IL FORMATORE di Antonio Frizzera

Il formatore

di Antonio Frizzera

Rocco Malinverni entrò nell’aula corsi alle otto e ventotto e disse subito che non riteneva per nulla giustificato né tanto meno decoroso il vezzo del quarto d’ora accademico di ritardo con il quale iniziavano molte riunioni. Cominciò quindi puntuale, alle otto e trenta. Si accomodò sulla poltrona e accavallò le gambe, lunghe e magre, fasciate da un morbido pantalone in tessuto di lana marrone abbinato alla giacca, sapientemente sbottonata sulla camicia e sulla cravatta che scendeva, senza incontrare indizi di pinguedine, fino alla cintura di cuoio nera.

Esortò i presenti, seduti sulla punta delle sedie attorno al lungo tavolo ovale, a scrivere il proprio nome su un foglio e poi fornì precise istruzioni su come piegarlo, in modo da formare un parallelepipedo a base triangolare da porre davanti a sé, con il nome rivolto agli altri. Era una tecnica che utilizzava da molto tempo: offriva ai candidati i propri pennarelli poiché, solitamente, nessuno ne aveva con sé. I pennarelli però scrivevano poco e male, avevano la punta secca e lasciavano un tratto incerto che il malcapitato cercava di rinforzare grattando con forza il foglio e poi, a lavoro concluso, si ritrovava con il nome ripassato, scarabocchiato, impresentabile. Così questo era il primo biglietto da visita che ognuno di loro opponeva agli altri concorrenti.

Sì, erano concorrenti di un gioco a premi, a premio unico in tutta onestà: aspiravano tutti al posto di responsabile vendite per la zona “Città e Comprensorio” che la ditta Petruzzi Detergenti Professionali aveva posto in palio. Non era previsto un premio di consolazione.

Rocco Malinverni era convinto che mettere a disagio i candidati fosse il miglior modo di iniziare per selezionare il più adatto, il più motivato, il più aggressivo, il più forte, in sostanza.

Mentre posava lo sguardo sui presenti, dosandone sapientemente il ritmo e la durata, iniziò a raccontare il percorso lavorativo che lo aveva condotto a diventare un esperto formatore nel campo delle tecniche di vendita e di marketing. Parlava quasi sottovoce, come a raccontare una fiaba a un bimbo per fargli prender sonno. La sua voce, calda e serena, saturava le frequenze medie e basse e non lasciava spazio a distrazioni da parte dell’uditorio. Gli occhi, azzurro mare, dietro alle grandi lenti senza montatura, sbattevano placidamente come quelli di un bue nel pascolo estivo. Si ritraeva e si sporgeva dallo schienale della poltrona (lui era l’unico che sedeva su una poltrona) al bordo del tavolo, come un galleggiante a pelo d’acqua quando i pesci, abbandonando il giusto timore, iniziano a fidarsi e mordicchiano l’esca mortale. Ebbe così modo di descrivere gli ottimi risultati che lo studio e l’aggiornamento continuo nello stimolante ambito della modellazione delle menti gli avevano consentito di raggiungere. Aveva iniziato in una famosa multinazionale della gomma per poi passare agli oli combustibili. La sua gestione aveva sempre garantito crescite a doppia cifra nelle zone a lui affidate e il riconoscimento e l’apprezzamento dei colleghi ma, soprattutto, della dirigenza.

Una crisi motivazionale, sosteneva, lo aveva convinto a fare il grande salto dal dinamico mondo operativo a quello ponderato ed empatico della formazione e della consulenza dove aveva ritrovato stimoli ed entusiasmo che sentiva di aver smarrito. Ora era lì per loro: al termine di quel primo incontro avrebbe selezionato un superstite che successivamente avrebbe proseguito con attività più specifiche e mirate nelle riunioni e nelle attività sul campo che sarebbero seguite.

Intorno al tavolo, ovale come il campo di un’arena, sedevano quattro uomini e due donne. Avevano tutti tra i trenta e i quarant’anni: l’età giusta nella quale si coagulavano esperienza e brama di successo. Rocco Malinverni cominciò col dire che le energie coinvolte nel processo della vendita sfuggono ai più; che in ognuno di loro si annidavano capacità persuasive inaspettate e pronte a uscir fuori e far capitolare qualsiasi acquirente, si trattava solamente di saperle scovare, alimentare e organizzare secondo uno schema di causa-effetto che avrebbe garantito il successo finale. Il segreto stava nel separare il bisogno dal possesso. Consisteva nel concentrarsi sulla abilità oratoria e non sull’oggetto: in questo modo si potevano vendere detersivi come penne a sfera, non faceva differenza.

Questo per dirla in soldoni: era necessario un lungo percorso per padroneggiare l’esercizio di retorica nel quale, in sostanza, consisteva la vendita e lui li avrebbe presi per mano e guidati, verso una nuova consapevolezza del potere che mai avrebbero sospettato di detenere. Al termine di quel lungo preambolo Rocco Malinverni si appoggiò allo schienale e incrociò le mani sul petto, pronto ad accogliere gli sguardi riconoscenti dei candidati che, fino a quel momento, ignoravano la verità delle sue parole.

Aveva considerato che una pausa di circa un minuto e mezzo gli avrebbe permesso di catturare, inizialmente, l’attenzione e suscitare la curiosità dei presenti per la verità appena svelata. Successivamente, il prolungarsi del silenzio avrebbe cominciato a instillare in loro il dubbio di non farcela, di non essere capaci, di non essere adatti, infine, negli ultimi secondi, si sarebbero osservati di sottecchi a cercare negli altri la loro stessa debolezza e a scatenare l’istinto di sopravvivenza: in quel momento li avrebbe avuti all’amo, si trattava di dare lenza, tirare con sapienza e issare a bordo la preda più pregiata. Li guardò negli occhi uno ad uno sorridendo affabilmente, poi si concentrò sulle sue mani. Osservò compiaciuto le nodosità delle articolazioni che si incastravano e combaciavano perfettamente nell’intreccio delle dita. Quando fu pronto a riprendere, lo sguardo gli cadde sulla sua scarpa destra. La pedula Clark’s color deserto aveva i lacci laschi, stavano per sciogliersi. Con un rapido e brusco movimento si rimise a sedere con la schiena eretta e propose, seduta stante, un primo esercizio. Lo spiegò con meno eloquenza di quella che avrebbe voluto utilizzare e se ne accorse immediatamente. In particolare le prime parole gli risultarono un po’ stridule e incerte, certamente se ne accorse solamente lui, si era trattato di modulazioni impercettibili del timbro vocale che aveva costruito e allenato per anni. Mano a mano che illustrava l’esercizio riprese sicurezza e persuasività, solo il piede destro rimaneva distaccato da lui e lo interrogava attraverso quello che aveva visto: una lenza che stava perdendo l’esca.

L’ipotesi dell’esercizio consisteva nel proporre la fornitura di un lotto di cinquecento penne a sfera a un ipotetico tabaccaio che lui avrebbe impersonato. Chiese chi se la sentiva di rompere il ghiaccio per primo, e di mettersi in lista per gli approcci successivi, promettendo che avrebbe posto inizialmente una timida resistenza, che avrebbe perfezionato e rinforzato nei colloqui a seguire fino a costruire un muro di diniego invalicabile per l’ultimo candidato. Ahimè per loro, l’esercizio non consisteva nel vendere la penna – sarebbe stato impossibile per tutti argomentare su una semplice penna Bic – in realtà, quella lista, che i più lesti avevano già compilato, avrebbe segnato irrevocabilmente il destino della selezione: colui che avesse atteso che gli altri si affrettassero a combattere per primi contro una debole palizzata o tuttalpiù contro un basso muretto di mattoni malfermi, e avesse atteso di essere l’ultimo, per la sfida più impegnativa, avrebbe avuto accesso alla chiave che apriva le porte della città della conoscenza delle tecniche del Marketing.

Chi attese, con gli occhi fissi su Malinverni, fu una delle due donne. Si chiamava Eleonora F., così stava scritto sul biglietto che aveva compilato con grafia decisa e netta, nonostante il trucco del pennarello scarico. Rocco Malinverni notò solo in quel momento che non aveva scritto l’intero cognome, una svista che non era da lui, l’avrebbe ripresa immediatamente nei primi momenti dell’incontro, ma non l’aveva fatto, anzi si rese conto che non l’aveva nemmeno guardata con la necessaria attenzione. Mentre dei candidati uomini ne aveva osservato subito, appena entrato, l’abbigliamento, il taglio di capelli, la foggia delle scarpe (aveva una predilezione per le scarpe), di lei – e dell’altra – non ricordava nulla, era come se la vedesse per la prima volta ora, in quel momento. Non aveva più di trent’anni e non doveva essere molto alta da come occupava il volume della sedia; aveva un viso regolare e inespressivo e gli occhi, bui e profondi, lo fissavano senza apparente curiosità. La sala era calda e si era levata la giacca che ora stava appoggiata a cavallo della sedia che le stava accanto.

Sulla spalla, scoperta a causa della scollatura asimmetrica della maglietta di seta, faceva capolino un tatuaggio dalla vaga forma di serpente. Avrebbe voluto (dovuto) guardarle le scarpe, l’avrebbe inquadrata meglio, prima che avesse iniziato, lei, a vendergli le penne. Sì, gli altri erano ormai fuori dai giochi, non c’era spazio per i codardi nel tempo che avrebbe dedicato alla formazione della mente coraggiosa e vergine che aveva scelto la sfida più difficile. Però non l’aveva considerata, era la prima volta che, nei suoi corsi, una donna aveva capito il suo gioco ed ora doveva giocare con lei, ma non l’aveva soppesata prima. Si era aspettato che il gladiatore sopravvissuto sarebbe stato il giovane alla sua sinistra. Corrispondeva al modello: solido, franco e sguardo sicuro, invece quello si propose per terzo e solo perché il secondo era stato più svelto! Ed ora aveva a che fare con lei e il laccio della scarpa si era ormai sciolto del tutto, lasciando il piede sguarnito dalla rassicurante protezione della tomaia sulla caviglia. Provò a raccogliere le gambe sotto la sedia in modo da poter poi fare pressione sulla pianta del piede e riprendere contatto col terreno, ahimè nel farlo il calcagno gli uscì da dietro e la scarpa strisciò come una ciabatta sformata di un vecchio catarroso. Gli occhi di quella femmina lo guardavano e lui vi lesse pietà.

Tutto ma non pietà! Sapeva che poteva suscitare odio, invidia, astio, emulazione e, raramente, ammirazione; quasi mai simpatia, ma era quello che voleva. Però non pietà. No, quella no, non poteva permetterla a nessuno! Invece era proprio lo sguardo pietoso e indulgente di quella ragazza che lo stava denudando di fronte a lei e a se stesso. Era la seconda volta che qualcuno gli guardava così dentro: e non era finita bene.

Gli tornarono alla mente, vividi e terrificanti, gli occhi di una studentessa delle scuole superiori, nel periodo durante il quale si occupava di oli combustibili.

Anche allora navigava, perfetto, nel cavo dell’onda, proiettato con un sibilo pieno e potente verso il successo e la gloria, poi arrivò quella ragazzina della scuola. Sarebbe rimasta lì un paio di settimane, a fare fotocopie, tuttalpiù qualche prospetto elementare in Excel. Invece, dopo solo un paio di giorni, durante un caffè alla macchinetta, lo aveva squadrato, scuoiandolo vivo. Lo fissava e gli restituiva ciò che era e che nessuno riusciva o voleva vedere: una scultura di ghiaccio, ben presto soggiogata dal progredire della stagione, della quale non sarebbe rimasto che acqua, sempre più tiepida e torbida, destinata a scomparire tra le pieghe del terreno di primavera. Lei aveva capito che il mondo di Rocco era una messinscena, al di là della quale, oltre l’atmosfera rarefatta degli uffici della multinazionale, mancava del tutto la consistenza di uomo. Mentre si scambiavano gli sguardi, Rocco ripensava che lei lo aveva certamente osservato aggirarsi tra i colleghi e ne aveva misurato i passi; la gestione delle distanze che interponeva tra sé e loro – diverse se si trattava di un superiore oppure di un sottoposto – le parole, sempre le stesse, con delle piccole variazioni che ne esaltavano l’interpretazione ma ne tradivano l’assenza di originalità. Rocco sapeva bene che non possedeva un pensiero proprio, un’idea tutta sua; quello che diceva si riduceva a quello che aveva letto sui manuali e che poi aveva accompagnato con un esercizio estenuante di interpretazione, come fa il prestigiatore di fronte allo specchio. E proprio come un illusionista da palcoscenico, riusciva ad affascinare il suo pubblico facendo dimenticare che si trattava comunque di un trucco. Il fatto poi, che lo avesse smascherato una donna aveva scatenato un vento caldo e impetuoso che lo investiva e lo scioglieva con violenza, facendogli perdere il controllo rapidamente.

Conosceva e temeva infatti l’innata capacità delle donne di vedere al di là delle facciate. Per questo evitava di avere a che fare con loro, le aveva rimosse dal suo orizzonte cognitivo, confidando in questo modo di passare inosservato a sua volta.

Più tardi, quella notte aveva fatto un sogno. Era relatore a un convegno e si apprestava a iniziare il suo intervento quando si era reso conto di essere uscito di casa senza scarpe, doveva alzarsi dalla platea e andare sul podio, ma non poteva a muoversi dalla fila: l’impeccabile completo nero di Londra terminava, inutile, su un paio di calzini color tortora. Fu assalito da angoscia cristallina. Contro la propria volontà si trovo a camminare scalzo lungo il corridoio tra le poltrone affollate di uomini e donne, eleganti e impeccabili. Nel procedere verso il proscenio, mano a mano perdeva pezzi del vestito finché si trovò seminudo a iniziare il discorso. A fronte della sua vergogna l’uditorio sembrava al contrario impassibile, ma ciò, invece di calmarlo, lo faceva sentire sempre più spaesato e sperduto con un’irrefrenabile desiderio di fuggire. Si svegliò di soprassalto senza riuscire a godere del sollievo che normalmente regala il risveglio da un brutto sogno. Il giorno seguente trascorse l’intera mattinata in ufficio a preparare la lettera di dimissioni.

Ora, però, non si trattava di un sogno. Non aveva ben chiaro come, ma aveva percepito chiaramente che questa volta doveva fare i conti con la realtà: la scarpa si era effettivamente slacciata e quel serpente sulla spalla destra della ragazza mordeva e tirava il laccio fuori dalle asole assieme alla padronanza di se stesso. Poi cominciò a pensare ai vestiti: la giacca, la camicia e i pantaloni e che sarebbe rimasto, come nel sogno, in mutande e canottiera di fronte ai gladiatori dei quali, fino a poco prima, avrebbe dovuto decretare la sopravvivenza o la morte.

Per evitare tutto questo, in un ultimo, provvidenziale, bagliore di lucidità, accampò un improvviso mal di testa e uscì dalla sala per non rientrare mai più.

Mentre si allontanava precipitosamente dalla sede dell’azienda, sapeva che quella notte avrebbe sognato nuovamente di rimanere scalzo in mezzo alla gente e che l’indomani, con la mente un po’ più riposata e una flebile ma ritrovata fiducia in se stesso, avrebbe scritto una lettera di rinuncia all’incarico, motivandola con la necessità di ricercare nuovi stimoli e nuove sfide per le quali, in ogni caso, già si sentiva pronto.

Rovereto Osteria del Pettirosso, 4 gennaio 2019

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Ma io titolerei la novella Il FORMATORE FORMATO. È la storia di un formatore che deve insegnare l’arte del vendere a un gruppo di aspiranti venditori di prodotti commerciali. Fin dalle prime battute si presenta e appare come uomo sicuro di sé, giovane, brillante, curato nell’abbigliamento, alla moda, dalla cravatta alle scarpe. Tutto studiato, controllato, fornito di falsa sicumera, fisico atletico e con un pizzico di maschilismo mascherato. Studia, osserva e istruisce, “insegna”, quali sono le arti per saper vendere “scientificamente” oggetti commerciali, parla con astuzie. È sicuro di sè, perché così è stato modellato a sua volta secondo un canone rigido, funzionale, preparato all’attività di marketing. Ma nessuno gli ha insegnato cosa fare se durante l’ora di lezione si accorge che gli si è slacciato il laccio della sua pedula Clark’s. È l’evento imprevisto, non programmato, non calcolato, è l’incidente,   che scompiglia, il piccolo neo che infastidisce e che attira l’attenzione della giovane ragazza che lo fissa, almeno lui si sente fissato, quasi volesse vedere la sua reazione. La sua reazione è il nascondimento mal celato, si siede, prova raccogliere le gambe sotto la sedia, ma l’imbarazzo rimane, anzi accresce sempre più perché gli occhi della ragazza sono puntati sulla scarpa slacciata, come quelli del bambino di Andersen che grida “il re è nudo”.

Scoprirsi nudo, vestito di un vestito evanescente, di un vestito che non oscura la nudità, che fa vedere quello che non sei, ma quello che veramente sei: un attore che reciti a memoria un copione.

Gli occhi di quella femmina lo guardavano e lui vi lesse pietà” per la sua povertà, per la sua mancanza di risorse proprie, per essere stato illuso che seguendo regole, modelli, schemi, identità acquisite per imitazione, bastassero a vivere nel mondo in modo appagante. Rocco entra in crisi, apparentemente per quel piccolo inciampo e per l’imbarazzo dello sguardo curioso e indagatore della ragazza su cosa avrebbe fatto con quella scarpa slacciata. Ma è invece una forma di illuminazione, un segnale di allarme, il bisogno di riconoscersi autentico.

Quel piccolo inciampo e lo sguardo pietoso della ragazza sono una illuminazione, si rivede e si sente inautentico, falso, imperfetto, incapace. Altro da quello che appare agli altri.Rocco sapeva bene che non possedeva un pensiero proprio, un’idea tutta sua; quello che diceva si riduceva a quello che aveva letto sui manuali”. Forse per la prima volta ha il coraggio di vedersi dentro e a non accettarsi, e accettare e desiderare un cambiamento, e un cambiamento radicale. Sente di essere ad un bivio, o continuare come ha fatto finora, ma camuffando i suoi desideri, o cambiando strada, sconosciuta, forse più impegnativa, ma con la soddisfazione di vivere il proprio IO con passione e libertà.

Sceglie la nuova strada, lascia la lezione, accampando un forte mal di testa, rientra a casa per scrivere la sua lettera di dimissioni. E cominciare nuova vita.

Chi di noi non è inciampato, non ha avuto un fallimento, non si è sentito scartato, inadeguato, ingessato nel suo lavoro, nella sua professione, nella sua vita familiare e sociale. E quanti di noi hanno fatto finta di niente, hanno taciuto per paura dello scandalo e magari sopportando dolore. E quanti invece hanno accettato la sfida del cambiamento e della fatica a ricostruire la propria identità ferita, puntando sulla fiducia in se stesso ritrovata?

Per quello che mi riguarda direttamente dico che anche il fare psicoterapia non è esente dalla caduta, dallo smarrimento della linea di condotta, dal non sapere cosa fare. Io non mi vergogno di ammetterlo e di confessarlo ai miei pazienti lasciandoli liberi nella scelta, se restare o andare per altre strade. Una sola cosa prometto: che non abbandono, non mi rassegno all’impotenza e che mi impegno a fare ricerca. L’inciampo pertanto per chi ha passione della conoscenza e che ammette di non sapere è invece l’indizio fortuito dell’avvio della ricerca, l’incidente che mette in gioco mente e fatica a cercare quello che non si conosce: il sintomo, che non è semplice comportamento patologico, ma soprattutto segnale di allarme di qualcosa che disturba perchè si è inciampati. Si stabilisce allora quella necessaria alleanza terapeutica fondamentale, pur nel rispetto reciproco dei ruoli, per trovare il senso di quello che è nascosto.
Chissà perchè fra gli psicoretapeuti non si parla dei fallimenti, se non raramente.