Il viaggio psicoterapeutico di paziente e terapeuta alla ricerca dei segni del malessere. Parte prima Giuseppe Basile

 

Il viaggio psicoterapeutico di paziente e terapeuta alla ricerca dei segni del malessere.

Giuseppe Basile

Parte prima

 

In psicoterapia noi spesso agiamo come compagni di un paziente che è troppo spaventato per incontrare da solo le sue difficoltà

(Alfredo Canevaro)

 

Di solito quando una persona sente di avere un problema psichico si rivolge ad uno psicoterapeuta per chiedere aiuto e informazioni sulla natura del suo malessere. Ogni terapeuta, specialmente se esercita da molti anni, ha una sua metodologia, una sua autoformazione professionale e personale.    Il viaggio comincia con il primo colloquio su richiesta del paziente.

Il primo colloquio

È un colloquio conoscitivo della persona, del suo problema, della mia metodologia seguita per affrontare il problema, ma anche e soprattutto del ruolo attivo che dovrà avere il paziente.

La relazione interpersonale all’inizio è regolata implicitamente dalla curiosità reciproca: Chi sei? Può aiutarmi? Posso aiutarla? È disponibile a mettersi in gioco? Implicito è, ancora, che se una persona mi fa una richiesta, c’è anche sottintesa una aspettativa di aiuto, aspettativa che se non si conosce, non è scontato che io sia in grado di aiutarla. L’esperienza mi aiuta in questo, l’aver imparato che ognuno di noi è limitato, anche nel saper fare, e che uno psicoterapeuta non sa fare di tutto. Diffido quando leggo il curriculum di un professionista che si spaccia di saper fare di tutto, a malapena io mi ritengo di saper fare quello che faccio, (analisi e cura delle relazioni interpersonali familiari), che è sempre poco, se non è accompagnato anche da una capacità di ricerca delle specifiche origini dello star male. Perché ogni persona che viene a chiedere aiuto è sempre unica, con una sua storia unica, e così è unica la terapia. Il paziente è una persona, con una sua personalità, con una sua patologia, quindi è uno sconosciuto. Per questa unicità anche la relazione terapeutica è sempre unica, il terapeuta non può mai essere lo stesso per tutti i pazienti, perché l’altro (il paziente) influenza il terapeuta.

Pertanto, non ci possono essere manuali di riferimento in cui inquadrare in uno schema la persona. Perché il mio paziente Nicola è unico, e io sono unico come terapeuta e ci influenziamo reciprocamente nel nostro modo di essere in terapia.

Perciò prima di impegnarmi in una terapia, da alcuni anni faccio lungo colloquio conoscitivo del problema e della sua storia sintomatica, informativo della tecnica della psicoterapia familiare e relazionale, della presentazione di chi sono io di cosa posso fare per lui. Mi piace spiegare chi sono, cosa faccio, come lo faccio e cosa posso fare e se posso fare per lui. Non ho resistenze a parlare di me e della mia storia. Me lo posso permettere, la mia età e l’esperienza mi fanno essere libero in questo, perché sono convinto che la psicoterapia è una relazione ed un incontro, e in una relazione sana e autentica il coinvolgimento è necessario, pur nel rispetto della diversità di ruolo e di persona

Spiego nel primo colloquio che l’essere in psicoterapia presuppone che i protagonisti (paziente/i e terapeuta) hanno un ruolo in un lavoro di ricerca per scoprire e trovare quello che cerchiamo: la causa del malessere, il sintomo e il suo significato. Spiego allora, che il lavoro che ci aspetta è una ricerca di quando, come, e perché è comparso il sintomo.

E in questa ricerca protagonista è il paziente anche se c’è una guida, il terapeuta, che osserva, vigila, spiega, fa ipotesi, assiste. Ma chi deve mettersi in gioco attivamente è il paziente, anche se come suggerisce Eric Berne: il terapeuta segua il paziente, “tre passi indietro”.

La psicoterapia non è un semplice dare a chi chiede, se non c’è una condivisione di ruoli diversi e impegno reciproco a fare ed essere nel percorso conoscitivo e terapeutico.

Ho fatto mia da tempo la tesi socratica “So di non sapere” applicata alla pratica psicoterapeutica per cui ogni problema che la persona mi presenta è per me sempre nuovo, perché unico, come unica è la persona che lo vive e il modo in cui ne soffre. Ho abbandonato la pretesa scientifica di classificare, diagnosticare, inquadrare la persona facendone un “caso” freddo e spersonalizzato, e lo confesso apertamente all’altro al primo colloquio di consultazione gratuito che l’unica possibilità che gli posso offrire è quello di fare un viaggio “assieme” verso l’ignoto, perché fondamentalmente l’arte psicoterapeutica è una ricerca di senso del malessere partendo dalla ricostruzione della storia individuale, ma anche di quella familiare.

Io umilmente nel primo colloquio con un paziente, alla sua domanda se posso aiutarlo, confesso che non lo so, perché non lo conosco, non conosco la sua storia, la sua identità, e perchè soprattutto ogni persona che soffre è unica, non assimilabile ad altre anche se con lo stesso apparente sintomo. Lo rassicuro solo che mi metterò al suo fianco per cercare di capirlo, facendo assieme una ricerca. Sì, perché la psicoterapia è fondamentalmente ricerca e “arte”, che non si improvvisa, e ne sono sempre più convinto.

Io sono arrivato alla convinzione che bravi terapeuti si diventa dopo i cinquant’anni, dopo aver fatto una sufficiente maturazione di esperienza di vita vissuta e di pratica. Mi viene in mente a proposito un detto di Carmelo Bene: “Non puoi recitare Amleto prima, anche se di anni ne hai ventidue. La tua vita ti deve aver passato qualcosa per poter dire quelle parole, non può essere un coglione qualsiasi a dirle. Un dolore, un entusiasmo devono averti plasmato”.

Così dopo la prima seduta, lascio andare l’altro con il bagaglio di quanto ci siamo detti, raccomandandogli di pensare e riflettere, e solo dopo, quando ne è maggiormente convinto, può telefonare per iniziare il percorso. L’altro se ne va forse ancora più confuso, quando lo accompagno alla porta, senza pagare, “l’onorario”, perché sono convinto che l’ascolto dell’altro non ha prezzo, non è mestiere. E anche se, come succede, l’altro non si fa più vivo, e sono i più, mi piace pensare di essergli stato utile in qualche modo anche se solo con l’ascolto.

Il “mestiere” comincia dopo, quando deciderà lui. Ed è un mestiere difficile, impegnativo, è una esplorazione e un viaggio senza bussole rassicuranti, è una ricerca paziente e convinta di quello che non si vede, dei segni nascosti, che richiedono di essere portati alla luce per dare senso a quello che senso apparentemente non ha.