I care. Mi prendo cura. The ethics of care. Michela Marzano

I care. Mi prendo cura. The ethics of care.

Michela Marzano

I care. Mi prendo cura. The ethics of care.

Oggi sono io a insegnarla ai miei studenti. Quando spiego la differenza che esiste tra una concezione teorica e ideale dell’essere umano e la realtà dell’esistenza quotidiana, l’astrattezza delle teorie contemporanee della giustizia e la vulnerabilità di ogni persona dell’etica della cura.

Perché per rispettare gli altri e trattarli in modo giusto, non dobbiamo dimenticarci che abbiamo tutti bisogno di qualcuno. Che siamo tutti dipendenti. Senza eccezione. E che la dipendenza non è necessariamente negativa. 

 Come si potrebbe anche solo immaginare di amare un’altra persona se non si dipendesse, almeno per qualche istante, dalle parole che ci dice, dagli sguardi che ci regala, dalle attenzioni che ci riserva?

«La cura è una pratica morale. Permette di spostare l’accento dall’individuo alla relazione, dalle persone come dovrebbero essere alle persone come sono.»

Sono nell’aula magna dell’università. Questo semestre ho gli studenti del primo anno. Sono tanti e rumorosi… E mentre vado alla lavagna per scrivere il nome di Joan Tronto, sento che ridono… 

«Cosa stavo dicendo? Sì lei, in fondo a destra… lei con il maglione rosso.»

Non risponde. Cerco con lo sguardo altrove. I primi banchi. In fondo. Ma nessuno si muove. 

«Bisogna imparare a interessarsi agli altri e a prendersene cura. Solo così saremo un giorno capaci anche di ricevere la cura che gli altri possono offrirci. Slittando definitivamente dal piano del dover essere a quello dell’essere…» 

Ce la sto mettendo tutta per far capire la rivoluzione copernicana che c’è dietro l’etica della cura. Che non basta più contemplare il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi, come diceva Kant. Ma vedo che non seguono. Non capiscono. E dopo alcuni istanti lascio perdere. 

Hanno vent’anni. Alla loro età che ne sapevo io della fragilità, della finitezza e della dipendenza?

All’epoca, la «cura» non sapevo nemmeno cosa fosse. Anche perché il «mi importa» di mio padre non c’entrava nulla con la cura. Il suo «mi importa» aveva sempre il retrogusto della minaccia. Era un «mi importa» condizionale. Un «mi importa di te, quindi devi fare quello che dico». – 

All’epoca, avevo la vaga intuizione che nessun essere umano sia solo un agente razionale. Una persona capace sempre di «dire», di «fare» e di «assumere la responsabilità» delle proprie parole e dei propri atti.

Perché ogni parola e ogni gesto sono ambivalenti. Perché spesso si dice quello che non si pensa e si fa quello che non si dice. Perché non esiste alcun modo per calcolare veramente i costi ei benefici delle nostre azioni. 

All’epoca, però, non sapevo ancora che fosse possibile fare la pace con se stessi. Non sapevo che si potesse imparare a rispettare i propri desideri senza farsi del male.

All’epoca, l’unico modo che avevo trovato per ribellarmi a mio padre era stato «fregarmene» di tutto quello che avevo sempre fatto, «fregarmene» di tutto quello in cui avevo sempre creduto. Avevo soprattutto bisogno di affermare la mia specificità e allontanarmi dal passato. Anche se gettarmi nelle braccia del primo venuto mi faceva male. E non mi aiutava affatto a capire cosa desiderassi veramente.

Michela Marzano – Volevo essere una farfalla-pagg. 95-97 Mondadori

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Commento

Nella pagina della Marzano c’è una frase verità, che forse potrebbe convincere tutti: “La cura è una pratica morale. Permette di spostare l’accento dall’individuo alla relazione”. Ci dice che prima di tutto c’è la relazione, non gli individui singolarmente presi, tanto che, prendendo a prestito il titolo di un classico della psicologia sistemica – Uno più uno non fa due – la relazione non è la somma, ma è il terzo, cioè paradossalmente 1+1=3, vale cioè la reciprocità, il terzo. Essere in relazione richiede la capacità di cambiamento dell’uno e dell’altro perché possa nascere e crescere il nuovo: la relazione.

L’altro trovato è importante per me perché mi da quello che mi manca se anch’io so dare a lui quello che gli manca. Le mancanze ci spingono ad incontrare l’altro e  quindi il prendersi cura dell’altro che si ama, che non è un debito o un credito da riscuotere prima o poi.

Una relazione a senso unico è già una relazione malata, sofferente o perché dall’inizio sbagliata o perché lo è diventata, comunque senza amore. E nell’amore non si è mai soli, l’altro è sempre presente, anche quando è inerme o assente, o non ti riconosce più. Non serve più fare i conti, su chi ha dato di più e chi ha dato di meno, perché l’amore non è un puro calcolo matematico.

Certo siamo diversi, anche se l’illusione di essere uguali, simili, con gli stessi sentimenti, con gli stessi desideri, non ci abbandona, ci tradisce e ci illude.

Quanto allora è compatibile la diversità con l’amore? Ma poi cosa è mai l’amore? E’ solo una parola dai mille significati? talmente è usata e abusata nell’esperienza quotidiana.

Amore è relazione fra un io e un tu, relazione che nasce e poggia sul nostro bisogno di sicurezza, bisogno che nasce dalle nostre mancanze, perché nessuno di noi è autosufficiente. “Abbiamo tutti bisogno di qualcuno. Che siamo tutti dipendenti. Senza eccezione. E che la dipendenza non è necessariamente negativa”. Dal neonato che istintivamente cerca il seno materno per sopravvivere, come tutti gli animali mammiferi, all’adulto che sente di essere mancante e che non si rassegna alla solitudine. Quindi la ricerca di un tu da parte di un io, capaci entrambi di rassicurarsi a vicenda e di prendersi in carico reciprocamente.

Il bisogno che ci spinge di attaccarci a qualcuno è innato, nessun essere vivente sarebbe capace di sopravvivere alla nascita se un altro non se ne prendesse cura, attaccamento che, diceva Bowlby, teorico dell’attaccamento, è il bisogno che ci accompagna dalla culla alla tomba.