, la difficoltà scolastica, l’adolescenza problematica, le relazioni familiari, il lutto familiare. E contemporaneamente si assiste all’aumento quasi esponenziale di “tecnici del dolore umano” presenti e diffusi nel sociale, tanto da chiederci in termini economici se è la domanda (il disagio diffuso) a creare l’offerta (psicologi e psichiatri) o l’offerta presente sul mercato che crea la domanda.

E comunque la domanda attorno a cui ruota il discorso è: la psicopterapia è vera cura, secondo scienza, o insignificanti chiacchiere fra terapeuta e paziente, parole vuote e senza reale incidenza sullo stato di salute del paziente.

Vero, la psicoterapia fa uso prevalentemente della parola, della parola del paziente e la parola dello psicoterapeuta, entrambi usano il linguaggio per stabilire una relazione, la relazione terapeutica. Linguaggio emotivo soprattutto e linguaggio personalizzato da come la persona lo usa, per i sensi espliciti o sottintesi, per i silenzi, le divagazioni, le allusioni, per il carico di sofferenza, spesso indicibile, lacunoso o apparentemente senza senso plausibile. Il linguaggio umanizza e identifica chi lo usa. Ma sopprattutto mette in relazione l’uomo con l’altro da me, per il bisogno di essere con l’altro riconoscendo la propria non autosufficienza. La ricerca dell’altro è istintiva, il riconoscimento che l’io non basta a se stesso, che è meglio essere Due, tanto che quando ci troviamo in gosse difficoltà, davanti “a cose da levarvi l’allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo”. Riuscire a a parlarne con l’Altro che ti ascolta è un aiuto, quasi fosse lo stesso nostro urlo infantile sostitutivo della parola a chiedere aiuto per fame, per dolore, per paura per mancanza della sua figura di Attaccamento. Anche se sappiamo che l’urlo può restare inascoltato o “perché non tradotto nella sua domanda” o perché l’Altro è assente e non risponde.

È anche quello che succede in psicoterapia, si ripete il primitivo schema infantile. Prima c’è l’urlo infantile del/la paziente in una condizione di sofferenza che chiede all’Altro, ritenuto capace di ascoltare e aiutare il  suo specifico dolore che ha una sua storia e un suo contesto relazionale e familiare. Non vuole sentirsi incasellato in una categoria diagnostica anonima, non vuole sentirsi trattato come un caso psicopatologico indifferenziato da manuale. Si aspetta soprattutto amore per la sua umanità sofferente, ci spera almeno di ricevere una risposta alla sua domanda di aiuto. Lo sforzo maggiore che deve fare lo psicoterapeuta è di decifrare un linguaggio divenuto oscuro nel tempo. Il terapeuta deve mettersi in gioco non tanto con il suo sapere scientifico freddo, ma con il suo saper essere in un reale ascolto. Che non è cosa facile, che richiede capacità di ricerca, di mettersi in gioco per capire l’Altro che è sempre diverso da me e da tutti gli altri che ho conosciuto e ascoltato. Probabilmente alla fine ciò che guarisce “è essermi sentita ascoltata per la prima volta. Ecco cosa mi ha guarita, aver ricevuto la mia parola!” come disse ad un insistente intervistatore, Margarethe Walter, ultima paziente di Freud, guarita in una sola seduta.

“E dunque, l’Uno non è più da solo. Ha gridato nel buio della notte. Ha ricevuto la risposta dell’Altro, in grado di accogliere la sua preghiera sotto forma di parola che appartiene ad una lingua unica che appartiene alla verità della vita unica ed irripetibile di colui che ha gridato”.

[1] Purtroppo non sono riuscito a trovare l’autore dell’articolo scaricato tanto tempo fa. Chiedo venia all’autore sconosciuto che meriterebbe il giusto riconoscimento per il valore dello scritto Se qualcuno lo conosce gli sarei grato di farmene menzione.

[2] M

[3] non si può restare attaccati al cordone ombelicale, né al seno, né alle proprie feci, né si può avere tutto, godere di tutto,

essere tutto […]”, Recalcati, Il complesso di Telemaco 2014a, p. 30

[4]

[5]  Freud, (1915-17), Introduzione alla psicoanalisi, Newton Compton, Roma, 2013, p. 205

[6] 54 Lacan, 1969a, p. 135

[7] 55 Recalcati, Non è più come prima, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014, p. 31

[8]

[9] 1 Nel 2018 il portale AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha rappresentato un dato allarmante: rispetto all’anno precedente, infatti, è aumentato dell’8% il numero di italiani a cui è stato somministrato un farmaco per combattere ansia, nevrosi, attacchi di panico e insonnia. (Rapporto OsMed 2018)

Nel 2017 circa 3,7 milioni di italiani hanno assunto psicofarmaci, mentre il consumo di benzodiazepine è stato 50 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti. Dati allarmanti a cui va aggiunto il sommerso, nonché il numero di persone che, pur avendo bisogno, per vergogna, decidono di non farsi aiutare (AIFA).

Cfr: https://www.stateofmind.it/2020/07/psicologo-cure-primarie-legge/