Che cosa strana è il mondo 17 – – Il sesto giorno

IL SESTO GIORNO

Una delle caratteristiche della vita, e uno dei suoi privilegi, è la capacità di riprodursi. L’acqua, l’aria, le pietre non si riproducono. Solo gli esseri viventi si abbandonano senza stancarsi a un doppio esercizio che basta a definirli: scompaiono e riappaiono, muoiono e resuscitano, diversi e simili.

Vivere, è prima di tutto morire. Le piante, i fiori, gli alberi, i ricci, i koala e noi moriamo perché abbiamo vissuto. E viviamo solo per morire. Ma vivere è anche avere il potere di trasmettere agli altri, con una sorta di magia che gli uomini chiamano l’amore e in cui si mescolano orgoglio, piacere, caso e tutti i meccanismi più rigorosi della necessità, questa vita che ci sfugge. La morte e l’amore sono le due facce inseparabili della vita. Ci riproduciamo perché moriremo. E dobbiamo morire per riprodurci.

Nei mammiferi, nei primati, negli uomini, la riproduzione passa attraverso la sessualità. Chi si riproduce? Degli individui separati. Si riproducono per permettere alla vita di prendere delle forme nuove che pure ripetono, almeno in parte, le forme antiche destinate a scomparire. I figli sono la morte dei genitori che si avviano verso la loro fine nella vertigine del piacere.

Questo compito è, più di ogni altro, il nostro esercizio più familiare. Nutre la maggior parte dei nostri romanzi, dei nostri film, delle nostre tragedie, delle nostre commedie e delle nostre opere. È anche, ma non ci pensiamo mai, una delle nostre pratiche più stupefacenti. L’idea che, per mantenere l’ordine del mondo, per assicurare la continuità della storia della vita e dell’umanità, per permettere al pensiero di proseguire il suo lavoro sull’universo, sia necessario che due individui di sesso differente si avvicinino è, nonostante la sua banalità, o forse a causa della sua banalità, di una natura tale da provocare un bel po’ di domande e di perplessità.

La cosa più notevole è che, tra gli uomini, il compito di permettere alla storia di proseguire è affidato alla loro decisione – sostenuta da un piacere così vivo che finisce a volte per prendere una dimensione metafisica. Che ci sia o no un Dio, è agli uomini – termine generico che abbraccia le donne – che appartiene in ogni istante di ripetere quel sesto giorno celebrato dalla Genesi – «Dio vide ciò che aveva fatto, ed ecco, tutto era molto bello» – e di ricreare continuamente con le loro forze ciò che c’è di più prezioso nell’universo.

NEI SOLCHI DELLA MANO

In questo universo inesauribile e abbastanza poco verosimile, gli uomini non si contentano di riprodursi e di morire come tutti gli esseri viventi. Fanno molte altre cose – ma, prima e avanti a tutto, pensano.

Che cos’è, pensare? È farsi un’idea di se stessi e del mondo intorno a noi. Chi si fa una tale idea? Solo, per quanto sappiamo, nell’immensità dell’universo, un individuo minuscolo fino all’inesistenza: io – cioè noi. C’è più distanza tra l’universo e l’uomo che lo sta pensando di quanta ce ne sia tra un granello di sabbia e l’oceano. Ma il granello di sabbia, che è meno di niente, è capace – miracolo inaudito – di pensare a se stesso e di pensare al tutto.

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«Nessun uomo è un’isola completa in se stessa – scriveva John Donne circa quattrocento anni fa – ogni essere umano è una parte del continente, una parte del tutto. Non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te». Un ordine globale regna in questo mondo in cui ogni parte contiene il tutto e in cui il tutto riflette ogni parte. L’universo è un sistema i cui elementi sono legati gli uni agli altri. Noi condividiamo con tutto ciò che esiste una lunga storia comune; siamo, come tutto il resto, della polvere di stelle; le iguane, i pipistrelli, le brughiere, gli abeti sulle montagne sono nostri parenti più o meno prossimi; e, secondo la formula di William Blake, «ogni uomo possiede l’infinito nei solchi della sua mano».

Jean d’Ormesson – Che cosa strana è il mondo – Edizioni Clichy 2015