Etica e relazione terapeutica

Etica e relazione terapeutica

Malagoli Togliatti, Angrisani, Barone [1]

“In ogni relazione con caratteristiche evolutive, nessuno schema può sottomettere l’originalità, la creatività e l’imprevedibilità. Nondimeno la pratica terapeutica si giova della costruzione accurata di modelli, in quanto memoria di possibili percorsi codificati e sperimentati, organizzativa per il pensiero del terapeuta. Dalla conoscenza ed integrazione di schemi processuali sperimentati deriva la possibilità per il terapeuta di divenire permeabile a stimoli inattesi e singolari; non per acquisire però una sempre più raffinata abilità tecnica di «fare», ma unicamente per raggiungere una maggiore possibilità di «pensare». […]

Poiché svilupperemo un discorso tecnico, vogliamo ricordare che, sia nell’ambito della relazione terapeuta-paziente che in quello della relazione didatta-allievo, il corretto uso di qualsivoglia schema operativo richiede un grande senso di responsabilità e rispetto da parte sia del terapeuta che del didatta, nel riconoscere l’unicità ed irripetibilità di ogni paziente o allievo. Parlare di relazione terapeutica vuol dire innanzitutto parlare di etica. Di rispetto profondissimo verso i pazienti, la loro visione del mondo, la loro dimensione «politica».

Significa non abusare mai, né con gli atti né con i pensieri nei confronti di chi chiede aiuto”.

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Commento

Intanto mi pare significativo l’attacco iniziale della pagina: “In ogni relazione con caratteristiche evolutive, nessuno schema può sottomettere l’originalità, la creatività e l’imprevedibilità”, che cioè quanto si dice non vale solo per gli addetti al lavoro di aiuto verso le persone sofferenti, ma per chiunque vive in un contesto relazionale. Cioè per tutti, perché non esiste un uomo senza relazione, quindi vale, per restringere il campo, per i genitori, per i figli, per le coppie.

Nessuno schema può sottomettere l’originalità, la creatività e l’imprevedibilità”, cioè l’individualità dell’altro con cui siamo in relazione. Eppure frequentemente quando pensiamo, definiamo l’altro, usiamo implicitamente ed esplicitamente modelli, schemi generali, tipologie, mappe mentali, del tipo:” Io ormai ti conosco, so come sei, non mi inganni, sei prevedibile, non ci sono misteri fra noi, ecc…”. Perché, se ci pensiamo bene, lo sconosciuto ci fa paura, sentiamo il bisogno istintivo primordiale di difenderci, abbiamo bisogno di crearci un’immagine dell’altro, ci sforziamo in tutti i modi di capire chi è l’altro, specialmente nelle relazioni vitali, come quelle familiari. Insomma riduciamo prima o poi l’altro ad uno stereotipo, ad una immagine statica, senza divenire. E se l’altro esce fuori dagli schemi, non rispetta i comportamenti in cui l’abbiamo incasellato, scatta in noi un istintivo stato di allarme.

Invece per quanto conosciamo l’altro che ci sta accanto, egli rimane imprevedibile, unico, sempre e comunque in divenire, uno sconosciuto sempre da esplorare. Una verità, questa, che scopriamo sempre tardi e a volte con rammarico e sensi di colpa.

Questo vale, e soprattutto, nella relazione psicoterapeutica, in quella particolare relazione asimmetrica fra due estranei che si incontrano, in cui c’è una differenza di potere fra i protagonisti e una diffidenza istintiva fra chi si sente più e chi si sente meno, fra chi sa e chi non sa, in cui scatta il bisogno di incasellare l’altro, specialmente da parte del terapeuta in una categoria diagnostica.

“Alla richiesta iniziale esplicita dell’Altro se potrà “guarire”, confesso apertamente e umilmente di non sapere se sarò in grado di aiutarlo, perché l’Altro è sempre uno sconosciuto a me e a se stesso, a cui non si possono applicare ricette salvifiche precostituite e pronte all’uso”.

 Per questo la terapia è unica, come unica è la persona e come è unica la relazione interpersonale. Non possono esserci assimilazioni, generalizzazioni e trasferimenti di esperienze da una persona all’altra. Per questa unicità preferisco definire la psicoterapia un’arte[2], un modo di operare con uno “stile” personale, che non fa più affidamento alle tecniche apprese, ai manuali rassicuranti, ai modelli teorici, ma all’esperienza accumulata, alla capacità personale di mettersi in gioco, che perciò mi fa dire che ogni volta è sempre un’altra volta.[3]

E questo andare ogni volta verso l’ignoto, forte dell’esperienza capitalizzata, impone di attrezzare la mente ad essere capace di fare ricerca, capacità di vedere i segni, di interpretarli, di connetterli e renderli plausibili per fare ipotesi interpretative su dove e come andare, su come fare per essere di aiuto all’altro che zoppicando si appoggia a me.

E infine la puntualizzazione che “Parlare di relazione terapeutica vuol dire innanzitutto parlare di etica” può sembrare enigmatica da una parte, ovvia dall’altra. Ovvio è il rispetto dovuto verso il paziente e vale per qualsiasi professione terapeutica. Ma l’etica della relazione terapeutica si riduce solo a questo o c’è altro?

Il rispetto profondissimo verso il paziente è per me significativo. Significa che l’altro che si affida a me non è solo un paziente, un nome, un numero, un caso, ma fondamentalmente una persona che soffre, che mi ha scelto, che si affida a me, che si aspetta da me risposte, portandomi il suo carico di sofferenza, che non lascia spazio all’indifferenza. Si crea così una particolare relazione che quando si scioglie positivamente l‘altro è sempre presente nella mente e nel cuore.

Ma forse per me l’altro è ancor più presente quando la relazione terapeutica si interrompe. Mi impongo di capire perché l’altro abbandona, mi prendo la responsabilità del fallimento, ne cerco gli errori, se possibile, e anche quando non li trovo, mi rimane un fondo di tristezza per non essere stato capace di aiutarlo.

E di tanto in tanto si presentano alla memoria come fantasmi che mi interrogano.

[1] Malagoli Togliatti, Angrisani, Barone La psicoterapia con la coppia, -Franco Angeli

[2] “Per questo motivo ogni terapia è diversa da un’altra, poiché ogni terapeuta è diverso da un altro, e il paziente imparerà le personali strategie adattive che il suo terapeuta è stato capace di mettere in atto. Forse è anche questo processo quello a cui ci si riferisce quando si parla di “arte” della psicoanalisi.” P. Migone La identificazione proiettiva Il Ruolo Terapeutico, 1988, 49: 13-21

[3] G.Basile, la relazione psicoterapeutica