La circonferenza degli sguardi di Antonio Frizzera

LA CIRCONFERENZA DEGLI SGUARDI

di Antonio Frizzera

 

Ubbidendo all’avviso registrato, spegne il cellulare mentre l’aereo rulla sulla pista. Ha ancora nelle orecchie e negli occhi il vociare concitato dei giornalisti e dei fotografi che scattano flash, lo chiamano e gli piazzano registratori sotto il naso per memorizzare tutto ciò che dice; se la tecnologia lo consentisse, anche ciò che pensa. Gli altri passeggeri che si trovano in aeroporto, vista la ressa, si affollano e lo riprendono con gli smartphone.

Molti non capiscono bene chi sia, ma sicuramente dev’essere una personalità dello spettacolo, lo si capisce dal viso abbronzato, dagli occhiali scuri, dai vestiti alla moda e dalla naturalezza con cui si muove in mezzo al pubblico estemporaneo.

In verità Sergio Negrini, ora, non pensa nulla, vuole solo guadagnare al più presto il varco del controllo documenti e lasciarseli alle spalle: tutti. Non riesce più a sopportare che ovunque vada, la gente lo riconosca e lo avvicini.

Però, in quei momenti, nessuno deve accorgersi che ormai non li sopporta più e quindi, abituato com’è a disegnare espressioni di tutti i tipi sui volti dei suoi attori, dipinge sul suo un sorriso accattivante e naturale e risponde a tutti con entusiasmo. Sa come le persone amino immaginarsi nella celebrità del momento e lui dà a loro ciò che desiderano.

Finalmente solo, sprofondato nella poltrona, osserva dal finestrino il degradare del freddo grigio newyorchese verso l’azzurro glaciale dell’alta quota. Fra poche ore sarà a Roma e di lì andrà a Montieri, da dove partì molti anni prima. E’ atteso per il funerale di sua madre.

Il taxi serpeggia sulle ultime curve prima di scollinare e il campanile appare così come lo vedeva ogni giorno quando, sull’autobus, tornava da scuola.

Non è cambiato nulla, pensa, l’aspetto sonnacchioso del paesino è quello di allora.

Entrando dal corso principale indica al tassista il percorso per arrivare a casa. Vede la gente per strada che si gira curiosa, sicuramente è raro a Montieri vedere l’arrivo di un taxi ma più probabilmente, pensa, la sua fama lo ha preceduto.

Si fa lasciare sotto casa e, dopo aver recuperato frettolosamente le chiavi al negozio dove sua sorella le ha lasciate, entra nel silenzio dei suoi ricordi.

Ho sempre voluto andarmene da qui, – riflette, – questi mobili, questi quadri anonimi, questo centrotavola in pizzo plastificato che spostavo di lato quando studiavo, mi davano la nausea, li vedevo uguali nelle case dei miei compagni e li immaginavo così in tutte le case del paese. Non capivo come si potesse pensare una vita rinchiusa dentro queste colline.

La mattina seguente, andando verso il cimitero vede già da lontano la folla che lo attende, rallenta il passo, quasi si ferma. Anche qui – pensa – dovrò sostenere la parte, dovrò lasciarmi guardare, toccare, dovrò porgere le guance ai baci umidi di condoglianze dietro ai quali, ne sono certo, si cela il sottile brivido di potermi toccare e vedere da vicino.

Riprende a camminare e si concentra, accenna un sorriso triste adatto all’occasione e si prepara all’incontro. In fin dei conti questa è la vita che ho sempre cercato – si dice – e di ogni frutto succoso rimane sempre qualche fastidioso seme da sputare.

Entra, non senza difficoltà, facendosi largo fra la gente che non è riuscita ad occupare l’interno del cortile del piccolo cimitero. Nessuno lo ferma, nessuno addirittura lo guarda, ma soprattutto nessuno vuole farlo passare!

Deve farsi largo come chiunque, arrivato in coda ad un folto gruppo, lo voglia per forza risalire.

Finalmente raggiunge la cappellina dove la celebrazione è appena iniziata, trascorre tutto il tempo della funzione assorto e stranito, c’è un sacco di gente intorno ma è come non ci fosse nessuno. Abituato ad essere al centro della circonferenza degli sguardi, ora il suo è rivolto, come quello degli altri, verso il celebrante e la bara in cima alla navata.

Nel momento delle testimonianze di chi l’ha conosciuta, apprende che sua madre era una donna amata e stimata a Montieri e anche nei paesi vicini. La sequela degli oratori ne svela un’immagine inaspettata, una donna che ha vissuto tutta la vita tra la gente e per la gente. Quando, davanti alla sepoltura, infine, il sindaco propone di intitolare la nuova sede della casa delle associazioni a Cecilia Biagi la folla scocca un applauso fragoroso e interminabile.

Sergio è fermo, con un pugno di terra in mano e lo sguardo vagante sulla gente intorno. In pochi lo hanno riconosciuto per quello che era, il figlio di Cecilia, nessuno per quello che era diventato.

Solo una donna, si accorge, lo guarda spesso con curiosità. Uscendo tra gli ultimi dal cimitero lei gli si avvicina sorridendo lievemente e lo prende sottobraccio. Sergio ricorda vagamente Marzia, una compagna di classe, e si lascia accompagnare di ritorno verso il paese.

Nessuno si è dimenticato di te Sergio, – dice la donna, – ma oggi eravamo qui per tua madre, era lei che volevamo salutare.

Camminando Sergio sente la pressione della mano di Marzia nell’incavo del gomito e gli occhi di lei che si girano spesso a guardarlo. Per la prima volta dopo tanto tempo, un tocco e uno sguardo dai quali non si sente depredato.

Marzo 2015

 

Commento

Non sentirsi depredato dagli sguardi degli altri. Questo è il bisogno autentico dell’uomo posseduto dal circolo mediatico, esposto ad un pubblico affamato di immagini, di feticci simbolici da possedere, da cui sentirsi gratificato e in cui identificarsi. Ma è anche un bisogno di scomparire dalla scena, su cui per forza o per scelta una volta si è saliti, spinti dall’altro umano bisogno paradossale di essere al centro “della circonferenza degli sguardi”. Parafrasando il Cogito ergo sum di Cartesio, una nuova equivalenza si impone nella società odierna: Son visto, dunque sono. La personalità così, in un mondo globalizzato dai social network, si misura dal numero di amici che hai, da quanti ti seguono e ti riconoscono. Così l’uomo vale per la sua visibilità esponenziale, a costo di una falsificazione della sua identità.

Non essere riconosciuto può demoralizzarti, farti sentire dimenticato, farti sentire fuori posto, non essere, ma basta appena essere preso sottobraccio da un volto amico, da una vaga Marzia che ti sorride lievemente, per riportarti con i piedi per terra, per farti capire che non sei sempre tu il protagonista sulla scena, della scena vera, per farti ricordare che tutti abbiamo un limite all’apparenza, che dobbiamo lasciare spazio anche agli altri. ”Nessuno si è dimenticato di te Sergio, – dice la donna, – ma oggi eravamo qui per tua madre, era lei che volevamo salutare”.

Era tale la partecipazione della gente, il ricordo commosso che ne facevano gli oratori prima dell’ultimo saluto che lentamente emergeva un’immagine di sua madre a lui sconosciuta. Una grande donna, anche se vissuta da sempre in un paese dimenticato dagli altri, da cui lui è fuggito per inseguire un sogno più grande, cancellando anche gli affetti più profondi, relegandoli a qualche telefonata d’obbligo da posti lontani. Ritorna straniero, non riconosciuto da tanti, estraneo ad un mondo che non è più il suo e dove non ha più radici. Il funerale della madre è la sua prova del nove che la differenza fra una vita vissuta nel silenzio e nell’oscurità, ma reale e solidale, e una vita proiettata sulla scena abbagliante da luci e applausi fittizi, è l’amore, pur declinato in forme diverse. La madre amata dalla gente per quello che ha dato e fatto è ricordata a futura memoria con il suo nome nella sede dell’associazione dove si è spesa per gli altri. Al figlio rimane forse l’amarezza di non aver conosciuto sua mamma e il suo mondo interiore e che passato il tempo frenetico dei riflettori, una volta spenti dallo stesso tempo inesorabile, l’aspetta l’oblio, la dimenticanza, la solitudine.