I pazienti curano gli psicoterapeuti? – – – di Franco Fornari

Nella vignetta di Cavez che ho condiviso ieri, il personaggio dice: “Ho aiutato tanti psicologi nella mia vita. Qualcuno l’ho anche guarito!”.

L’ironia è sottile, come in molte altre vignette di questo disegnatore; però questa mi è piaciuta in modo particolare perché tocca, forse involontariamente, una questione reale: gli psicoterapeuti vengono influenzati dai loro pazienti? E in caso affermativo, come?

Nel pormi queste domande non penso tanto al coinvolgimento empatico, alle emozioni che spesso i nostri pazienti ci fanno provare. Questi sono effetti temporanei, che non necessariamente lasciano tracce profonde. Quello che mi chiedo, invece, è quanta verità ci sia nella battuta del personaggio di Cavez, cioè se sia possibile che i pazienti curino i loro terapeuti senza saperlo. Io penso proprio di sì, anche se, per il modo in cui ciò avviene, spesso neanche il terapeuta ne ha coscienza. Certo, con il passare degli anni ogni terapeuta si rende conto di sentirsi più sicuro, di saper meglio gestire la relazione terapeutica, di divenire più efficace. In una parola, più “esperto”. Ma siamo sicuri che il lavoro che facciamo con i pazienti non ci cambi anche come persone, che non abbia dei riflessi anche sulla nostra vita privata e sociale? E se sì, attraverso quali processi?

Comincerei con l’osservare che ogni paziente, quando chiede una consultazione, di fatto sta cercando aiuto per una qualche sofferenza che non riesce a gestire con le sue sole forze. Quindi, in senso lato, potremmo dire che ha un problema che non riesce a risolvere e che si è rivolto allo psicoterapeuta perché lo aiuti a venirne a capo.

Ora, qualsiasi sia la natura di questo problema, sia esso un conflitto interno, una difficoltà di tipo sociale/relazionale o di adattamento alla realtà, sta di fatto che il problema del paziente non dovrebbe essere tale anche per il terapeuta; altrimenti, sarà difficile che quest’ultimo possa realmente aiutare il suo nuovo paziente. Immagino già l’obiezione: “Ma è proprio per evitare che il terapeuta si trovi impreparato di fronte ai problemi dei pazienti, che serve l’analisi personale!”. Già, la mitica analisi personale… .

Bene, diamo pure per scontato che grazie ad una buona, anzi ottima analisi personale, un terapeuta non abbia più nessun punto debole, nessuna fragilità degna di nota (qualcuno ci crede?). Possiamo escludere che un paziente possa portare in terapia un problema che il terapeuta non ha mai dovuto affrontare prima in tutta la sua vita e quindi neanche nel corso della sua mitica analisi? E possiamo escludere che questo problema lo possa trovare impreparato? No, non possiamo. Per cui, qualora una situazione del genere dovesse verificarsi (ed è meno raro di quanto non ci piaccia pensare), il terapeuta avrà tre opzioni tra cui scegliere: la prima (e la più auspicabile) sarà che, anche grazie alla sua analisi personale, egli si sentirà in grado di affrontare quel problema “insieme” al suo paziente; la seconda, sarà quella di ritornare in analisi (cosa che accade più spesso di quanto non si dica); la terza sarà quella di rifiutare il caso clinico. Mi pare evidente che, sia la prima che la seconda opzione comporteranno un cambiamento più o meno significativo anche nella personalità del terapeuta.

Personalmente, sono dell’idea che queste situazioni non siano così rare come potrebbe sembrare a prima vista. Ma non dobbiamo pensare sempre e soltanto a cambiamenti eclatanti, drammatici. Il più delle volte si tratta di questioni apparentemente minori, che da sole non ci sconvolgono da vita. Piuttosto, possiamo immaginare che accada qualcosa che assomiglia, ovviamente in positivo, a ciò che accade con i traumi in senso negativo. I grandi traumi per fortuna sono rari e tantissime persone non ne sperimenteranno neanche uno in tutta la loro vita. Ma esistono anche i piccoli traumi che, se ripetuti nel tempo, possono avere un effetto cumulativo e quindi fare altrettanti danni di un unico grande trauma. Penso che qualcosa di analogo, ma per fortuna in positivo, possa verificarsi nella relazione terapeutica: a forza di affrontare i problemi dei nostri pazienti insieme a loro, cambiamo anche noi; lentamente e in maniera impercettibile, ma non per questo meno significativa.

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Commento

Risponderei anch’io di sì alla domanda che pone Franco Fornari: “Ma siamo sicuri che il lavoro che facciamo con i pazienti non ci cambi anche come persone, che non abbia dei riflessi anche sulla nostra vita privata e sociale?”  Io ne ho preso atto da tempo, da molti anni, da quando “con il passare degli anni ogni terapeuta si rende conto di sentirsi più sicuro, di saper meglio gestire la relazione terapeutica, di divenire più efficace. In una parola, più “esperto”. Esperto, però inteso non nel senso tecnico, scientista del termine. Esperto di che? Della variegata sofferenza umana in tutte le sue individuali articolazioni? Sarebbe una pretesa e una credenza assurda, anche se i curricula pubblicizzati dalla numerosa schiera di psicoterapeuti, soprattutto giovani, elencano un saper fare su tutto, capaci quindi di affrontare qualsiasi problema, forti e rassicurati dalla formazione ricevuta negli svariati corsi di specializzazione in psicoterapia.

Io sono arrivato alla convinzione che bravi terapeuti si diventa dopo i cinquant’anni, dopo aver fatto una sufficiente maturazione di esperienza di vita vissuta e di pratica. Mi viene in mente a proposito un detto di di Carmelo Bene: “ Non puoi recitare Amleto prima, anche se di anni ne hai ventidue. La tua vita ti deve aver passato qualcosa per poter dire quelle parole, non può essere un coglione qualsiasi a dirle. Un dolore, un entusiasmo devono averti plasmato”.

Ho fatto mia da tempo la tesi socratica “So di non sapere” applicata alla pratica psicoterapeutica per cui ogni problema che la persona mi presenta è per me sempre nuovo, perché unico, come unica è la persona che lo vive e il modo in cui ne soffre. Ho abbandonato la pretesa scientifica di classificare, diagnosticare, inquadrare la persona facendone un “caso” spersonalizzato, e lo confesso apertamente all’altro al primo colloquio di consultazione gratuito che l’unica possibilità che gli posso offrire è quello di fare un viaggio “assieme” verso l’ignoto, perché fondamentalmente l’arte psicoterapeutica è una ricerca di senso del malessere partendo dalla ricostruzione della storia familiare. In questo viaggio di ricerca terapeuta e paziente si definiscono in una relazione di alleanza in cui ognuno ha e deve avere una sua parte e un ruolo attivo. C’è scambio nella relazione terapeutica in cui non siamo indifferenti, in cui non siamo estranei l’uno all’altro. Quindi mi sembrerebbe ovvia la verità di Fornari: “a forza di affrontare i problemi dei nostri pazienti insieme a loro, cambiamo anche noi”. Spesso pensandoci mi riconosco debitore verso i miei pazienti, per quello che mi hanno dato e che mi fanno vedere come in uno specchio, tratti, vuoti, inconcludenze, somiglianze, carenze, desideri, fragilità, forze che mi appartengono. E mi aiutano a capire e indagare i fallimenti terapeutici, di cui poco si parla nel circuito psicoterapeuto, come fossero un tabù e non invece fonte di informazioni e di cambiamento personale del modo di fare terapia.

Allora comincio a capire la verità di quanto affermava James Framo, uno dei grandi pionieri della psicoterapia familiare. “ Il terapeuta di famiglia cerca di curare sempre una sola famiglia, la propria”.

Una risposta a “I pazienti curano gli psicoterapeuti? – – – di Franco Fornari”

  1. In un altro gruppo in cui ho pubblicato lo stesso post https://www.facebook.com/groups/m.recalcati/

    Ernestina Siciliano commenta
    ” Ma se un terapeuta va in crisi con un paziente nel senso che questo con il suo “narrare” smuove emozioni, sentimenti o situazioni vissute ( non parlo di amore) come si comporta il terapeuta ? Hanno a loro volta un terapeuta a cui affidarsi con regolarita’?”

    Giuseppe Basile
    Risposta
    Dipende di quale crisi si tratta e perché un terapeuta va in crisi. Parto da una premessa: che la psicoterapia è una relazione, un incontro fra due o più persone caratterizzato da una particolare relazione, la relazione terapeutica. Nella relazione contano le persone che nella diversità di ruoli si incontrano, si alleano con fiducia per arrivare ad uno scopo: la guarigione di chiede aiuto. Il come si arriva alla guarigione, dipende dalla metodologia seguita ed acquisita dal terapeuta, e le metodologie e le teorie a cui fanno riferimento, purtroppo sono tante, anche se ormai dalle ricerche fatte si sa che sull’esito positivo di una psicoterapia conta soprattutto la relazione terapeutica fra paziente e terapeuta. In una sana ed efficace terapia lo scambio relazionale è continuo per cui anche il terapeuta è influenzato dal paziente necessariamente e non in senso negativo. Il concetto di crisi ha significati diversi. Per quello che mi riguarda, l’ascolto dell’altro, la conoscenza della sua storia non mi lascia indifferente, muove i sentimenti del terapeuta. Quando dico che a volte l’altro mi fa da specchio, vuol dire vedo parti di me sospese o anche ferite su cui devo lavorare con l’unica risorsa disponibile: l’autoriflessione, che mette in moto il bisogno di una ricerca. È una ricerca cognitiva, un essere capaci di indagare su di sé per essere maggiormente capaci al saper fare terapeutico. Di per sé la crisi, l’inciampo, l’errore non sono negativi, ma possono essere possibilità di un cambiamento positivo. Nessuno è perfetto, cadere è possibile, è sempre in agguato, l’importante è sapersi rialzare.
    Ma se la crisi è di altra natura, affettiva, emotiva o mette in grande difficoltà il terapeuta, allora la cosa più saggia da fare, se vuole continuare la terapia con quel paziente, è chiedere aiuto.

    Simona Seu
    Di solito ogni paziente rappresenta una sfida di vita. Se il terapeuta raccoglie la sfida, cambia e si evolve assieme a lui. È un’esperienza bellissima, dove si può provare il senso profondo di libertà di “poter essere Sé” fino in fondo🌳

    Giuseppe Basile
    Di solito una volta terminata positivamente una terapia familiare, con la mia collega collaboratrice, festeggiamo con un rituale: una cena conviviale a casa della famiglia dell’ ex paziente e adesso “amici” per saldare un nuovo rapporto fra di noi. E da allora in poi non accetto di fare terapia con un amico, anche se sono sempre disponibile, ma solo come amico, ad aiutare in caso di bisogno, come si fa fra amici. Questo significa per me “provare il senso profondo di libertà di “poter essere Sè” fino in fondo”.Grazie,

    Cristiana Ginanneschi
    Il suo è un gesto di grandissima empatia e generosità.

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