Il Pazzo di Antonio Frizzera

IL PAZZO

Antonio Frizzera

 

scrittura murale in un manicomio

 

Visto da vicino nessuno è normale .     

Franco Basaglia

 

Oggi è arrivato quello nuovo. Ci siamo guardati tra colleghi, al di sopra degli schermi dei computer, senza una parola, ma quello che non ci dicevamo era chiaro: è buona norma accogliere i nuovi venuti senza dare troppa confidenza. Solo il geometra R. si è lasciato sfuggire un sorriso di benvenuto che poi ha fatto scivolare in un ghigno sghembo, simulando uno sbadiglio, quando ha visto come lo guardavamo. Sorridere a un nuovo venuto, può sembrare solo un gesto educato e civile, invece rappresenta il primo cedimento alla necessità, consolante e rassicurante, di avere degli amici e io ho imparato a non indulgere in questa debolezza.

Siamo in cinque all’ufficio protocollo, è così da quando sono stato assunto. La direzione, appena qualcuno cambia reparto o se ne va per qualche motivo, lo sostituisce già dal giorno successivo. Il dottor B. ci ha salutato ieri, si è trasferito in un’altra città e oggi è arrivato lui: il fenicottero. Sì, gli ho affibbiato un nomignolo, ognuno di noi lo ha e lui sembra proprio uno di quegli uccelli impettiti e indolenti che hanno poca voglia di volare. Infatti cammina. Cammina con le mani dietro alla schiena senza fare alcun rumore: porta un paio di scarpe nere con la suola di gomma. E’ molto magro, magrissimo. Difficile immaginare il corpo dentro quei pantaloni neri e la camicia perfettamente bianca che gli cade dalle spalle come da un appendino. Mentre cammina, le gambe e il busto sono allineati tra loro, mentre il capo rimane ruotato di qualche grado verso sinistra, così quel naso affilato e pallido fende il corridoio tra le scrivanie come la chiglia di una barca che inesorabilmente scarroccia, vinta da un vento invisibile.

Stamattina non ha lavorato nemmeno un minuto: ha continuato a muoversi, silenzioso come un pesce, tra le nostre scrivanie. Un po’ prima della pausa delle nove e quarantacinque, me lo sono trovato alle spalle all’improvviso. Ho percepito una zaffata di menta fresca, per via di quelle caramelle che non ha mai smesso di succhiare, mi sono voltato e lui era lì, e osservava il mio monitor. Anche mentre lo fissavo e gli dicevo “Cazzo, vuoi?!”, lui ha continuato a puntare gli occhi, inespressivi, sul documento che avevo sullo schermo, allora l’ho chiuso, così non gli è rimasto altro che gustarsi il salvaschermo: scene di battaglie di cavalleria, la mia passione. Le osservava con interesse, pensavo se ne andasse subito invece si è soffermato a lungo, tanto che ho pensato che mi avrebbe chiesto il perché di quella scelta e già mi preparavo a dissimularne il vero motivo: no, non avevo intenzione di svelarmi il primo giorno! Prima di andarsene il fenicottero mi ha posato una mano sulla spalla e poi l’ha fatta scivolare via lentamente, ignaro di essere stato il primo a toccarmi dopo tanto tempo.

Un passo dopo l’altro, le mani dietro la schiena, ha continuato il suo giro di perlustrazione: pareva effettivamente una sentinella di ronda. Forse a causa del suo incedere, cauto e vigile, il ragionier G. gli ha messo improvvisamente fuori un piede, a sondarne la reale prontezza. E lui lo ha evitato, con lo strambo movimento tipico di quegli uccelli, appunto. Ha articolato la gamba destra mentre il piede sinistro rimaneva ben saldo a terra, poi quando il destro ha ripreso terra oltre l’ostacolo, la sinistra ha scalciato indietro, ha spinto il ginocchio e poi ha continuato il passo, come niente fosse. Il G. ha ritirato la gamba massaggiandosi il polpaccio, fingendo un crampo improvviso.

Ha trascorso l’intera mattinata curiosando tra le scrivanie, e quindi il lavoro, degli altri, finché il rag. C. gli ha urlato una bestemmia e poi “Vuoi lasciarmi in pace brutto uccellaccio! Fai il tuo lavoro e stai seduto al tuo posto!”. Il nuovo lo ha guardato con falsa bonarietà, gli occhi acquosi opachi e verdi, come uno stagno invaso da girini: “volevo solo farmi un’idea”, ha mormorato a mezza voce. Poi si è seduto alla sua postazione e ha iniziato a scrivere.

Oggi ho preso servizio all’ufficio protocollo: con funzione di coordinamento, mi è stato detto. In ufficio sono quattro uomini: nemmeno una donna, ma questo lo sapevo già. Hanno un’età indefinibile, vestono tutti con capi fuori moda di tutte le gradazioni del grigio. Un paio di loro ha la barba lunga non curata, certamente da più giorni. Gli altri due invece, sono perfettamente sbarbati, e questo, purtroppo, comporta anche l’utilizzo eccessivo di un dopobarba dozzinale che toglie il respiro. E’ da tutto il giorno che tengo in bocca una mentina per non vomitare: spero di riuscire ad abituarmi col tempo.

Sapevo che non avrei avuto vita facile in quel reparto, appena entrato uno di loro mi ha addirittura fatto le linguacce: pensava non lo vedessi invece no: l’ho visto, e appena se n’è accorto ha fatto finta di sorridermi ma gli è uscita una smorfia disgustosa e volgare, come lo sbadiglio di uno scimpanzé.

Ho trascorso buona parte della mattina supervisionando il lavoro. Si nota che nessuno prima lo aveva fatto, uno di loro, il sig. F. mi ha offeso senza motivo mentre controllavo i resoconti e ha chiuso immediatamente il documento sul quale stava lavorando. Questo, naturalmente, è inammissibile: domani farò rapporto al responsabile di reparto.

Quando ha chiuso il documento che stavo esaminando invece che i soliti screen saver quello aveva un immagine di una battaglia campestre del’800. Forse è un appassionato di storia. Stavo per chiederne il motivo, ma poi ho pensato che non era il caso, il primo giorno.

Poi le cose sono precipitate: uno mi ha dato un calcio nello stinco mentre passavo e, infine, sono stato aggredito da quello alto con i capelli lunghi che, bestemmiando, mi ha costretto a tornare alla scrivania altrimenti chissà cosa sarebbe accaduto. Ho imparato da tempo a sapermi controllare e non cadere nelle provocazioni. Mi sono seduto al tavolo e ho iniziato ad aggiornare il taccuino della terapia.

Alla una in punto ci siamo fermati per il pranzo, ero curioso di vedere cosa è abituato a mangiare, ma niente, non aveva portato nulla. E mentre mi gustavo il mio pasto, lui si è appoggiato allo schienale della sedia, ha chiuso gli occhi e ha appoggiato il mento sullo sterno. In pochi istanti l’espansione ritmica del torace ne tradiva l’assopimento. Mi è venuto in mente di fargli uno scherzo, uno dei soliti che faccio a chi si addormenta sulla scrivania, invece ho continuato a mangiare.

C’era qualcosa in lui che mi ha impedito di agire, tutto quello che era successo al mattino avrebbe dovuto farlo imbestialire, invece le uniche parole che ha proferito erano un tenue sussurro di scuse, forse, realmente animato da buone intenzioni. Quando mi ha accarezzato la spalla mi è parso che volesse dirmi qualcosa, ma gli sono mancate le parole. Oppure voleva parlarmi solo attraverso quel contatto: non sono riuscito a capirlo.

Mentre dormiva abbiamo parlato di lui. E’ stato allora che gli ho trovato il soprannome: sono bravissimo in queste cose. Per ogni persona ho pronto in men che non si dica l’appellativo corretto e pertinente: un animale, un oggetto o una persona famosa; così ad esempio il rag. C. è l’aliante, per via della sua impressionante altezza e dell’apertura delle braccia che la pareggiano e dei capelli lunghi e radi che ondeggiano al minimo sospiro d’aria.

Ho fatto finta di dormire, mi sono appoggiato allo schienale e simulato il respiro regolare di un pisolino pomeridiano. Naturalmente hanno parlato di me. Ho intuito che mi chiamano il fenicottero, eppure non indosso nessun capo di color rosa.

Il pomeriggio apriamo le finestre che danno sul giardino e l’aria entra: ombrosa e fresca. Scema l’alacrità del lavoro mattutino, un ritmo pacato e sonnecchiante aleggia sulle scrivanie, le pratiche vengono evase con studiata lentezza, nessuno dice nulla. Mi chiedo chi sia il fenicottero. La sua scrivania è sgombra di pratiche, nemmeno il computer. Solo una matita e un taccuino, sul quale scrive con regolarità dopo aver meditato con il lapis che gli stuzzica il mento e poi giù, a scrivere di getto per qualche minuto. I colleghi sostengono che sia pazzo. Probabilmente è così, non è la prima volta che in ufficio ci mandano uno di quelli e sono tutti più o meno simili, vestono strano e non lavorano; come potrebbero del resto, magari questo crede di essere veramente un fenicottero: non mi stupirebbe se ora si alzasse e scuotesse le ali per spiccare qualche balzo maldestro nella stanza sbattendole rumorosamente.

Solo ora, osservando le sue mani, affusolate e pallide, mi arrendo finalmente all’ombra di quelle piume sulla mia spalla stamattina. Ne percepisco ancora l’impronta tiepida trattenuta dal tessuto di cotone grezzo della camicia. Pericolosamente ancora irradia calore ai miei ricordi infantili che giacciono, imprigionati nel gelo profondo della mia anima.

Cerco di ricordare chi e quando mi ha toccato così intensamente l’ultima volta: ma non c’è mai stata.

Non era lo strofinio, ripetitivo e meccanico, che mia madre eseguiva, come un compito, sulla mia nuca di bambino e non era nemmeno il gesto rapido e obbligato delle amanti frettolose che successivamente mi procuravo a buon mercato. Era la carezza, febbricitante di calore e di desiderio, di chi conosce e vive il linguaggio della pelle, non frequentando l’ingannevole mondo delle parole. Il fenicottero, appena arrivato, sapeva come parlarmi e io ho compreso che ero in grave pericolo: per qualche motivo che non conosco, padroneggia il linguaggio di noi derelitti e ha la possibilità di raggiungermi nella polvere dei campi di battaglia dove da anni mi nascondo. Il suo tocco, inconsapevole ma terrificante, ha rischiato di scoperchiare il sepolcro nel quale ho deposto quegli abbracci laidi, puzzolenti e violenti, che mi sforzo di non ricordare.

E allora riordino la scrivania e spengo il PC. Il dormitorio è al piano superiore, mi incammino lungo il corridoio e poi le scale. Più tardi passerà la cena e la terapia. All’infermiere dirò che sono un po’ agitato così aumenterà le dosi e per i prossimi giorni sarò al sicuro. Dopo cena mi resta poco tempo prima di addormentarmi: da molti anni ormai non riesco a stare sveglio. In quel tempo torbido, prima del sonno, ripasso nuovamente i movimenti delle truppe e della cavalleria e ogni volta mi confondo nel turbinio delle armi e dei cavalli, terrorizzati dalle urla strazianti dei miei soldati.

E rimango eternamente sconfitto.

Questa prima giornata volge al termine, i miei pazienti sono più tranquilli nel pomeriggio, sono stanchi e compilano lentamente i moduli mentre io ho avuto modo di stilare le prime schede sul taccuino della terapia. Lascerò il quaderno nell’ufficio del dott. O. come mi ha chiesto e tornerò al mio padiglione.

Il mio letto è nella camerata al piano terra, accanto alla finestra che guarda verso il giardino.

Oggi ho preso servizio all’ufficio protocollo e ho conosciuto un matto che si crede Napoleone: mi piacerebbe che diventasse mio amico.

 Rovereto, 13 maggio 2018…

 Il 13 maggio 1978 entrava in vigore la legge Basaglia

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Ho letto e riletto diverse volte questo racconto di Antonio Frizzera. Se fin dall’inizio stimola la curiosità di arrivare alla fine per capire di cosa si tratta, facendosi leggere tutto di un fiato, solo alla fine capiamo che ci troviamo in un giorno qualsiasi all’interno di un manicomio in cui tutto è immobile e ripetitivo. Arrivato in fondo all’ultima pagina sono rimasto smarrito e confuso per le diverse interpretazioni di senso possibili e tutte collegabili fra loro.

In una stanza di un ufficio amministrativo, impiegati impegnati al computer per l’ordinario lavoro di ufficio, si allertano per la comparsa di un estraneo. Un nuovo impiegato, che fa la differenza, rompe l’equilibrio statico delle relazioni quotidiane. È un diverso per i suoi modi di fare e di essere, si muove silenzioso fra le scrivanie degli impiegati impegnati al lavoro con il pc. Unico a non averlo sulla sua scrivania è lui, il “fenicottero”, che quando scrive, scrive di tanto in tanto con una matita su un taccuino. È un pazzo, dicono gli altri, per i suoi modi bizzarri di fare, di muoversi, per questo cercano di provocarlo per vedere le sue reazioni. Anche la stessa voce narrante è tentata di farlo, ma non ci riesce. ”C’era qualcosa in lui che mi ha impedito di agire”. Tutto perché poco prima il nuovo venuto si è preso la libertà di posare “una mano sulla spalla e poi l’ha fatta scivolare via lentamente, ignaro di essere stato il primo a toccarmi dopo tanto tempo”. Senza saperlo e senza volerlo il fenicottero risveglia con quella carezza non richiesta “ricordi infantili che giacciono, imprigionati nel gelo profondo della mia anima”. È bastato un gesto delicato di chi conosce il linguaggio non verbale e lo usa in modo attento, come fosse la chiave per aprire lo scrigno in cui sono sepolte le emozioni, i bisogni, i ricordi, gli affetti, ma anche le mancanze, per farli così riconoscere dalla coscienza che giudica. “Cerco di ricordare chi e quando mi ha toccato così intensamente l’ultima volta: ma non c’è mai stata”. Neanche la madre, assente, incapace di sintonizzarsi sui bisogni del figlio, ma non per questo colpevole per questa sua mancanza, come si sarebbe portati a giudicare istintivamente. Ci sarà stata una storia sconosciuta, se una madre non è stata capace di rispondere ad un bisogno innato di attaccamento del figlio.

Ma chi è il pazzo?, o sono tutti ugualmente pazzi? O tutti tranne uno: il fenicottero, il diverso? È la voce parlante che si definisce: lo sconfitto eternamente dalla vita? Lui lo è certamente perché esplicitamente parla di terapia, di ricovero, di dormitorio, di paura, di ricorrenti visioni di battaglie, di terrori, di urla strazianti, di incubi e, in tutto questo turbinio, del suo sentirsi confuso, combattuto e impotente. C’è un mondo e un pensiero personalizzato dentro la sua testa con cui fare i conti, che se pur divergente da quello normale però lo identifica e lo fa in qualche modo vivere. Anche se deve ammettere e riconoscersi di essere eternamente sconfitto e senza speranza di un possibile cambiamento. Accontentandosi la sera di chiedere all’infermiere di turno un aumento della dose di psicofarmaci per addormentarsi presto per dimenticare.

E chi è il fenicottero? Pazzo anche lui che si è ritagliato il ruolo del medico osservatore del comportamento degli altri pazienti? Ma con il suo bisogno di farsi amico l’unico pazzo della compagnia da cui non si è sentito rifiutato?. È un alienato anche lui come tutti gli altri che hanno assunto misteriosamente nel tempo un’altra identità, un altro modo-di essere-nel-mondo? E in quanto tale separato dalla vita e rinchiuso in un manicomio, dove però sente il bisogno di avere un amico possibile, anche se redivivo Napoleone, pur di non sentirsi solo a vivere la vita? Nonostante l’alienazione, il bisogno di relazione e di attaccamento, bisogni innati e vitali, si attivano istintivamente anche se apparentemente non può esserci intesa fra due mondi separati.

Ma è così? Per Basaglia, no!