Il compito etico che la psicoanalisi promuove

“Questo mi pare il grande compito etico che la psicoanalisi promuove: come trattare la pulsione di morte in modo che anziché essere distruttiva renda possibili invenzioni, creazioni, avventure, nuovi sogni? Questo è il compito più alto a cui tende l’esperienza dell’analisi. Non si tratta solo di rimuginare intorno al senso, ma di poter realizzare una nuova alleanza con il desiderio in modo da ridurre la spinta verso il godimento mortifero e distruttivo, incanalandola verso una realizzazione positiva. Si tratta, in altre parole, di agganciare la forza conservatrice della pulsione a quella innovativa del desiderio”.

Massimo Recalcati, Elogio dell’inconscio, p.119

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Commento

Direi che sarebbe compito etico della psicoterapia in tutte le sue articolazioni teoriche: suscitare, far rivivere, attivare il desiderio sepolto, presente come speranza o come compito impossibile. Il desiderio di essere altro da quello che si è, recuperare la propria autenticità.

Compito non facile, quando ormai ci si attacca al sintomo come difesa[1] e la richiesta primaria è quasi sempre e ostinatamente quella di estirparlo come fosse questo la causa della sofferenza. Specialmente quando la richiesta è quella del tutto e subito, quando non sono concepibili tempi di attesa, di comprensione allargata del malessere, e l’aspettativa è quella di arrivare in tempi brevi alla scomparsa del sintomo. Non c’è consapevolezza che il sintomo è linguaggio oscuro, il linguaggio dell’Inconscio, che non facilmente si lascia decifrare.

Che fare allora per aiutare il paziente che chiede aiuto

Prima di tutto credo sia importante creare una relazione di fiducia tra paziente e psicoterapeuta, preparare le condizioni per arrivare a stringere una alleanza terapeutica.

Rapporto di fiducia che non è scontato da parte del paziente, che inizialmente quasi mette alla prova il terapeuta con comportamenti paradossali. Se inizialmente e apparentemente il paziente segue il terapeuta nelle interpretazioni sulle cause patogene (le false credenze) che lo fanno star male, di fatto è resistente ad abbandonarle. E le abbandona quando arriva ad un tale livello di fiducia, che gli permette di continuare a seguirlo in un percorso e in una direzione che gradualmente costruiscono assieme, in due. Al terapeuta spetta la capacità di sentirsi con le sue emozioni e con le sue reazioni affettive in questo andare avanti con l’altro. Alla fine, ormai è risaputo, che il vero fattore di cambiamento terapeutico non sono le teorie seguite o le tecniche usate dal terapeuta, ma l’esperienza che il paziente fa all’interno della relazione terapeutica.

Infine quando la sofferenza sintomatica non è solamente individuale, ma coinvolge, per la sua natura relazionale, altre persone, familiari, è sufficiente allora l’attivazione del desiderio e il benessere di uno perché si estenda agli altri? Qui emerge allora il senso e il valore della terapia familiare che richiede alcune condizioni fondamentali: l’essere possibilmente in due, uno che fa da supervisore all’altro psicoterapeuta e la video registrazione della seduta, condizione questa per me indispensabile per rivedere , capire e studiare a mente fredda quanto successo in terapia.

[1] https://www.giuseppebasilepsicoterapeuta.it/il-sintomo-non-e-solo-patologia/