Io non ho più paura
Simona Vinci[1]
Gli attacchi di panico, la depressione La scrittrice racconta come ha attraversato “la lunga notte” Grazie a una città e a un incontro imprevisto
È cominciata con la paura. Paura delle automobili. Paura dei treni. Paura delle luci troppo forti. Dei luoghi troppo affollati, di quelli troppo vuoti, di quelli troppo chiusi e di quelli troppo aperti. Paura dei cinema, dei supermercati, delle poste, delle banche. Paura degli sconosciuti, paura dello sguardo degli altri, di ogni altro, paura del contatto fisico, delle telefonate. Paura di corde, lacci, cinture, scale, pozzi, coltelli. Di notte l’inferno indossa la maschera peggiore. Di notte, quando nelle case intorno si spengono tutte le luci, tutte le voci. Quando sulla strada il fruscio delle automobili e dei camion si assottiglia e si rarefà. Di notte, il suono dei miei stessi pensieri è la cosa più forte di tutte: il battito del cuore fuori tempo, il sangue che raschia sordo dentro le vene ristrette. Di notte arriva la paura cattiva. Come si fa a definire quella particolare paura — che è non la paura di qualcosa di reale, concreto, riscontrabile, evidente, ma una paura irrazionale e pervasiva che fa del corpo, del sistema cardiocircolatorio, respiratorio e vasomotorio l’epicentro esatto di un terremoto, l’abisso più nero e infinito — che è l’attacco di ansia e peggio ancora l’attacco di panico? Sensazione di cadere, di precipitare in un vuoto infinito, di esplodere, di impazzire, di essere sul punto di morire. La sensazione somiglia a quella di un infarto, non a caso, la maggior parte delle persone colpite da attacchi d’ansia o di panico la prima cosa che fa è chiamare un’ambulanza oppure correre in un pronto soccorso, convinta di star avendo un infarto o comunque di avere problemi cardiaci.
Io però non l’ho fatto.
Per molto tempo non ho detto niente a nessuno.
La mattina uscivo e andavo a camminare in mezzo ai camion. Mi sembrava più facile rischiare davvero un urto mortale, una deflagrazione definitiva. Le definizioni sono la morte, ma questo abisso spalancato cos’era? Avevo trentatré anni e non sapevo chi ero. Mettevo la testa sul cuscino la sera e il sonno non arrivava. No problem in fondo, mi dicevo, hai sempre avuto problemi d’insonnia, anche da ragazzina, e non te ne sei mai liberata. Il sonno è abbandono, resa, e tu non sai abbandonarti e nemmeno arrenderti. Per dormire, da una certa età in avanti, ho sempre avuto bisogno di un aiuto: goccine, melatonina, erba. Finché l’erba, in dosi modeste, sbriciolata dentro il tabacco, ed esclusivamente la sera, prima di dormire, non ha cominciato a farmi venire la nausea, tachicardia e pensieri angoscianti. Allora ho smesso. E allora è incominciata. Era astinenza? Impossibile a quelle dosi, forse solo psicologica, tant’è che non dormivo più. Neanche con le gocce. Il cuore mi scoppiava nel petto. Me ne fregavo ormai di tutti. Pareti lisce, le persone, gli occhi, i sentimenti, le storie. La vita era faticosa. E tutta quella fatica non valeva la pena.
Certi giorni, con quanta timidezza, splendevo, ma l’ombra era lì. Piano piano, arrivare a non pensarci, a quell’ombra, a farla svaporare come un alone umido sulla stoffa, che si asciuga.
Non ci sono riuscita, ho cercato aiuto.
L’ho fatto prima che fosse troppo tardi, nel momento in cui mi sono resa conto che l’unica cosa ormai alla quale pensavo davvero era il suicidio. Ci pensavo costantemente, era il mio unico sollievo: sarei morta, la sofferenza sarebbe finita. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei, non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più, scriveva Epicuro. Ed era proprio lì che volevo arrivare: a non esserci più. Non so cosa mi abbia veramente trattenuta, e poi spinta a cercare qualcuno che mi potesse aiutare, telefonare, prendere un appuntamento e andare. Era una psicoanalista. Una donna. Non so con esattezza perché non mi sono rivolta al Centro di Salute Mentale del mio paese, anzi, lo so benissimo: perché come tanti, tantissimi, provavo vergogna di ciò che mi stava capitando e non volevo che nessuno lo venisse a sapere. Un campanello sulla porta di un appartamento privato fa meno paura di un ambulatorio medico. E poi, paghi, e quel gesto ti rassicura: se paghi vuol dire che avrai diritto al servizio migliore possibile e non verrai giudicato e nessuno lo saprà. Se puoi permettertelo, certo. Ho fatto dei grandi sacrifici in quei sette anni per riuscire a pagarmi le sedute. Ma il primo anno non succedeva niente. E continuavo a stare male. Ci vuole del tempo e a me sembrava di non avercelo, quel tempo, ogni giorno pensavo che volevo morire e mi vergognavo perché non c’era un vero motivo per cui io dovessi desiderare di morire. Sì, era finita una storia d’amore, ne era cominciata un’altra, che si era schiantata contro l’evidenza della sua impossibilità. C’era un lutto, ormai lontano nel tempo, ma che continuava a ripetersi, per me, ogni singolo giorno, insieme al senso di colpa che ne derivava. Mangiavo una banana al giorno. E basta. Volevo essere magra. Prima l’avevo fatto per l’amore impossibile, perché lui mi voleva così. Ma adesso ero io a decidere che volevo sparire. Chiesi dei farmaci alla mia dottoressa e lei dopo molte insistenze mi mandò da uno psichiatra con il quale collaborava. Lo psichiatra mi dedicò un’ora del suo tempo. Parlammo dell’analisi che stavo facendo, degli attacchi d’ansia, della paura. Mi guardava sornione. Alla fine della chiacchierata prese in mano penna e blocco delle ricette, rimase con la penna sollevata a mezz’aria e mi disse: io glieli prescrivo anche, gli psicofarmaci, ma lei davvero è pronta all’eventualità di ingrassare dieci chili in tre mesi? La risposta mi pare evidente. Uscii da quello studio con un foglietto che prescriveva compresse di ademetionina per tre cicli di venti giorni e compresse di integratore multivitaminico. Aveva centrato il punto: stavo già facendo un percorso di psicoanalisi e il fatto che andassi a tutte le sedute senza mai saltare già diceva della mia volontà di uscire dallo stato depressivo nel quale mi trovavo. Certo, la mia era una depressione ansiosa reattiva — definizione che riuscii più o meno a strappare alla mia psicoanalista dopo anni di domande sfiancanti, perché io avevo bisogno di definirmi, di appiccicarmi un’etichetta, di sapere chi cazzo ero diventata — e quel tipo di depressione — associata a un lutto o a qualcosa che viene vissuto come tale e che non si riesce a elaborare — assomiglia un po’ alla ciclotimia: fasi alterne ravvicinate di up e down e possibilità di fare scelte avventate. Ne ho fatte. Ne ho pagato il prezzo. Ho continuato ad andare alle sedute. Sono stata fortunata? Credo di sì.
A un certo punto, dopo meno di un anno di analisi, chiesi e ottenni una pausa di tre settimane. Nel mese di giugno, un amico giornalista mi aveva invitata a New York dove stava facendo un corso alla Columbia University. Aveva un appartamento affacciato sull’Hudson River. Non ero mai stata a New York, soffrivo di attacchi di panico, stavo seguendo un percorso di psicoanalisi. Cosa direbbe la logica? Decisi il giorno, prenotai il biglietto aereo, comprai una scatola di cerotti alla nicotina e partii per gli Stati Uniti. La mattina dopo il mio arrivo accompagnai il mio amico a Union Square, doveva andare a lezione e pensavo vi avrei assistito e sarei tornata indietro insieme a lui. Invece, dopo un caffè alla Barnes and Nobles, lui mi mise in mano una card per la metro, una piantina di Manhattan, una scheda telefonica per i telefoni pubblici (non avevo un cellulare adeguato alla bisogna) e un foglietto con su scritto l’indirizzo di casa e il suo numero di telefono. Poi mi fece ciao ciao con la mano e mi disse: a stasera.
Boom. Ero in mezzo a una città sconosciuta, LA CITTÀ, i grattacieli erano enormi, la luce accecante, l’aria condizionata a palla dappertutto, la gente era grande grossa e con l’aria coriacea ed efficiente, il sistema toponomastico, per me, un incubo. Presi un bus che si chiamava M1 per tornare immediatamente a rintanarmi in casa, ma durante il tragitto successe qualcosa. Stavo seduta con tutti i sensi all’erta per non sbagliare fermata e intanto sentivo i brividi e pregavo: per favore, fa che non arrivi adesso, non ora, non ora, ma cominciai a sudare, a tremare, a sentirmi mancare il respiro, chiusi gli occhi, li riaprii e mi guardai attorno: guerrieri femmine e maschi, senza paura, determinati a fendere la vita di slancio mentre io mi disintegravo e diventavo un pugno di cenere; di fianco a me, a destra, una donna alta e nerissima mi posò una mano sul braccio, alzai gli occhi a incontrare i suoi. Mi chiamo Mary, disse, sono un’infermiera. Era vero? Vidi che sotto il giubbottino di jeans portava un camice da ospedale verde, probabilmente aveva finito il turno e si era dimenticata di toglierlo, oppure aveva fretta, che ne so. Dentro gli occhi enormi di quella donna io però trovai qualcosa, quell’appiglio che mi sfuggiva da mesi, anni, qualcosa che non mi avrebbe mai più abbandonata: scoprii che gli esseri umani possono incontrarsi anche se non si conoscono, che fidarsi e affidarsi è quasi sempre l’unica cosa sensata da fare. Mi sciolsi in quel bruno liquido del suo sguardo e le dissi grazie e lei mi indicò la fermata sulla mappa e mi fece segno quando dovevo scendere e io scesi e poi arrivai fino al portone del palazzo con il numero giusto, presi l’ascensore, salii al piano giusto e trovai la porta giusta, me la chiusi alle spalle e mi lasciai cadere sul divano senza più muovermi né accendere la luce. Rimasi lì tutto il giorno a guardare l’Hudson River, fino a sera, in pace con l’universo. Avevo scoperto il trucco, la magia: non chiudere, ma apri. Non nasconderti, ma mostrati. Non tacere, ma esprimiti. Se hai paura, chiedi aiuto.
Il giorno dopo, aprii la porta, chiamai l’ascensore, scesi in strada e uscii fuori dal palazzo.
La storia della mia depressione, e della mia paura non erano finite, naturalmente — la storia della depressione e quella della paura forse non finiscono mai del tutto —, ma certamente era cominciato un capitolo nuovo.
Repubblica 4 dicembre 2016
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Io non conosco la depressione con l’etichetta, anche se incontro pazienti depressi, che mi raccontano e descrivono la loro depressione, ognuno a modo suo, unico e personale. Alcuni tratti sono comuni e ricorrenti, ma il modo di viverli è unico come unica è la vita, unico è il dolore, e il modo di viverlo. Non si possono generalizzare, incasellarli in una categoria diagnostica, perdendo così i tratti della personalità di chiede aiuto.
Il dolore appartiene alla persona che lo vive, è incomprensibile per gli altri, anche per lo psicoterapeuta, che può essere empatico, vicino, disponibile all’aiuto, impegnato nella ricerca di qualcosa che sfugge, ma resta muto e deve restare muto nell’ascolto del dolore, che ha una voce e un linguaggio indecifrabile, piuttosto che sfornare etichette apparentemente rassicuranti.
La depressione è una condizione esistenziale prima di tutto e prima di classificarla come una malattia, con tutto quello che ne consegue. È un sentimento diffuso e confuso di non essere più quello di prima, di essere altro, di aver perso la propria identità, (“avevo bisogno di definirmi, di appiccicarmi un’etichetta”).
La testimonianza di questo racconto in fondo ci rivela che a questa depressa ansiosa reattiva (la sua etichetta estorta forzatamente alla sua terapeuta) è bastato poco avviare un nuovo capitolo della sua vita: lo sguardo e il contatto pietoso e umano di una sconosciuta, per farle scoprire la magia per uscire dal tunnel senza fine della sua disperazione: “gli esseri umani possono incontrarsi anche se non si conoscono, che fidarsi e affidarsi è quasi sempre l’unica cosa sensata da fare. Non chiudere, ma apri. Non nasconderti, ma mostrati. Non tacere, ma esprimiti. Se hai paura, chiedi aiuto”.
Non c’è stata la guarigione magica, la soluzione improvvisa e insperata che rimette tutto a posto, perché ci sono voluti altri sei anni di lunga e costosa terapia da quell’incontro in un tram sconosciuto in una sconosciuta città americana con una sconosciuta donna.
Cosa è cambiato allora con quell’incontro? Apparentemente niente. Si potrebbe pensare che in fondo è stato poca cosa: un incontro fortuito nel breve tempo di alcuni minuti in cui lei, con il volto terrorizzato dalla paura, incontra una sconosciuta che si accorge della sua sofferenza, che le offre il suo aiuto e da cui si è sentita tranquillizzata per quel tanto da scendere al punto giusto, all’indirizzo giusto, al suo porto dove mettersi in salvo.
Perché mai ci dice allora che “certamente era cominciato un capitolo nuovo”, che si potrebbe intitolare: “Non avere paura della paura”. Perché su quel tram fa la scoperta che uno sguardo amico, il sentire che uno, anche se sconosciuto, si prende cura della tua difficoltà e della tua sofferenza, che facendo appello al sentimento di fratellanza, ti capisce e ti sostiene e che ha com-passione, ha già un valore salvifico, perché hai incontrato un novello samaritano. Se ci si isola, se ci si nasconde, se non si chiede aiuto, allora la paura originaria rischia di trasformarsi in una paura della paura, in una paura di secondo livello.
“Il giorno dopo, aprii la porta, chiamai l’ascensore, scesi in strada e uscii fuori dal palazzo”, a far battaglia a viso aperto contro la sua paura.
Io non ho più paura di Simona Vinci
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[1] L’autrice
Simona Vinci, quarantasei anni, ha esordito nel 1997 con Dei bambini non si sa niente. Il suo romanzo La prima verità (Einaudi, 2016) ha vinto a settembre il Premio Campiello. Ha appena pubblicato, sulla rivista Lo Straniero, la storia Porta della Rocca Ostile. Il testo che trovate in queste pagine racconta la sua esperienza personale ed è stato scritto per Robinson
Io ho cominciato da giovanissima ad avere problemi di depressione. Mi sono rivolta a vari psichiatri che mi hanno somministrato dosi esagerate di psicofarmaci e quando hanno fatto effetto ho sperimentato le fasi di euforia. Due facce di una stessa medaglia .Questo lungo percorso di sofferenza non mi ha impedito di lavorare ,sposarmi,di cercare di avere figli . Quando sono andata in pensione mi sono laureata in pedagogia.
Fortunata, perchè nonostante quella lunga sofferenza, sei riuscita ad essere quello che sei. Quello che spiega questa realizzazione personale è prima di tutto la forza di non rasseggnarsi all’impotenza e poi la forte passione di autorealizzazione del proprio desiderio!
Grazie
Giuseppe Basile