Ascoltare il sintomo – Giuseppe Basile

 

Ascoltare il sintomo.

Giuseppe Basile

 

Così, Daniela Barbacovi, un’amica del gruppo degli Anici della Bottega dello Psicoterapeuta, commenta il mio post Incontro con una potenziale paziente pubblicato il 29/07/22.

 

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“Il sintomo non è solo patologia da estirpare ad ogni costo. Il sintomo è parola.. è dotato di senso……. (G. Basile)

 

Ascoltare il sintomo è avvicinarsi a quell’Anima che non trova le parole per esprimere il disagio, e solo attraverso un sintomo, spesso addirittura organico, cerca di manifestarlo, questo male che pesa come un macigno ma la cui origine è spesso oscura.

Non è semplice riuscire a districare una matassa attorcigliata, magari mescolata ad altre matasse con i loro nodi. E la famiglia è un insieme di matasse che si intrecciano, si annodano, qualche volta in modo confuso, dolorosamente malato.

Il paziente sente l’empatia del terapeuta, ma anche la sua stanchezza, la possibile delusione, fino a momenti di nausea che possono prendere, (perché anche questo può succedere).

E se il paziente non lo sente, non lo avverte, è perché viviamo in una società che considera “ il sintomo …. una patologia da estirpare ad ogni costo”( G. Basile), subito, per quel mito dell’efficienza che ha reso l’uomo moderno, una macchina, Charlie Chaplin docet, un “pezzo”, che ha valore solo se “utile“.

Allora, tra i compiti del terapeuta c’è quello di portare il paziente a comprendere che c’è un tempo per ogni cosa, e che lui stesso, non solo con la sua paura, le sue paure, ma accompagnato, (quasi un nuovo Dante, in quella foresta che è l’Animo) imparerà a guardarsi dentro senza l’angoscia di incontrare sé stesso (un sé stesso che può anche mutare nel tempo), e troverà il significato del sintomo, ma cosa più importante il significato della sua esistenza.

Non dobbiamo dimenticare che molti sintomi si trascinano per anni, perché per mille motivi, con mille scuse, non si è stati capaci di chiedere a se stessi che cosa desidero per me, come posso realizzarmi, perché devo sentirmi in debito o altro che pesa nel cuore.

E le famiglie dovrebbero essere luoghi di scambio, e i genitori, fari che indicano la posizione del porto, e i figli, come navi, attrezzati ad affrontare il mare, con le sue tempeste e le sue bonacce.

Questo per me dovrebbe essere la nuova cultura, che dovrebbe permeare la società.”

 

Commento

 

Bisogna ammetterlo: avanza di anno in anno la tendenza a psichiatrizzare e psicologizzare in modo sempre più indiscriminato il disagio, il malessere, la relazione difficile, la difficoltà scolastica, l’adolescenza problematica, le relazioni familiari, il lutto familiare. E contemporaneamente si assiste all’aumento quasi esponenziale di “tecnici del dolore umano” presenti e diffusi nel sociale, tanto da chiederci in termini economici se è la domanda (il disagio diffuso) a creare l’offerta (psicologi e psichiatri) o l’offerta presente sul mercato che crea la domanda.

E comunque la domanda attorno a cui ruota il discorso è: la psicopterapia è vera cura, secondo scienza, o insignificanti chiacchiere fra terapeuta e paziente, parole vuote e senza reale incidenza sullo stato di salute del paziente.

Vero, la psicoterapia fa uso prevalentemente della parola, della parola del paziente e della parola dello psicoterapeuta, entrambi usano il linguaggio per stabilire una relazione, la relazione terapeutica. Linguaggio emotivo soprattutto e linguaggio personalizzato da come la persona lo usa, per i sensi espliciti o sottintesi, per i silenzi, le divagazioni, le allusioni, per il carico di sofferenza, spesso indicibile, lacunoso o apparentemente senza senso plausibile. Il linguaggio umanizza e identifica chi lo usa. Ma soprattutto mette in relazione l’uomo con l’altro da me, per il bisogno di essere con l’altro riconoscendo la propria non autosufficienza. La ricerca dell’altro è istintiva dalla nascita, come il riconoscimento che l’io non basta a se stesso, che è meglio essere Due, tanto che quando ci troviamo in grosse difficoltà, riuscire a  parlarne con l’Altro che ti ascolta è un aiuto, quasi fosse lo stesso nostro urlo infantile sostitutivo della parola a chiedere aiuto per fame, per dolore, per paura, per mancanza della sua figura di Attaccamento. Anche se sappiamo che l’urlo può restare inascoltato nella richiesta o perché non tradotto nella sua domanda o perché l’Altro è assente e non risponde o anche presente ma non capisce la domanda.

È anche quello che succede in psicoterapia, si ripete il primitivo schema infantile. Prima c’è l’urlo infantile del/la paziente in una condizione di sofferenza che chiede all’Altro, ritenuto capace di ascoltare e aiutare il suo specifico dolore, che ha una sua storia, un suo linguaggio e un suo contesto relazionale e familiare. Non vuole sentirsi incasellato in una categoria diagnostica anonima, non vuole sentirsi trattato come un caso psicopatologico indifferenziato dalle definizioni manualistiche. Chi chiede aiuto si aspetta soprattutto amore per la sua umanità sofferente, spera almeno di ricevere una risposta alla sua domanda di aiuto.

Lo sforzo maggiore che deve fare lo psicoterapeuta è sapere ascoltare, di decifrare un linguaggio divenuto oscuro nel tempo. Il terapeuta deve mettersi in gioco non tanto con il suo freddo sapere scientifico, ma con il suo saper essere in un reale ascolto. Che non è cosa facile, che richiede capacità di ricerca, di mettersi in gioco per capire l’Altro che è sempre un diverso da me e da tutti gli altri che ho conosciuto e ascoltato. Il paziente è sempre un caso unico

Probabilmente alla fine ciò che guarisce “è essermi sentita ascoltata per la prima volta. Ecco cosa mi ha guarita, aver ricevuto la mia parola!” come disse ad un insistente intervistatore, Margarethe Walter, ultima paziente di Freud, guarita in una sola seduta.