Cosa si aspetta da me? – — — – – di Giuseppe Basile

“Cosa si aspetta da me?”

Giuseppe Basile

“Cosa si aspetta da me?” E’ la domanda che io avrei posto ad un paziente alla prima seduta. Domanda che spiazza il paziente che mi scrive:

“Personalmente la trasformerei, in un’altra formula, “Ha, forse, delle priorità? su cui fermarsi fin da ora.”

Tuttavia è una domanda che blocca il fluire delle richieste al terapeuta, ma anche a se stessi. Perché anche a se stessi? 

È come una saracinesca, un griglione tirato giù quando meno te lo aspetti. È un muro che all’improvviso si erge, ad interrompere il cammino. È elevarsi a Demiurgo. All’improvviso, uno viene spiazzato; diventa inevitabile la censura dei racconti che vorresti analizzare, dire.

Ecco, se fossi un analista farei cadere quella domanda, che mi sembra anche difensiva, non solo mette sulla difensiva.

Certo che uno da qualche parte vuol andare, anche se magari non lo sa, o come me vuol vedere la realtà con occhi, esperienza diversa.

Mi sono chiesto, “e nei silenzi? se non ci sono più argomenti da portare a discussione?”

La risposta che mi diedi era che non c’era alcun problema.

Di certo, la vita mi ha insegnato che quando un individuo riesce a farsi la domanda, una risposta la ha già abbozzata nella mente, la sua personale risposta.”

Commento

“Sinceramente non ricordo di aver iniziato la nostra chiacchierata con questa domanda. Probabilmente forse con qualcosa di simile. Domanda che per me aveva diversi significati.

Il primo, immediato, si direbbe prossemico, cioè un messaggio di contatto, equivalente a “Come sta?, “piacere di vederla”, o altri funzionali modi a rompere il ghiaccio iniziale in una relazione.

Non so se è stata la prima cosa che Le ho detto, ma non credo, conoscendomi, almeno in questo, perché normalmente si fanno i soliti preamboli per mettere a suo agio il paziente sconosciuto.

Ma un secondo significato che contiene la domanda è più specifico, e si riferisce ad una relazione e a una storia terapeutica lontana anni fa e ad una ripresa di contatto recente, anche se virtuale.

Diciamo che Lei è stato uno degli amici più fedeli e attento alle mie pubblicazioni. Ci siamo scambiati alcuni messaggi, certamente non casuali, entrando nel merito dei contenuti. Per cui quando mi arriva la sua richiesta di poter fare una “chiacchierata”, io mi son posto quella domanda equivalente: Perché mi chiede un incontro? La domanda può sembrare banale, e ovvia la risposta: Se uno fa una richiesta di un incontro ad un terapeuta, è ovvio che è una richiesta terapeutica. Ma quando le ho detto di sì, io non mi son visto nella veste di terapeuta, bensì di “amico” virtuale che incontra un amico virtuale in una relazione paritaria.

Certamente avrà influito però il fatto che io conosco due Giovanni, uno prima, paziente, e un secondo, “amico”, compresenti nella mia mente. E la domanda che mi sono fatto è: Quale dei due mi chiede la “chiacchierata”, termine di per sé ambiguo, quello virtuale? e va bene la chiacchierata, o il paziente che vuole riprendere un percorso terapeutico interrotto da tanti anni, e allora non va bene la chiacchierata? Da qui la domanda prima di tutto a me stesso: “Che posso fare di più e meglio di quanto non abbia potuto fare prima?  E a seguire tante altre domande che passano per la mente.

Implicito, ancora, che se una persona mi fa una richiesta c’è anche sottintesa una aspettativa di aiuto, aspettativa che se non si conosce, non è scontato che io sia in grado di aiutarla. L’esperienza mi aiuta in questo, l’aver imparato che ognuno di noi è limitato, anche nel saper fare, che uno psicoterapeuta non sa fare di tutto. Diffido quando leggo il curriculum di un professionista che si spaccia di saper fare di tutto, a malapena io mi ritengo di saper fare quello che faccio, (analisi e cura delle relazioni interpersonali familiari) che è sempre poco se non è accompagnato anche da una capacità di ricerca delle specifiche origini dello star male. Perché ogni persona che viene a chiedere aiuto è sempre unica, con una sua storia unica, e così è unica la terapia. Non ci possono essere manuali di riferimento in cui inquadrare in uno schema la persona. Perché Giovanni è unico, e io sono unico come terapeuta. L’immagine delle due poltrone vuote del post significano l’assenza iniziale dei due protagonisti della terapia fino a quando non saranno presenti ognuno con la sua complessità e la sua umanità.

Allora la domanda “cosa si aspetta da me” non è fuor di luogo, perché può essere che io non sia in grado di aiutarLa.

È la domanda, a volte sottintesa, che faccio sostanzialmente da alcuni anni a chi mi chiede aiuto in un primo colloquio conoscitivo gratuito, perché con l’esperienza ho imparato prima di tutto che è fondamentale costruire una alleanza terapeutica con un patto di alleanza implicito: che ognuno di noi ha un ruolo diverso, ma attivo. La psicoterapia non è un semplice dare a chi chiede, se non c’è una condivisione di ruoli diversi e impegno reciproco a fare ed essere nel percorso conoscitivo e terapeutico.

Ad esempio è stato utile nel primo incontro parlare della registrazione della seduta e Le ho spiegato il perché: le mie sedute sono lunghe, non misuro il tempo, perché il tempo dell’ascolto deve essere libero, e io devo confessare che non sono più in grado di memorizzare tutto quel che si dice, specialmente se in seduta ci sono più persone. Ma la videoregistrazione, prevista e obbligatoria nella psicoterapia familiare è necessaria per la quantità di informazioni che contiene, anche perchè rivedere quanto è successo è importante, è come rivedere un film la seconda e la terza volta. E senza questo supporto e questa metodologia non posso essere di aiuto.”