Chissà che a suo modo non possa curare
La filosofia può curare? In fondo, è una vecchia domanda, ma adesso, e particolarmente qui da noi, in Italia, sta tornando a farsi sentire con una singolare insistenza.
Questa insistenza sulle “pratiche filosofiche”, e in modo più preciso su quella pratica nascente che si chiama” consulenza filosofica”, è il dato nuovo e interessante. […]
Poi, a quanto sembra, c’è già un piccolo manipolo di “consultanti”, reali e potenziali, cioè persone che chiedono un aiuto filosofico per i loro scompensi esistenziali, piuttosto che rivolgersi allo psicologo o allo psicoterapeuta (magari prima di farlo o magari insoddisfatti dell’esperienza che hanno avuto). ….
Prima ancora di proporre una personale valutazione su questo fenomeno, vorrei cominciare a rispondere con chiarezza alla domanda iniziale. La filosofia non è una cura, se consideriamo la nozione normale di cura intesa come un trattamento tecnico, e dunque in qualche modo medico, di sintomi e disturbi che si configurano come malattia o patologia di tipo specifico. Chi va dal filosofo non è un malato, e se lo è ha sbagliato indirizzo.
Ma allora chi è? Diciamo che è una persona normale. Noi, che in genere ci riteniamo normali, abbiamo molti problemi e di solito facciamo fatica a dare senso alla nostra vita, talora ci blocchiamo in dilemmi, nodi relazionali, vicoli ciechi esistenziali, e ci pare spesso di non riuscire a rappresentare questa matassa contraddittoria attraverso un pensiero adeguato. Molti se la cavano da soli, altri possono pensare di trarre vantaggio da un dialogo aperto con qualcuno che li aiuti a considerare meglio la loro vita, allo scopo di arrivare a mettere un po’ più di ordine logico nelle loro individuali biografie. Visto sotto questa luce, il fenomeno la dice lunga sulle carenze sociali e politiche che minano il buon governo delle nostre normali esistenze. L’eventuale presenza del filosofo può supplire ad alcune di queste carenze, ma apre nel contempo rilevanti scenari critici.
In questo senso non si vede perché la filosofia, che da sempre promette una cura di sé e degli altri, non possa a suo modo “curare” e, chissà, perfino “salvare”. Questa “cura” può essere chiaramente circoscritta: si tratta di sbloccare la paralisi del pensiero, talora murato in un’unica dimensione o in un unico scenario o — se vogliamo dire – paradigma, per tentare di fornire più spazio o più “gioco” a forme alternative di rappresentazione del proprio vissuto e in definitiva a una pluralità di dimensioni o paradigmi di pensiero. Il consulente filosofico potrebbe farti vedere che ci sono molti modi per leggere e dunque vivere la tua storia personale, insomma che c’è spazio per pensare altrimenti il mondo in cui ti senti incapsulato. Magari “abitando” le tue stesse contraddizioni, facendone perfino tesoro, scoprendo che l’idea di un’esistenza semplice e non scabrosa è solo un mito paralizzante.
Già, ma quale filosofia? Ecco il pesante macigno problematico che subito rotola verso la filosofia stessa, la sua tradizione, la sua disciplinarità, i suoi modi storici e attuali di trattare la questione della verità. Va da sé che il consulente filosofico, se vuole avere una credibilità, non potrà inondare il cosiddetto consultante con precetti, discorsi o sistemi di verità, soluzioni già pronte, ed è perciò che la figura emblematica, il padre nobile della consulenza, è per tutti Socrate. Ed è anche per questo motivo che nella consulenza filosofica viene soprattutto rivalutata la pratica dell’esercizio, direi dell'” esercizio spirituale” se l’espressione non desse subito adito a una valanga di equivoci. Se c’è una verità, si dice giustamente, questa verità dev’essere costruita assieme durante l’esercizio del dialogo.
Sapevo da qualche tempo che nel mondo dello psico stanno entrando anche i filosofi. Incuriosito, ma senza approfondire, la prima cosa che ho pensato è che è un bisogno di ricerca occupazionale, e in parte credo che sia così, per cui, se tanti a vario titolo si stanno riversando in questo mondo già affollato, perché no i filosofi? Forse anche per loro è arrivato il tempo di smascherare il motto che girava ai miei tempi, nel ‘61, quando controcorrente scelsi di laurearmi in filosofia: “La filosofia è quella cosa con la quale e senza la quale si rimane tale e quale”.
L’occasione di osservare meglio questo fenomeno mi è venuta leggendo l’articolo del filosofo Pier Aldo Rovati: Siamo diventati analfabeti della riflessione, ecco perché la solitudine ci spaventa, ultimo post pubblicato nel gruppo degli Amici dello Psicoterapeuta. La solitudine non solo ci spaventa, ma ci tormenta, nel lungo tempo produce malessere, male di vivere, senza essere per questo una malattia sintomatica. La solitudine è una condizione esistenziale in cui ci si trova non per scelta ad un certo momento della vita. Se ne esce se siamo capaci di dare un senso alla nostra vita, un senso vitale, non accomodante o suggerito da altri pseudo sapienti indottrinati per riempire un vuoto. Il senso va scoperto, è una ragion di vita che sostiene, va trovato nel dialogo interiore con se stessi prima di tutto, con la “pratica dell’esercizio spirituale“, è una ricerca e una risposta ai primitivi e infantili Perché. Aristotele nella sua Metafisica ci ricorda che filosofia e scienza nascono dalla curiosità, dalla meraviglia. E i bambini sono i primi filosofi, perchè naturalmente curiosi esploratori del mondo esterno.
Perciò ho voluto seguire la mia curiosità e capire meglio, perché nella mia pratica psicoterapeutica m’imbatto con una certa frequenza in casi che avrebbero bisogno non di una cura, ma “di sbloccare la paralisi del pensiero, talora murato in un’unica dimensione”.
Mi pare così di ritrovarmi, senza esserne consapevole, ma per esperienza, ad esercitare l’antica arte maieutica di Socrate, padre comune di filosofi e psicoterapeuti, anche se operano senza interferenze in campi diversi.