Addio cultura umanista. Per i ragazzi non ha senso di Marco Lodoli

Addio cultura umanista. Per i ragazzi non ha senso

Marco Lodoli

«Io non esisto più, sono diventata invisibile», mi dice una professoressa con la voce spezzata e gli occhi umidi. «Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta. Nessuno, capisci? E così per giorni, mesi, forse per tutto l’anno. La mia voce non gli arriva, parlo e vedo le parole che si dissolvono nell’aria, e dopo un poco mi sembra che anch’io mi dissolvo, resta solo un senso di impotenza, di fallimento». Quante volte negli ultimi anni ho raccolto dai miei colleghi sfoghi di questo genere: professori di lettere, storia, filosofia, arte che si sono ben preparati per la loro lezione e che finiscono a parlare nel vuoto, come radioline lasciate accese in un angolo, e a poco a poco si scaricano, si spengono malinconicamente. Perché accade questo, perché sembrano saltati i ponti e le rive si allontanano sempre di più? A riguardo mi sono fatto un’idea.

Finita, esaurita, muta, forse non proprio morta e sepolta, ma di sicuro messa in cantina tra le cose che non servono più: la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato ed educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell’uomo, alle sue domande, ai suoi timori. Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all’atto, alla maieutica e all’iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all’idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti.

È chiaro che da qualche parte, in un eccellente liceo classico, esiste e resiste un ragazzo che legge Platone, scrive sonetti, suona il violino e studia la pittura di Raffaello, la vita per fortuna si diversifica per avanzare. Ma per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi tutto il patrimonio culturale del nostro paese non significa più niente. È un universo in bianco e nero, malinconico, pensante e dunque pesante, polveroso come una parrucca. E non serve che gli adulti lo lucidino per farlo apparire più vivo: se brilla lo fa come una bara. È così, c’è poco da fare, l’oceano del passato non arriva più a lambire la spiaggia del presente. 

Anche Huckleberry Finn rifiuta la storia di Mosè e della manna nel deserto quando scopre che Mosè è morto da secoli, della gente morta un ragazzo non sa che farsene, dice Huck, e forse ha ragione. Ma per la mia generazione, e quella di mio padre, e quella di mio nonno – e più indietro non vado – il passato non era un tempo che svaniva insieme ai foglietti del calendario. Certi morti non erano mai morti. Fossero gli eroi greci o quelli del Risorgimento o Che Guevara, fosse Mozart o John Coltrane o Luigi Tenco, i grandi continuavano a vivere nell’immaginazione e nella riconoscenza dei ragazzi. Una catena d’acciaio o una ghirlanda di fiori univa il meglio al meglio, la bellezza alla speranza, la forza alla fiducia. Leggevo Dostoevskij e Tolstoj come se fossero dei fratelli maggiori, non li collocavo nel regno cupo dei morti, le loro parole erano vive, non sussurrate da un tempo lontanissimo fino a perdersi nell’incomprensibilità. 

E i quadri di Bellini e quelli di Morandi entravano a far parte dello stesso museo interiore, ogni giorno una nuova opera si sistemava su una parete vuota: e le pareti erano infinite, come le meraviglie del passato. Oggi i ragazzi non si voltano più indietro, gli prende subito la tristezza perché alle spalle avvertono solo un cimitero degli elefanti. La vita è adesso, qui e ora, e poi di nuovo qui e ora, e quello che è stato è stato, e tutte le chiacchiere dei vecchi sono fumo nel vento. Il presente si nutre di se stesso, digerisce se stesso e va avanti. L’arte, il pensiero, la letteratura dei secoli andati è lenta, è puro impedimento vitale, ruminamento in epoca di fast food.

Naturalmente anche la politica esce con le ossa rotte dalla fabbrica delle nuove produzioni mentali e sentimentali: anche la politica è fumo nel vento. Questa è la stagione del desiderio, dell’onnipotenza tecnologica, dei corpi che vanno più veloci del pensiero, è la stagione del disprezzo verso ogni forma di misura, di armonia, di compostezza classica, di ragionamento lento e articolato. Sillogismi, rime, consonanze, prospettive, equilibri, riflessioni sulla miseria e la grandezza dell’uomo: via, giù tra le macchine da cucire e il cinema muto, tra i libri dei poeti e i fiori secchi. La cesura è netta, un taglio secco, del passato non si recupera quasi nulla, la cultura umanista finirà tutta quanta in una bella mostra a Roma o a Firenze, e ci sarà la fila per ammirare il cadavere mummificato: ma i ragazzi stanno tutti altrove, davanti a qualche schermo acceso, su qualche aereo che vola sul mondo, in un futuro che allegramente, superbamente, se ne frega di ciò che è stato e che non sarà mai più.

Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan. Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l’urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei.

«la Repubblica», 31/10/2012

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Commento

Giuseppe Basile

Anch’io mi sono trovato a vivere lo stesso sentimento di fallimento della professoressa diventata invisibile, inesistente. Da anni non sentivo un fallimento così forte di me stesso. Dopo vent’anni sono di nuovo entrato in una classe scolastica, chiamato da una mia ex alunna, ora professoressa, a parlare da professionista di psicologia e psicoterapia in una sua classe durante un corso di orientamento scolastico post diploma, corso a cui si erano liberamente iscritti gli alunni. Avevo accettato volentieri la proposta, sia perché veniva da una mia alunna, che rivedevo volentieri, sia perché pensavo di essere utile e capace di trasmettere un sapere e una esperienza, forte del mio passato di insegnante e ora di psicoterapeuta, per aiutare giovani studenti a scegliere il loro futuro.

Ma fin dall’inizio è stato un impatto deludente, nonostante non avessi nel portamento e nelle parole niente di professorale. Mi sono presentato con l’intenzione di concordare, esplorare, contenuti, argomenti con quel piccolo gruppo. Niente di imposto, di deciso, di programmato, fra l’altro erano gli alunni stessi che avevano scelto di partecipare liberamente a quelle ore di “lezioni” all’interno di un corso di orientamento di una scelta successiva di studi universitari. Mi aspettavo una partecipazione nella scelta dei contenuti specifici. Invece silenzi e borbottii inconcepibili in ragazze e ragazzi di 18 anni.

Impotente, mi sono sentito impotente, nonostante facessi appello alla mia arte scolastica passata.

Allora ho pensato e deciso che avrei scelto io la traccia: la teoria dell’attaccamento umano e la corrispondenza con la psicopatologia. Niente da fare, mi sentivo “come quella radiolina in angolo che nessuno ascolta, fin quando si esaurisce la batteria”. Così per otto ore, nonostante l’aver usato tutti gli accorgimenti informatici, ormai ovvi e scontati, compreso il maxischermo in uso nelle scuole, l’aver fatto vedere videoregistrazioni di protocolli sull’attaccamento, osservazioni del comportamento del bambino nel rapporto con la sua figura di attaccamento. E quant’altro di citazioni di esperienze osservate in studio.

Ma la mia meraviglia non era finita. Al momento della verifica scritta, che a questo punto ho imposto, suscitando il loro stupore e la loro contrarietà, tutti si sono presentati con il loro smartphone come compagno di banco fidato. E delusione finale inimmaginabile, gli elaborati prodotti erano quasi tutti fotocopia, a parte qualche piccola differenza, infarciti di termini specifici di cui credo non conoscessero neanche il significato. Niente è attecchito, nessuna citazione di quanto avevano visto nei filmati è comparsa nei protocolli di verifica. Solo copiature uniformi e raffazzonate. Questi erano i figli e gli alunni di internet. A loro bastava con pressapochismo ricopiare senza grande fatica e senza interesse quello che in mezzora poteva essere sintetizzato quanto detto in otto ore dal vivo da un “alieno” capitato in classe.

Non potevo non pensare a me e ai miei alunni di trent’anni prima. E il confronto era abissale. Mi chiedevo e continuo a chiedermi: Possibile che la scuola nel giro di così poco tempo sia cambiata e che siano cambiati i giovani?

Forse, non è solo un problema di contrapposizione di vecchio e nuovo che avanza, ma di un fenomeno generalizzato, che interessa tutti, educatori, politici, psicologi, genitori, sociologi. Di fronte al dilagare del fenomeno si nota un percepibile smottamento per cui arginare e mettere difese diventa sempre più arduo. Ricordo la stessa battaglia che si fece con la televisione quando diventò oggetto di consumo di massa, con i risultati che si vedono: televisori in ogni camera per tutti, anche se ora i televisori fanno bella mostra di sé spenti, perché l’interesse si è spostato sul web. Questo ha preso il posto della televisione, per cui si cominciano a vedere bambini piccoli con telefonino, usato non come giocattolo unifunzionale per telefonare, visto che ora i genitori sono in ansia quando i loro figli sono fuoricasa. Difficile dire no, anche se giusto, quando tu appari l’unico in classe che sei senza. Anche in classe diventa arduo, per quel che sento e leggo, far valere l’auctoritas dell’insegnante, che, isolato, gli tocca difendersi da genitori agguerriti o dal lassismo dilagante.

Se il nuovo linguaggio informatico plasma ormai le menti alla semplicità, all’immediatezza, a non “perdere” tempo, alla brevità, alla mancanza di giudizio critico, per cui oggi si fa ormai fatica a leggere un testo più lungo di alcune decine di righe, allora io dico che siamo di fronte a qualcosa di preoccupante, senza dare la colpa a nessuno, né ai giovani omologati, né ai vecchi fossilizzati. C’è certamente un salto, non solo generazionale, di linguaggi e di mentalità, ma non sarei così sicuro nella distribuzione del bene e del male.

E la mia alunna professoressa a dirmi, per rincuorarmi, che quasi questa era ormai la norma. Possibile che sia staccata la spina della corrente fra insegnante e alunno? O anche quella fra genitori e figli? Allora è un problema non solo degli alunni, dei figli, dei genitori, degli insegnanti, ma sociale, generazionale e culturale.