Il muro tra Noi.
Dialogare è sempre stato difficile.
Ogni volta dobbiamo compiere lo sforzo di andare “incontro” al diverso senza preconcetti e paranoie. Il tempo che dedichiamo alla nostra vita “sociale”, e virtuale, dipende da noi, è una nostra scelta.
Ma se oggi affidiamo la nostra comunicazione agli strumenti “social”, dove la parola orale è sostituita da quella scritta, diventa davvero accidentato il percorso per una conversazione quanto meno civile e democratica.
Molti avranno provato, direttamente o indirettamente, una oggettiva incapacità nel poter esprimere il proprio pensiero senza correre il rischio di essere fraintesi o, nella peggiore delle ipotesi, essere presi di mira da un “amico” che tale non è.
E non importa se il bersaglio facile è una persona famosa o meno, un intellettuale o un attore, un politico o un giornalista, perché l’unica cosa che conta, per chi “usa” offendere, è scrivere pubblicamente un commento velenoso, o condividere un messaggio privato in una chat di gruppo, per diffamare senza pietà, senza lucidità, l’autore del post.
Per la persona inquisita si tratta di dover dimenticare, di ignorare l’accaduto solo dopo un faticoso lavoro del lutto, perché si tratta, a mio parere, di elaborare il trauma di essere stati aggrediti ingiustamente da un estraneo di cui non si conosce il “volto”.
Siamo accompagnati così dal timore di ributtarci nella collettività virtuale, di sentirci parte di una dimensione gruppale in cui la nostra particolarità sia accettata e rispettata. Personalmente credo che molti su facebook perdano il contatto con la realtà, dimenticando che le parole hanno un peso e delle conseguenze. Molti si nascondono dietro la “sicurezza” del monitor e dimenticano di rivolgersi ad un “pubblico” che li legge. Allo stesso modo perdono la buona educazione e il garbo di prediligere una scrittura privata, lì dove l’argomento trattato, non è di dominio pubblico, soprattutto nel rispetto della persona a cui il messaggio è rivolto.
Malgrado l’uso “veloce” della comunicazione (la parola è sostituita molto spesso dai simboli, che nulla esprimono se non messaggi “universali” e mai “particolari”), credo che Facebook sia uno strumento utile di condivisione, in cui noi tutti abbiamo negli anni accumulato post, immagini e tanti contatti. Alcuni “amici” li conosciamo (perché fanno parte della nostra comunità “reale” in cui abitiamo) ma altri, forse, non li incontreremo mai, ma cerchiamo comunque di conservare e coltivare in maniera garbata e rispettosa, una conoscenza che resterà molto probabilmente solo virtuale. Facebook lo definisco un serbatoio dove capita un po’ di tutto, e in questo coacervo di informazioni infilate una dopo l’altra sulla home, spetta a noi dare forma al contenitore attraverso la qualità dei contenuti che vogliamo ricevere, la “selezione” dei contatti e delle pagine da seguire.
È utile, almeno per me, stabilire un “buon motivo” per usare FB, dare un senso all’uso di un diario o di una pagina o di un gruppo (qualora se ne faccia parte) e seguire una certa linea conservando comunque una certa flessibilità alle “inaspettate” circostanze che si possono via via presentare.
La modalità con cui alcuni scelgono di interagire con gli utenti è legata ad una utilità lavorativa (professione, pubblicità, formazione, informazione) ma per altri è un girovagare senza meta, una perdita di tempo per diffondere qua e là colate verbali di odio. Facebook è invece uno strumento di socializzazione, e come tale, gli utenti dovrebbero sentirsi incoraggiati ad un uso responsabile della parola, alla libera circolazione di un pensiero differente, ad una condivisione di idee nella loro unicità per favorire lo scambio, far circolare l’ossigeno che rende liberi di crescere e di vivere.
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Vero quello che dici, Stefania Leone, e per questo fin dall’inizio, da quando mi sono affacciato al mondo dei social, ho letto la doppia faccia e ho fatto una scelta: pochi, ma buoni. Come nella vita d’altronde. Ne avevo avvertito la pericolosità dell’essere esposti a sconosciuti, e d’altra parte anche la positività del nuovo strumento di comunicazione. La pericolosità la vedevo soprattutto in una perdita del tempo, tempo che per me è prezioso. Per questo mi son posto delle condizioni: 1. creare un gruppo privato e selettivo di “amici” conosciuti nel reale e quelli conosciuti nel virtuale dopo molto tempo; 2. essere presente nel social con molta parsimonia e solo per comunicare in genere commenti di quello che leggo. Ho fatto mio, così, il titolo di un interessante articolo di Stefano Bartezzaghi: “Per favore dite a tutti quello che state leggendo” (https://www.facebook.com/notes/giuseppe-basile/per-favore-dite-a-tutti-che-cosa-state-leggendo-di-stefano-bartezzaghi/370063396360020/ ). Ho trovato in questo messaggio una piccola verità: un libro, una poesia, qualsiasi testo una volta pubblicato non appartiene più esclusivamente all’autore, ma anche al lettore, che lo fa proprio, lo rimaneggia con la sua sensibilità, lo metabolizza, lo fa diventare parte integrante della sua vita e della sua personalità.
Condivido pertanto con Stefania che “ stabilire un buon motivo” per usare FB, dare un senso all’uso di un diario o di una pagina o di un gruppo” è importante.
Se il tuo buon motivo, Stefania, è la passione per la fotografia, il mio è quello di lasciare una traccia di me, di essere presente in modo visibile agli altri con cui mi metto in relazione, e visibile con quella parte di me sconosciuta agli altri, anche se a volte in modo discreto e in modo metaforico. Lo confesso, sono geloso della mia pagina, non potrei accettare che un intruso mi offenda in casa, lo escluderei immediatamente, perché essere in un gruppo implica accettare le regole implicite non scritte dell’essere invitato in casa di amici.
Arriva un tempo in cui l’apparire, senza resistenza e senza inutile difesa, è più libero, quasi naturale, mostrare l’altra faccia della luna che è in noi. Poi ognuno ha i suoi modi. Il mio è come scrivere a puntate la mia storia interiore con l’occasione di parlare d’altro, di quello che so e di quello di cui mi interesso: la psicoterapia.
Arriva un tempo in cui uno trova la forza di abbattere i muri della comunicazione e della relazione interpersonale nei contesti più familiari che hanno un valore vitale aggiunto. Cosa non facile per tutti, psicoterapeuti compresi, perché l’altro per quanto vicino possa esserci, è sempre altro, “ogni volta dobbiamo compiere lo sforzo di andare “incontro” al diverso” e alla diversità che è in noi. Questa è la verità per tutti.
I miei amici si saranno accorti allora che il testo letto e pubblicato e commentato è occasione anche per parlare di me, della mia esperienza, del mio saper fare, del mio essere. Io penso che scrivere e parlare di sé implica e amplia la conoscenza di sé, è autoformazione, anche se apparentementequello che si fa è un commento tecnico. Inverando così la massima socratica: Conosci te stesso.
Da tempo mi chiedo sempre più spesso qual è il senso del mio lavoro di psicoterapeuta. E non è una domanda retorica che mi faccio, dato che si dovrebbe dare per scontato che uno psicoterapeuta sappia il senso del suo lavorare. Quello che mi chiedo invece è se il lavoro del mio essere psicoterapeuta si esaurisca e debba esaurirsi nella relazione esclusiva con il paziente o con la sua famiglia, quando e se questa è disponibile. Mi chiedo e mi dico e riconosco che, dopo tanti anni, il lavoro fatto con gli altri mi ha aiutato a conoscermi meglio, ad ampliare la mia autoconoscenza. E di questo dovrei ringraziare i miei pazienti, verso cui mi sento debitore, che mi hanno permesso di “vedermi” nella mia umanità limitata. Prima o poi nel corso della terapia l’altro mi fa da specchio in cui vedo riflesse parti di me stesso. E così giorno dopo giorno ho accumulato un patrimonio di autoconoscenza e di conoscenza di quello che si muove nell’animo umano, non solo quando individualmente ognuno è chiamato a fare i conti con se stesso, ma soprattutto quando i conti deve farli con gli altri con cui entra in relazione come figlio, come genitore, come partner di coppia.
La mia speranza è che quelli che con costanza mi seguono nei miei racconti, soprattutto i miei familiari più stretti, mettendo assieme i vari frammenti della mia storia che qua e là depongo, possano conoscere la parte di me che non si vede e restare così nella loro memoria.
Cinzia Sorvillo
Giuseppe Basile molto bello ciò che scrivi ❤️. Giuseppe qualsiasi cosa tu scriva, lo fai anche per raccontare, per aiutare l’altro, per verbalizzare sentimenti e vissuti, così come Stefania. Infatti io quando ho scritto il post non ho pensato né a Stefania né a te. Però il discorso di Stefania su quanto entra delle nostre vite nello schermo, oppure la relazione e la comunicazione online, mi ha fatto pensare anche a questo altro aspetto. Più volte ho avuto modo di constatare che ci sono tantissime persone, ma tante davvero, che condividono di continuo la vita anche nel ‘male’. Una persona che conosco, per esempio, ha perso il figlio piccolissimo da poco. Uno strazio leggere i suoi post giornalieri sia di quando stava attraversando la malattia, sia ora che non c’è più. Tutti i giorni! Non c’è critica nella mia riflessione, anzi! Solo constatazione
Mi sento chiamato in causa, Cinzia Sorvillo, perché anch’io ho pubblicato due post per mia madre e uno per mio padre in occasione di ricorrenze di anniversari. Mi chiedi perché, e la mia risposta non è fra quelle che hai suggerito. Ho ricordato per la prima volta nel mio diario mia madre, dopo dieci anni dalla sua morte e la seconda dopo quindici anni in ricorrenza della festa della mamma. Mio padre l’ho ricordato dopo quindici anni dalla sua morte.
La mia risposta alle tue domande sarebbe: per amore. Io ho conosciuto e scoperto mio padre e mia madre dopo la loro morte ed ho scoperto che sono vivi in me. Quindi non un ricordo di morti, ma di vivi. Vivi nella mia mente e nella memoria, presenze interiorizzate che mi stanno accanto nelle vicissitudini della vita e se interrogate rispondono. Non si tratta di una di una istintiva idealizzazione, come di frequente capita, che i vivi fanno dei morti. Quindi mi sembra giusto e doveroso ricordare questi compagni di viaggio quando le occasioni si presentano e testimoniare il loro amore e il nostro debito.
Cinzia Sorvillo
Complimenti a entrambi. Tutto vero e condivisibile. Secondo me è in corso anche un mutamento del vissuto del dolore, dalla morte alla malattia, dalle violenze al dolore psichico. La morte e il dolore sono diventati social. Quanti raccontano ogni giorno sul proprio diario virtuale la morte di un figlio, o del partner o del genitore. oppure, quanti decidono di raccontare le proprie sofferenze psichiche o fisiche al mondo online?! Perché si affida il racconto del dolore a fb o altro social? Forma estrema di narcisismo o forma terapeutica di attraversamento della sofferenza? Complimenti a entrambi. Tutto vero e condivisibile. Secondo me è in corso anche un mutamento del vissuto del dolore, dalla morte alla malattia, dalle violenze al dolore psichico. La morte e il dolore sono diventati social. Quanti raccontano ogni giorno sul proprio diario virtuale la morte di un figlio, o del partner o del genitore. oppure, quanti decidono di raccontare le proprie sofferenze psichiche o fisiche al mondo online?! Perché si affida il racconto del dolore a fb o altro social? Forma estrema di narcisismo o forma terapeutica di attraversamento della sofferenza?