Cosa resta del Prof – di Andrea Bajani

Cosa resta del Prof

Andrea Bajani

 

[…] Ho condiviso gite di classe con professori magnetici, trascinatori, carismatici. Altre con professori al traino che – a vederli camminare insieme ai ragazzi dentro i musei, con le loro biografie troppo pesanti – ti si stringeva il cuore e ti montava la rabbia: li vedevo evaporare a ogni passo che facevano, annoiati accanto ai quadri.

… Certo è che ho incontrato molti Professori della Testimonianza, e mi pare che non si possa che ripartire da loro. Insegnanti che in classe erano fuochi che divampavano sopra la cattedra. Ne ho incontrati alcuni che compravano libri a proprie spese per regalarli ai ragazzi, che organizzavano concorsi letterari, che invitavano a scuola autori di romanzi perché raccontassero ai ragazzi il mistero di una cosa che nasce e diventa una storia. Ho partecipato a lezioni che mettevano i brividi per eccentricità, coraggio e profondità. Professori che testimoniavano il proprio essere insegnanti, e per questo non avevano paura di passare il testimone del loro sapere ai ragazzi. Ne ho visti molti che entravano in classe e facevano il proprio mestiere nell’unico modo possibile: accendendo gli occhi nell’esercizio, come si suol dire, della propria funzione, inducendo i ragazzi a desiderare per se stessi i medesimi occhi, sapendo che l’unica strada era quella che passava per Foscolo, gli aminoacidi o Ramsete III. Soprattutto, ho visto che cosa succede a un ragazzo quando un professore fa davvero testimonianza del proprio essere Prof: alza la testa quasi contro la propria volontà, contro la propria stessa accidia, spalanca gli occhi, ammira, adora, alza la mano e poi parla. E il professore lo ascolta. E poi li ho visti uscire da scuola insieme, ragazzi e Professori della Testimonianza: li ho visti camminare vicini, e ho visto da dietro ragazzi sulle punte, goffi, oppure spacconi, presuntuosi.

… Nell’epoca dell’evaporazione del professore, non resta dunque che provare a essere professore per quel che si può. Per amore del proprio paese, del proprio lavoro, e dei ragazzi seduti dietro i banchi. Fare dono di sé come i bambini che infilavano rotoli di carta igienica dentro un cestone di vimini. Con le poche energie che si hanno e con quel poco o tanto che si riesce a fare in un’aula, stinti e delegittimati da tutto. Però non basta. Come non basta l’esercizio del dono che un bambino impara per gioco, non sapendo che in realtà il suo dono è funzionale, è necessità, che il suo obolo sta mettendo una toppa all’emorragia dello stato sociale. Ho il sospetto che accettare la Testimonianza o il Dono come soluzione della deriva, della svalutazione, dell’abbandono della scuola italiana sia prima di tutto un errore politico e in fondo anche l’esercizio di una connivenza. Siamo contenti – e sempre lo saremo– di avere insegnanti bravissimi, volenterosi, che testimoniano attraverso il lavoro quotidiano il «gesto etico di responsabilità nei confronti del proprio desiderio». Allo stesso modo in cui siamo contenti e orgogliosi che negli ospedali italiani lavorino medici di cosiddetta eccellenza, che tutto il mondo ci ammira e ci invidia. Però non possiamo accettare che senza quegli insegnanti, senza la loro operosa Testimonianza, la scuola torni a essere lo specchio di un Rinuncianesimo diffuso, il teatro di uno scollamento e di uno stallo più generale. Così come non accettiamo che senza quei medici di cosiddetta eccellenza non sia possibile curarsi. Vogliamo essere certi che il giorno in cui quei medici e quegli insegnanti non lavoreranno più – perché saranno andati in pensione, perché si saranno ammalati, perché non ne avranno più voglia – ci sarà comunque qualcuno che sarà in grado di salvarci la vita. Dentro le sale operatorie come tra i banchi di scuola.

È esattamente quello il punto in cui interviene la politica, e in cui la politica deve ricominciare ad agire. Professori del Nome o Professori della Testimonianza: ne abbiamo ancora troppo bisogno per rassegnarci a vederli sbiadire aspettando la campanella. E con loro i nostri figli, e noi, e un paese di cui sventoliamo le bandiere, nostalgicamente, superficialmente, soltanto durante gli anniversari o le partite di calcio.

La scuola non serve a niente – Andrea Bajani

Commento

E’ un momento nostalgico questo. Rileggo la pagina dopo cinque anni dalla prima pubblicazione e ritrovo la stessa nostalgia di allora e rinnovata sicurezza nell’andare avanti.

 

Non posso non ritornare indietro al lontano 1967 quando a 25 anni ho cominciato ad insegnare e riconoscermi in parte in quel lavoro innovativo e nuovo per me, passare dai banchi scolastici alla cattedra. Non so se con il tempo sono stato un Prof Testimonianza, un Prof del Nome questo lo diranno gli “eredi” alunni, ma devo pur dire che mi piaceva enormemente fare il Prof e che, pur potendo ad un certo punto della mia storia fare il lavoro che continuo a fare adesso, ho optato di restare a fare il Prof, fino a quando non sono più riuscito a far accendere gli occhi dei ragazzi, a trasmettere entusiasmo, a coinvolgerli e coinvolgermi in un lavoro appassionante. Qualche mattina ho anche improvvisato i contenuti da trattare e mi trasformavo in un narratore, in attore recitante e sentire i volti e gli occhi dei ragazzi calamitati dal racconto e alla fine sentirmi chiedere se era vero o tutto inventato, lasciandoli nel dubbio creativo. E tutto questo lo potevo fare solo al biennio, là dove il programma era scelto, costruito in libertà dall’insegnante. Non erano i contenuti che bisognava far passare e trasmettere, ma lo spirito critico, il desiderio di sapere e di conoscere, e il piacere di stare assieme. Allora le gite di classe alternative, lo stare assieme in montagna in casa di qualcuno che rendeva la casa disponibile e vivere un pezzo di vita scolastica comunicativo. Ho mollato quando mi è venuta meno la passione di portare i ragazzi in montagna!

Ma parte di quel lavoro scopro ora che lo ripropongo in un altro contesto lavorativo, quello psicoterapeutico.

        • La passione, innanzi tutto, quella stessa molla di allora mi sostiene ancora oggi, e non per vanagloria, ma perché sento di essere ancora utile a chi bussa alla mia porta, anche se le mie forze cominciano a vacillare.
        • Sono stato Prof del Nome, del nome che individua, fin dall’inizio ho chiamato gli alunni con il loro nome, piuttosto che con il cognome. Il nome che definisce una relazione e ne riduce la distanza senza con ciò confondere i ruoli. Ho accettato che anche loro mi chiamassero per nome, ma solo il giorno dopo che non erano più miei alunni,allora eravamo  solamente un tu che incontra un altro tu.

E anche adesso, mi ripeto e ripeto a chi mi aiuta che in psicoterapia incontriamo sempre individui e non categorie e classificazioni diagnostiche in cui si perdono di vista i vissuti più personali. Per cui ogni terapia è unica, non replicabile, come unica ancor più è la persona. Tanto che alla fine di una terapia conclusasi positivamente, propongo di chiamarci per nome, ci conosciamo talmente tanto e tanto in profondità che riconoscersi con un tu ci rende amici. E sancisco questa nuova relazione con un rituale: una cena in casa, luogo familiare per eccellenza. Raccomandando però che al bisogno io ci sarò sempre, ma come amico e non come terapeuta.

La psicoterapia è fondamentalmente una relazione, speciale quanto sui vuole, ma pur sempre una relazione, e in ogni relazione c’è un incontro, una conoscenza reciproca, non unidirezionale. Pertanto lo confesso, e non mi vergogno di dirlo, durante le sedute faccio riferimento anche ai miei vissuti personali, al chi sono io e alla mia storia. Perché credo che aiuti la relazione terapeutica e il navigare a vista, piuttosto che essere passivi e dipendenti alle mappe nautiche.

In questo, lo so,  appaio un eretico, ma meglio l’eresia vitale, che schiavo dei dogmi teoretici..