A cosa serve la fenomenologia nelle depressioni? . Eugenio Borgna

A cosa serve la fenomenologia[1], in psichiatria e in particolare nello studio delle depressioni, nell’epoca della tecnologia e della biologia molecolare, della nosografia esasperata e della trionfalizzazione dei sintomi?

Quando, in psichiatria, si abbia anche solo a sfiorare il tema della fenomenologia, rinascono immediatamente i fantasmi su di un indirizzo metodologico considerato astratto e labirintico, letterario e rapsodico, a cui la psichiatria scientifica non può se non essere estranea. In questo modo, non si ha alcuna coscienza metodologica della ambiguità [54] della psichiatria, e cioè del suo essere scienza naturale, come ogni altra disciplina medica, con il suo ideale di esattezza, e del suo essere anche scienza umana con il suo ideale di rigore: nel senso di Heidegger [96].

La fenomenologia ci fa riconoscere la profondità e la complessità dei fenomeni costitutivi della condizione depressiva, e ci fa sentire, ogni volta più viva, l’esigenza di dialogo e di colloquio: partecipando emozionalmente, nel segreto della nostra interiorità, al destino dell’altro-da-noi.

Come è possibile cogliere il senso di una parola, il segreto di un volto e di uno sguardo, l’ombra di un sorriso e di una lacrima, quando mi confronto con una persona nel contesto della vita quotidiana, o in quello del colloquio clinico? Cosa avviene in ciascuno di noi quando dalla parola, o dal volto, di un altro (di una altra persona) si irradia una condizione di angoscia o di disperazione, di dolore o di smarrimento, di stupore o di vertigine dell’anima? Come è possibile entrare in questo dialogo senza fine fra quello che noi siamo e quello che sono gli altri: fra quello che gli altri immaginano, o fantasticano, e quello che immaginiamo noi e facciamo vivere nella nostra fantasia: fra le loro emozioni e le nostre emozioni?

Cosa è possibile dire, quali sono le nostre parole, quando gli altri, sani o malati, chiedono il nostro aiuto: chiedono nel senso della immagine smagliante di Manfred Bleuler [32] che si dia loro una mano? Quali consonanze, e quali dissonanze, fra il tempo e lo spazio vissuti di chi si confronta con noi, e l’esperienza che è la nostra del tempo e dello spazio? Come leggiamo, come sappiamo leggere, la scrittura (il linguaggio) di un testo, e la scrittura (il linguaggio) di un volto: ancora più enigmatico di molti testi, e infinitamente più camaleontico?

Non è possibile rispondere, almeno in parte, a queste domande, nelle quali sono in gioco la riuscita, o lo scacco, delle cure e, in particolare nella depressione, gli orizzonti ultimi della vita e della morte, se non ci confrontiamo fenomenologicamente (con l’aiuto della fenomenologia) con la interiorità, con la soggettività, di ogni paziente: cercando insomma di decifrare il senso e il cammino misterioso della sua sofferenza: ascoltandone, e interpretandone, le risonanze segrete: invisibili agli occhi della ragione e visibili solo alle ragioni del cuore: alla intuizione ermeneutica e fenomenologica.

Eugenio Borgna – Le interruzioni del cuore, Feltrinelli

[1] La psichiatria fenomenologica è quella corrente psichiatrica che, più di tutte, nel corso del Novecento fino a oggi, ha cercato di intrecciare un rapporto stretto, vitale e costitutivo con la filosofia, in particolare quella di Edmund Husserl e quella di Martin Heidegger. In tal senso, essa “ha come oggetto [non] il cervello ma [...] un soggetto, una persona, analizzata e descritta nelle sue emozioni, nei suoi pensieri, nelle sue fantasie, nelle sue immaginazioni: nei suoi modi di essere che non si identificano nel comportamento, ma nei significati che si esprimono in ogni singolo comportamento”[

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Commento

Io non conosco la depressione con l’etichetta, quella diagnosticata secondo manuale, anche se incontro pazienti depressi, che mi raccontano e descrivono la loro depressione, ognuno a modo suo, unico e personale. Alcuni tratti sono comuni e ricorrenti, ma il modo di viverli è unico come unica è la vita e il modo di viverla. Appartiene alla persona che la vive, è incomprensibile per gli altri, anche per lo psicoterapeuta, che può essere empatico, vicino, disponibile all’aiuto, impegnato nella ricerca di qualcosa che sfugge, ma resta muto, e deve restare muto, nell’ascolto del dolore, che ha una voce e un linguaggio indecifrabile, piuttosto che sfornare etichette apparentemente rassicuranti.

La depressione è una condizione esistenziale prima di tutto e prima di classificarla come una malattia, ha una storia, non è un accadimento improvviso, un sintomo, che basta curarlo con gli psicofarmaci. Si ha la convinzione, specialmente da parte di una certa psichiatria, che la sintomatologia depressiva sia solo una malattia medica e non, forse soprattutto, una malattia dell’anima, un malessere, uno star male che deve fare i conti con una storia interiore bloccata, che bisogna cercare e riconoscere ferite dolorose del cuore non rimarginate, ferite che il più delle volte hanno una natura relazionale.

Ma “nell’epoca della tecnologia e della biologia molecolare, della nosografia esasperata e della trionfalizzazione dei sintomi”, tutto ciò è insignificante, parole vuote, cura arcaica. Si preferisce piuttosto seguire la convinzione falsa che aggredire il sintomo sia l’unica terapia, e che una volta eliminato o ridotto la persona riacquisti la sua vitalità.

Ma il sintomo non è solo patologia da estirpare ad ogni costo. Il sintomo significa invece qualcosa, è dotato di senso, è messaggio, è comunicazione, anche se comunicazione metaforica, e non è solo patologia classificata, etichettata in un manuale psicodiagnostico, a cui si possa attingere per avere ragguagli su come possa essere curato ed eliminato. Il sintomo ha una natura metaforica, comunica qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, qualcosa che va ricercata con pazienza, passione e desiderio di conoscere per aiutare.

Non sempre la ricerca e la interpretazione del sintomo è facile e non sempre la si trova. A volte io confesso umilmente che mi trovo con le mani vuote, anche dopo molta fatica e molte energie spese nella ricerca, e lo comunico al paziente, anche se può sembrare controproducente offrire all’altro che si affida me l’immagine di un terapeuta senza potere, piuttosto che ammantarmi di un finto potere. Ma nello stesso tempo comunico che non abbandono la persona e la ricerca del senso del suo star male, se c’è ancora fiducia nella relazione terapeutica.

[1] La psichiatria fenomenologica è quella corrente psichiatrica che, più di tutte, nel corso del Novecento fino a oggi, ha cercato di intrecciare un rapporto stretto, vitale e costitutivo con la filosofia, in particolare quella di Edmund Husserl e quella di Martin Heidegger. In tal senso, essa “ha come oggetto [non] il cervello ma […] un soggetto, una persona, analizzata e descritta nelle sue emozioni, nei suoi pensieri, nelle sue fantasie, nelle sue immaginazioni: nei suoi modi di essere che non si identificano nel comportamento, ma nei significati che si esprimono in ogni singolo comportamento”[