E’ difficile cominciare una psicoterapia di Michela Marzano

[…] È difficile cominciare una psicoterapia. Per chiunque. Anche quando si sta veramente male. Perché, nonostante tutto, c’è sempre la tentazione di credere che ce la si può fare da soli. Che non serve a nulla andare a raccontare i fatti propri a qualcun altro e che, con uno sforzo di volontà, ci si deve poter rimettere in piedi.

Non è facile ammettere che qualcosa possa un giorno sfuggire al proprio controllo e che, talvolta, ci sia bisogno di rimettersi completamente in discussione. Tanto più che, durante una psicoterapia, tutto può accadere. Soprattutto rendersi conto che si è imboccata una strada cieca e che ci si è incastrati, fin da piccoli, in dinamiche familiari complesse e tortuose. È allora che interviene la figura dell’analista, angelo tutelare dei propri segreti più reconditi, che dovrebbe poterci aiutare a ricominciare tutto da capo. Ma come fare se non ci si fida?

Quando si comincia una psicoterapia, spesso si arriva con una serie infinita di “perché” cui si vorrebbe avere una risposta il più velocemente possibile. Solo che, strada facendo, ci si rende conto che alcune risposte non arriveranno mai. E che il ruolo del terapeuta è soprattutto quello di prenderci per la mano e accompagnarci in un lungo viaggio all’interno di noi stessi. È per questo che ci si deve poter fidare della persona cui si affidano le proprie angosce, i propri dubbi, i propri tormenti. Ed è per questo che è tanto difficile “guarire”. Perché quella che quasi tutti chiamano guarigione, in realtà, è un cambiamento talvolta impercettibile del proprio modo di osservare il mondo. […]

Quando ci si rende conto che è proprio perché si ha fiducia nella persona che ci sta di fronte che ci lascia andare, si capiscono le dinamiche ingarbugliate da cui non si riesce ad uscire da soli e si cerca di cambiare. Non esistono regole universalmente valide. Non è vero che per una donna sia sempre meglio una terapeuta e che per uomo, invece, sarebbe meglio un altro uomo. Tutto dipende da quello che si vuole “riparare” o anche semplicemente “capire”. Certo, bisognerebbe poter avere la scelta. Ed è un peccato che siamo sempre meno gli uomini che decidano di fare i terapeuti. Ma è assurdo credere che una terapeuta non vada bene per uomo, solo perché si tratta di una donna. Pensarlo, significa solo essere prigionieri degli stereotipi. Quegli stessi stereotipi che talvolta sono all’origine del malessere che si cerca di sormontare. Quegli stessi stereotipi che troppo a lungo hanno impedito agli uomini di riconoscere le proprie debolezze, di domandare un aiuto, e eventualmente di imparare a stare meglio con se stessi. Come chiunque. Visto che ognuno di noi, nella vita, deve prima o poi fare i conti con la propria interiorità, ammettere di non essere onnipotente e accettare di convivere con le proprie fragilità.

Repubblica 31 maggio 2011 —

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Un mio paziente, alla fine della prima seduta del percorso terapeutico, mi chiede: Quanto tempo ci vorrà per la conclusione della terapia, tenuto conto della mia patologia? Ovvia la mia risposta: Non lo so!. Ho motivato il mio non sapere.

Qual è la sua patologia?

Precedentemente, anni prima, aveva fatto una psicoterapia con un terapeuta che gli aveva diagnosticato, secondo manuale in voga, la sua specifica patologia, per poi confessargli, molto tempo dopo, di essersi sbagliato nella diagnosi e che invece avrebbe dovuto classificarlo in un’altra categoria patologica.

Gli rispondo che io mi prendo cura della persona che mi chiede aiuto e non del sintomo diagnosticato secondo tabelle e manuali. Che il sintomo non è solo comportamento patologico, ma è anche e soprattutto un messaggio metaforico e una difesa. E non ci sono messaggi standardizzati, e, anche se apparentemente il sintomo generalizza e accomuna, ognuno vive con il suo sintomo personalizzato, che ha senso e significato se inserito nel contesto della sua storia personale e familiare. Se si viene etichettati, si rischia di non vedere la unicità della sofferenza della persona.

Quindi fare psicoterapia prima di tutto per me significa fare ricerca di segni utili, novello archeologo, nel terreno della storia della persona per costruire una ipotesi interpretativa e conseguente verifica del suo star male. Ho visto pazienti etichettati in precedenti terapie, o che si sono etichettati navigando in internet, esibire la loro patologia come fosse una rigida immagine identitaria.

Fare terapia è un percorso, un cammino sempre nuovo e unico da fare assieme. Siamo almeno in due in viaggio, meglio se siamo di più, se ci sono familiari.

E che il ruolo del terapeuta è soprattutto quello di prenderci per la mano e accompagnarci in un lungo viaggio all’interno di noi stessi”.

Quindi come si fa a dire quanto durerà questo viaggio?  Il tempo della terapia non può essere standardizzato, né preventivato, perché dipende dal viaggio che si fa, da quello che si trova durante il viaggio: ostacoli, impedimenti, stanchezza, quale altro sentiero prendere per continuare, se ci si trova in punto morto o in una difficoltà non prevista. Eppure ci son terapeuti che si vantano di fare “terapie brevi”.  Non ci sono terapie brevi o lunghe, ogni terapia ha il suo tempo e il suo dolore.

E non esistono regole universalmente valide. Se è ovvio che ogni psicoterapeuta ha una sua utile mappa teorica di navigazione, piuttosto che una navigazione al buio, vale soprattutto l’ “arte” personale appresa nel tempo dai tanti viaggi fatti con altri viaggiatori. Non mi sento di essere guida, e lo dico al compagno di viaggio apertamente e paradossalmente, è lui la guida, libero di scegliere il sentiero, terapeuta di se stesso. Io gli sto accanto come supervisore, tutti e due siamo impegnati in questa avventura, ognuno deve fare la sua parte e ognuno con la sua responsabilità. Siamo due alleati che si ascoltano, si confidano, anche se con ruoli diversi, sui passi da fare per arrivare alla meta. E alla fine del percorso ci scopriamo amici. E in caso di bisogno si ritrovano solo come amici e non più come terapeuta e paziente.

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