Il mare della formazione di Massimo Recalcati

“Una buona parte della nostra vita passa a turare i buchi, a riempire i vuoti, a realizzare e a fondare simbolicamente il pieno” J. P. Sartre, L’essere e il nulla

La scena è quella di una spiaggia. L’orizzonte non è quello chiuso della stanza dell’analisi, ma quello aperto del mare. Viene subito alla mente una tesi di Fachinelli: la psicoanalisi si è progressivamente costruita come una grande difesa fobico-ossessiva nei confronti dell’aperto [1].Una pulsione securitaria si è impossessata del suo corpo teorico e pratico. L’apertura si è richiusa su se stessa; lo squarcio della sovversione freudiana è stato saldato; il gruppo bisaccia ha prevalso sul gruppo nassa [2]; l’immobilità sul movimento, la purezza sulla contaminazione; il formulario teorico e la sua neolingua sulla invenzione e sulla poesia.

Ma questo giudizio vale solo per la psicoanalisi post-freudiana o deve comprendere anche il lacanismo? Non si potrebbe dire lo stesso sostituendo al nome di Freud quello di Lacan? Non è forse accaduta la stessa involuzione nella psicoanalisi lacaniana dopo Lacan? Domanda alla quale dobbiamo aggiungerne subito un’altra: è un destino che accada così ogni volta che siamo di fronte ad una esperienza radicale di rottura, di sovversione, di apertura? Il che mi porta a chiedermi: esiste qualcosa come una pulsione a chiudere? Esiste una pulsione securitaria propria della psicoanalisi? Una sorta di deviazione religiosa, anti-laica, claustrofilica della pulsione? Una pulsione a rifiutare il sovvertimento? Esiste una coazione verso la chiusura?

Gli esseri umani non fanno altro che riempire i vuoti direbbe Sartre[3]. Dovremmo allora studiare con più attenzione la psicologia delle masse fasciste di Reich e Fromm per intendere qualcosa in più di questa pulsione a chiudere?4

La psicoanalisi pura

L’espressione lacaniana “psicoanalisi pura” non porta con sé qualcosa nell’ordine del razzismo, non è una formulazione anti-analitica, in quanto non laica? L’invocazione della purezza non è il modo più diretto per trasformare la verità in una macchina di violenza? Chi sarebbero poi i puri? E gli impuri? La psicoanalisi pura è divenuta una forma di fondamentalismo regressivo destinato all’estinzione. I puri hanno sempre bisogno degli impuri per esistere. Ma credersi nella purezza non è la forma peggiore per fare esistere l’Altro dell’Altro, per distinguersi dall’impurità della inesistenza dell’Altro? Non è questo uno dei fantasmi più fondamentali della nevrosi? Installarsi come analista puro non è una contraddizione in termini con il mestiere dell’analista che per definizione tratta con l’impurità del reale?

La spiaggia e il mare

La nostra scena di partenza è dunque quella di una spiaggia. Ma non quella di San Lorenzo al mare che apre la Mente estatica di Fachinelli. Probabilmente si tratta di una spiaggia della costa francese. Della costa azzurra? Non sappiamo. Il racconto si trova in Differenza e ripetizione di Deleuze [5]. I protagonisti sono un bambino e il suo istruttore di nuoto.

Dobbiamo immaginarceli sulla spiaggia uno di fronte all’altro. Il maestro insegna al suo allievo il noto bestiario di questa pratica: la farfalla, la rana, il delfino. Immaginiamo gli occhi del bambino fissi sui movimenti del maestro: la ripetizione nei movimenti dell’uno dei movimenti dell’altro.

Immaginiamo l’acquisizione lenta di una tecnica. Fare come il maestro – spiega Deleuze – è sempre un tempo necessario alla formazione. Questo “come” è una identificazione elementare, un’identificazione in esteriorità. È’ acquisizione di una competenza, si direbbe oggi. Ma questo tempo dell’acquisizione passiva – dell’apprendimento come ripetizione, non produce alcun effetto di formazione, ma solo effetti di conformazione. Si tratta di un percorso di acquisizione che ha come meta un ideale di compiutezza: sapere il sapere del maestro. È un concetto schematico di trasmissione come semplice duplicazione, come riempimento del vuoto dell’ignoranza, del non-sapere.

La riduzione della formazione a conformazione

In questo primo tempo non vediamo sorgere effetti di formazione. Perché questi accadano, continua Deleuze, non è sufficiente fare come il maestro ma è necessario fare con il maestro. Sino ad un punto abissale. Lo vedremo fra poco. Per il momento accontentiamoci di fissare un punto generale: la
formazione non è conformazione ad un ideale di compiutezza. La compiutezza – l’installazione identitaria -, è piuttosto il sogno perpetuo della nevrosi: trasformare la divisione del soggetto in una divisa. La formazione opera invece all’inverso: riconduce la divisa alla sua divisione strutturale. Non installa, ma de-istalla, non porta a compimento un processo, ma lo mantiene aperto; non completa ma de-completa; non autorizza all’autosufficienza, ma la disgrega.

Si tratta di cogliere la conformazione come la malattia più propria della nevrosi: conformazione del desiderio alla domanda dell’Altro (altruismo permanente), conformazione della pulsione all’Io (ascetismo sacrificale), conformazione dell’avvenire al passato (coazione a ripetere), conformazione della propria vita all’Ideale dell’Altro (inibizione dell’atto).

Questa riduzione della formazione a conformazione ha storicamente prevalso nel modo di concepire la formazione dello psicoanalista.

Innanzitutto nella psicoanalisi post-freudiana, ma anche nel lacanismo. La conformazione in sé ha un fondamento platonico. Suppone l’esistenza di un modello – l’essenza pura dell’analista – che agisca come riferimento ideale dell’allievo. Tuttavia, senza conformazione non si dà possibilità di formazione. Il che significa che non esiste auto-formazione, che darsi da sé la propria forma senza passare dall’Altro è l’illusione della perversione, è la chimera libertaria che anima coloro che vorrebbero fare senza i maestri.

Diverso però è quando la formazione si riduce alla conformazione. In questo caso siamo di fronte ad una vera e propria alterazione patologica della formazione. Perché mentre la formazione si regge sul principio operativo della divisione del soggetto, la conformazione implica come suo esito una installazione del soggetto, la quale, a sua volta, genera una sorta di cambio di stato nel soggetto stesso: da incompiuto diviene compiuto, da diviso diviene indiviso.
 

L’istituzionalizzazione della formazione come conformazione

Quando la formazione viene ridotta alla conformazione, essa può facilmente assumere le forme dell’istituzionalizzazione nel significato che Franco Basaglia assegna a questo termine: il serpente dell’istituzione – della purezza che essa normativamente deve tutelare – si impossessa del corpo
dell’istituzionalizzato; lo parassita, lo occupa abusivamente, lo deforma sino a rubargli la vita [6]. In questo senso i veri maestri, come ricorda Deleuze in uno struggente articolo dedicato a Sartre, producono sempre effetti di deistituzionalizzazione [7].

L’istituzionalizzazione della formazione è un campo dominato dallo “sguardo severo” e dalla “voce grossa” del Super-io: la vita viene colonizzata dal sapere e dalla domanda dell’Altro. Se la formazione comporta la produzione di effetti di desiderio, o, come direbbe Althusser, di “effetti di soggetto” [8], la conformazione genera al contrario solamente effetti di clonazione e di adeguamento passivo del soggetto al comando del Super-io istituzionale. Questo comando nel post-freudismo assume le forme anonime della burocrazia che detta i tempi standard della formazione come conformazione. E nel lacanismo? Qual forme assume in esso il comando del Super-io nel processo della formazione?


Un equivoco religioso: il Libro al posto del mare

Nel lacanismo dopo Lacan, l’istituzionalizzazione della formazione ridotta a conformazione ha assunto innanzitutto la dimensione dell’idolatria religiosa del Libro. Si tratta di un processo di feticizzazione che assimila la psicoanalisi lacaniana all’ordine di un gruppo chiuso che parla una lingua per iniziati, per adepti. Storicamente è stato proprio il commento al Libro a fondare in modo particolarissimo l’identità della famiglia lacaniana. Niente di simile in nessun altro gruppo psicoanalitico. Si tratta di una eredità chiaramente religiosa che ha reso il lacanismo nelle sue diverse manifestazioni assai simile ad una vera e propria setta. Il Libro è divenuto il luogo di una Verità fuori dal tempo, immobile, imperitura, eterna. Il Libro ha sostituito il mare. E così noi psicoanalisti lacaniani abbiamo colpevolmente dimenticato il mare. Ho provato a scrivere dei libri che provassero a ricordare, contro la sacralizzazione del Libro, l’esistenza dell’aperto del mare e il suo profumo. Nel lacanismo la necrofilia del Libro ha tendenzialmente ricoperto l’intero problema della formazione: se esiste una sola lettura possibile del Libro, se esiste un solo Libro, la formazione è di per sé ridotta alla conformazione passiva alla verità del Libro e della sua unica lettura possibile. Sicché l’essenza del Libro precede e definisce l’esistenza della singolarità: il Libro spiega la vita, nel senso che la anticipa in quanto tutta la vita è già tutta scritta nel Libro. Dovrebbe invece essere la formazione a fare esistere nuovi libri e a non permettere di consacrare il Libro come Libro dei libri.

Nel lacanismo il Libro ha preso il posto di Dio e del carisma infinito del suo autore. È il Libro che detta i contenuti e la direzione del processo di formazione. Dunque la sua verità – la verità contenuta nel Libro – non può che generare una neo-lingua come effetto della predominanza della conformazione sulla formazione. L’allievo non agisce con il maestro ma prova a fare come il maestro. Al contrario la formazione dovrebbe avere come sua condizione la laicizzazione del Libro. Se Leggere – che è una attività fondamentale della formazione – implica sempre il rischio della codificazione, ogni codificazione del Libro urta contro l’inesauribilità del Libro. Custodire l’inesauribilità del Libro significa pensare il Libro a partire dal mare. Sarebbe la funzione di chi ha la responsabilità di orientare la formazione; sarebbe questa una maniera per reagire agli effetti religiosi della formazione come conformazione. L’esperienza laica del Libro è l’esperienza della mancanza e non della Verità. Non è esperienza del chiuso della setta ma dell’aperto del mare. Non è esperienza di una sola lingua ma di una molteplicità di lingue possibili.

L’esempio della passe

Si possono fare tanti esempi possibili di questo dominio feticistico-idolatrico del Libro. Il più evidente, nel mondo lacaniano, è quello della passe. La testimonianza della passe è stata chiaramente sottomessa alla verità del Libro. Il Libro non si genera – come dovrebbe essere – dalla testimonianza, ma è l’essenza a priori alla quale la testimonianza deve conformarsi. Sicché una testimonianza di fine analisi da parte di un passant è giudicata tale dalla giuria analitica solo se conferma la verità del Libro. La sua lingua non può essere una lingua nuova, ma deve essere uniforme alla neo-lingua della setta. Come si finisce un’analisi? Sull’attraversamento del fantasma? Sull’identificazione al sintomo? Sul godimento dell’Uno senza l’Altro? Ogni volta è la dottrina ad imporre al passant le parole con le quali egli è tenuto a descrivere la sua esperienza mentre dovrebbe essere il contrario: dovrebbero essere le parole nuove della testimonianza dell’analizzante ad obbligare la dottrina ad avanzare, ad isterizzare la dottrina rendendola mancante. La prova del passant si riduce invece a certificare solo la sua avvenuta conformazione ai capisaldi essenziali della dottrina. Per questa ragione la testimonianza della passe è sempre senza sorprese perché il suo fine primo non è bucare la dottrina – renderla mancante – ma affermare la sua consistenza incontrovertibile. La sola testimonianza possibile è quella della verità assoluta del Libro, mentre dovrebbe essere – all’inverso – la testimonianza a fare esistere il Libro come mare, a rendere il Libro inesauribile come l’aperto del mare. Il che significa che il formulario irrigidito del Libro spazza via l’evento singolare dell’esperienza, richiude l’apertura della parola della testimonianza. La formazione si riduce all’acquisizione del sapere del Libro dove la verità si dà come tutta rivelata. Senza margini di mistero, senza imprevisti, senza discontinuità, senza più alcun rapporto con l’evento.  È questo il principio di ogni fondamentalismo. 
 

L’impatto con l’onda

Possiamo tornare ora al punto abissale della scena del maestro di nuoto e del suo allievo. Quale punto abissale? Nella metafora marina proposta da Deleuze esso è sintetizzato dal primo impatto con l’onda. Fare come il maestro non genera effetti soggettivi di formazione. Bisogna che questo sapere avvenga, accada, si produca una seconda volta. In quale tempo? Nel tempo dell’impatto del piccolo nuotatore con l’onda del mare. È solo questo impatto che costringerà il nostro apprendista ad inventare un proprio stile, a mettere il suo sapere acquisito alla prova del reale. Senza l’impatto con l’onda non c’è formazione possibile. Ma l’onda anziché sigillare la compiutezza del sapere acquisito dal maestro, restituisce al soggetto la sua incompiutezza. Anziché installare il sapere al posto dell’essere, decompleta il sapere grazie al suo richiamo continuo all’essere.

Possiamo chiederci: cos’è l’onda nella nostra pratica, nella pratica della psicoanalisi? Quale è l’onda con la quale abbiamo a che fare nel nostro percorso di formazione? L’impatto con l’onda è l’impatto col reale. L’onda che ritorna sempre su se stessa è un’immagine lacaniana del reale. Per questo Lacan diceva che la vera passe è come un’onda. Lo stile di un analista come esito singolare di una formazione dipende dalla soggettivazione di questo impatto del sapere con l’essere e non dalla conformazione dell’essere al sapere. Più precisamente, l’onda è la forza della pulsione, il suo moto
costante refrattario al sapere. Il sapere che un analizzante acquisisce veramente è il sapere che sorge da un punto di impossibilità, ovvero dai limiti del sapere, dal suo impatto contingente e necessario con l’onda della pulsione.
Il problema della formazione è quello di come dare una forma alla forza della pulsione, di come fare amicizia con l’onda. È il nodo che lega insieme la pulsione e il desiderio. La pulsione non conosce esperienza della formazione. Il suo moto è a spinta costante, direbbe Freud. L’istanza del desiderio pone invece il problema della forma. Senza forma il desiderio resta nella non realizzazione; nel lamento isterico o nella demolizione ossessiva, nel rinnegamento perverso o nella disgregazione psicotica. Come la forza dell’onda può allora trovare una forma che non sia quella della coazione a ripetere? È questo il problema della formazione ridotto ai suoi termini ultimi. La testimonianza della soluzione singolare di questo problema avviene ogni giorno. Se la conformazione è una forma religiosa di alienazione alla volontà dell’Altro, la formazione analitica dovrebbe generare effetti di laicità – dunque di separazione dall’Ideale dell’Altro – che scaturiscono solo dall’esperienza dell’incontro con l’inesistenza dell’Altro, ovvero con la trascendenza dell’onda rispetto al sapere del maestro.

Il sapere e la vita: come si giudicano gli effetti di una formazione?

In una formazione il rapporto tra il sapere e la vita è a doppio scatto. Primo scatto: non la vita dedita al sapere, ma il sapere dedito alla vita. Secondo scatto: non c’è vero accesso al sapere se non attraverso la trasformazione della vita. Qui dobbiamo situare il problema della testimonianza: di quale forma di vita testimoniano gli analisti nella loro vita? Non credo sia una domanda inopportuna. Mi si potrebbe obiettare: “ma un analista è tale solo nella stanza dell’analisi”. Si, certamente. Ma insisto: quale testimonianza di vita offre la sua vita? Per il lacanismo come venerazione religiosa del Libro questa domanda apparirebbe probabilmente insensata. Se invece assumiamo l’orizzonte del mare come l’orizzonte della formazione essa diventa una domanda essenziale. Sa amare i suoi figli, la sua donna, il suo uomo, sa rinunciare davvero al potere o sa non disprezzare il potere senza goderne, sa vivere eroticamente il proprio corpo e quello degli altri, sa sopportare le avversità, sa riconoscere la propria vulnerabilità, sa chiedere aiuto, sa sopportare il reale dei legami, sa generare frutti…? Insomma, gli analisti, nelle loro vite, sanno testimoniare sufficientemente l’apertura infinita della vita, sanno amare il mare? Oppure mostrano, con la loro vita, che la psicoanalisi ha sostituito la vita? Che il sapere ha divorato la vita, che il sapere ha sostituito – come accade nel discorso dell’Università – l’essere? Ma la forza generativa di un sapere non dipende forse dal suo aggancio alla vita? A cosa servirebbe un sapere senza vita o contro la vita, o, come direbbe Fachinelli, un sapere bardato, in difesa permanente della vita [9]? Cosa sarebbe un sapere senza il mare e senza l’impatto singolare con l’onda? È un problema che ritroviamo centralissimo nelle esperienze spirituali di ogni

genere: la comprensione astratta della lettera – privata della sua testimonianza – rende quella lettera una lettera morta. Sappiamo che per comprendere davvero i concetti della psicoanalisi bisogna farne l’esperienza nella propria analisi. Sappiamo che senza trasformazione dell’essere non c’è sapere capace di entrare in reazione con la verità. Ma oltre il limite angusto della stanza dell’analisi e ben oltre la prova offerta ad una qualunque giuria analitica – come invece richiede il dispositivo della passe -, è la vita singolare dell’analizzante – la sua generatività, la sua libertà, la sua capacità di apertura all’evento del mondo – a testimoniare gli effetti di formazione. Sa amare? Sa lavorare? Si chiedeva Freud. Sa accogliere l’evento singolare dell’esistenza? Questioni decisive che andrebbero riprese. Sa amare? Sa lavorare? Ma soprattutto, ed è forse l’interrogativo che li riassume entrambi, sa questa vita, questa vita singolare toccata dall’onda del reale, essere aperta di fronte alla possibilità sempre possibile dell’incontro, dell’evento contingente dell’incontro? La formazione analitica prepara davvero l’esistenza a questa apertura o è concepita per renderla impossibile, per escluderla o per mortificarla? Per essere una trappola che il sapere tende nascostamente all’essere?

Ai miei occhi Lacan è andato troppo velocemente al di là di questi interrogativi richiudendoli, sigillandoli in un formulario che è diventato una neo-lingua. Davvero non contano nulla sapere amare e saper lavorare come criteri di fine analisi? Come testimonianza etica degli effetti di una formazione? Questi effetti non dovrebbero implicare innanzitutto il nostro modo di essere nel mondo dal quale deriva il nostro modo di essere analisti?

O pensiamo davvero che possa valere il contrario? Sarebbe il nostro essere analisti a imprimere la forma ultima della nostra esistenza? Io credo che la sola passe che conti sia quella imposta dalla vita e che per coloro che abbiano fatto esperienza di un’analisi condotta a fondo, il compito che li attende sia quello etico di testimoniare gli effetti di questa esperienza nella loro vita e nella comunità di lavoro alla quale appartengono. In questo senso specifico la passe permanente è davvero come un’onda che ci costringe a testimoniare giorno dopo giorno l’incontro con il reale di cui abbiamo fatto esperienza nell’analisi. L’enunciazione dell’analista dovrebbe coincidere così con il luogo della testimonianza della sua vita sulla quale tutti gli enunciati del suo sapere dovrebbero trovare il loro sostegno singolare. ultimo. Non è l’essenza del Libro a precedere e a determinare la singolarità dell’esistenza, ma è quest’ultima a precedere e a determinare l’essenza del Libro. Altrimenti, come dice la saggezza popolare, il “predicare bene” si presterà ad essere fatalmente tradito nel “razzolare male”.

Note 

1Cfr., E.Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, pp. 15-25

2Cfr., J.Lacan. Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 1979, pp. 145-148

3Cfr., J.P.Sartre, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, Il Saggiatore, Milano 1980, pp. 734-736  

4Cfr., W.Reich, Psicologia di massa del fascismo, Einaudi, Torino 2002; E. Fromm, Fuga dalla libertà, Edizioni Comunità, Milano 1979

5Cfr., G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffello Cortina, Milano 1994, pp. 35-36

6Cfr., F. Basaglia, Corpo e istituzione, in Scritti, Einaudi, Torino 1981, vol.1, pp. 433-438

7Cfr., G.Deleuze, È stato il mio maestro”, in L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste, 1953-1974 Einaudi, Torino 2007, pp.95-99

8Cfr., L. Althusser, Tre note sulla teoria dei discorsi, in L. Althusser, Sulla Psicoanalisi, Raffaello Cortina, Milano 1994, pp. 118 e seguenti

9 Cfr., E. Fachinelli, La mente estatica, op.cit., pp. 15-16

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