LA FRANA di Antonio Frizzera

 

LA FRANA

di Antonio Frizzera

 

Quel giorno, quando iniziò a piovere, Pietro lavorava, come era solito fare, nel campo degli olivi presso la strada che, tagliando di netto la collina, portava fuori dal paese, verso il frantoio nuovo. Sprofondando i passi nella terra granulosa e friabile, ne ascoltava il suono, consapevole della propria presenza che distingueva dal silenzio dei campi intorno e dai rumori che salivano dall’abitato.

Godeva nel rimanere solo, in quell’uliveto che apparteneva alla sua famiglia dai tempi del padre di suo padre e fin da bambino era abituato a trascorrervi tutti i pomeriggi dopo la scuola. A quel tempo seguiva il padre nel campo e osservava la terra smossa e la forma degli alberi, alla ricerca della testimonianza del suo incessante lavoro. Di ogni pianta poteva ricordare le contorsioni artritiche del tronco, ogni braccio nodoso che da quello si liberava e l’esplosione di dita fresche e tremule, con il loro carico di foglie e piccole bacche grigioverdi. E ogni giorno ripercorreva quelle forme per giustificare l’assenza di suo padre, ma osservava solo delle piccole, insignificanti differenze: segni nel terreno lasciati, forse, dalla faina oppure un rametto mancante, probabilmente materiale di costruzione per il nido della rondine. Delle ore che suo padre trascorreva nel campo non trovava traccia evidente. Solo durante il raccolto, ad autunno inoltrato, l’uliveto si animava: le impalpabili reti verdi e rosse tessevano una ragnatela variopinta tra un albero e l’altro e i colpi secchi delle pertiche sui rami nodosi risuonavano come richiami di guerra lungo il vallone. Poi, esaurito il breve rigurgito vitale, il campo ritornava immobile e uguale a se stesso. Ma il vecchio ritornava nel campo, tutti i giorni.

Molti anni dopo, al termine della settimana di lutto prescritta dopo la sepoltura del genitore, salì al campo e ne continuò il presidio, fino a quel giorno.

Nel pomeriggio, le nuvole cominciarono a salire dalla valle, filamentose e grigie: era la prima volta quell’autunno e Pietro sapeva che sarebbe iniziato a piovere ma non si affrettò, continuò nel suo sterile pellegrinaggio e attese. All’inizio fu una pioggerellina sottile, un pulviscolo umido trasudato dalla nebbia che abbracciò lentamente gli olivi, trasformandoli in creature grigie e inquietanti che comparivano e svanivano seguendo i suoi passi. Poi, le prime gocce più grosse entrarono direttamente nella terra, senza rumore, imprimendovi un’aureola scura, come labbra umide dopo un sorso di vino nero. Fu solo allora che si incamminò verso casa.

Durante il tragitto la pioggia si fece più intensa e sulla strada sterrata si crearono le prime pozzanghere color caffellatte che lui aggirava passandovi vicinissimo, lungo il bordo. Era tentato, bastava così poco e poteva pestare nell’acqua come da bambino. Ogni volta che alzava il piede provava l’impulso di deviare il passo, di oltrepassare il limite tra ciò che era consentito a un bambino ma non adatto a un uomo. Era un’innocua fantasia: affondare i piedi nella fanghiglia e sentirli piano piano inzupparsi di ricordi.

Pareva un gioco da fare di nascosto, tra i suoi pensieri, ma ne ebbe inaspettatamente paura, percepì una contrazione allo stomaco, un mormorio d’ansia, come di un amante prima dell’incontro, che riuscì a placare con un profondo sospiro, distogliendo lo sguardo da quella tentazione infantile.

Scendendo per il paese, passò davanti al bar e, dando un’occhiata disinteressata al di là dei vetri, constatò la presenza di tutti gli uomini che avevano già lasciato i campi alle prime sporadiche gocce e approfittavano di quelle ore inattese, terra di nessuno, per farsi un bicchiere in compagnia.

Accennò un saluto, casomai qualcuno l’avesse riconosciuto, e rinserrò il capo nel collo del giaccone. Proseguì sotto l’acquazzone senza fermarsi, scuotendo il capo a ribadire il suo giudizio su quella gente. Non aveva mai oltrepassato la soglia dell’unico esercizio pubblico di F.

Entrato in casa, lasciò le scarpe infangate e il giaccone fradicio nello stanzino in fondo alla scala e poi salì. La moglie lo attendeva in cucina, sulla tavola erano già pronti un piatto di minestra e un bicchiere di vino.

Dopo cena, occupò il resto della sera al tavolo dove aveva mangiato, annotando sui registri la contabilità della azienda agricola.

Continuò a piovere per tutta la notte e si alzò alcune volte per affacciarsi alla finestra. Ventagli d’acqua, furiosi e obliqui sotto i lampioni della piazza, martellavano il selciato e formavano rivoli disordinati che si insinuavano tra le piastre e si univano al torrente di melma e fango che scendeva sulla strada principale, occupandone buona parte. Al mattino la pioggia, in balia del vento, crepitava ancora sui vetri della cucina dove lui faceva colazione in silenzio. Con l’orecchio teso a percepire le modulazioni di quel rombo sordo che sembrava non finire mai, Pietro guardava le sottili lamine della finestra fremere e resistere, e proteggere il profumo di pane e caffè nell’aria ferma della stanza dall’odore denso e saturo degli scrosci di Scirocco.

Trascorse poi l’intera giornata nello stanzone al piano terra che si affacciava direttamente sulla piazza e che serviva da rimessa e officina.

Occupò il tempo a riordinare quello che già era ordinato e a sistemare alcune attrezzature che non avevano bisogno di manutenzione. Ma, soprattutto, andava sulla soglia, ad attendere che spiovesse: passò invece tutta la notte e il giorno dopo ancora e la pioggia continuava, incessante e impetuosa.

Nelle prime ore del mattino successivo, fu svegliato dal silenzio che finalmente si era posato sulle tegole esauste del paese. Si alzò e andò alla finestra e vide le ultime nuvole sfilacciate che si rincorrevano, coprendo e svelando la luna diafana dell’aurora. Allora si vestì e si recò al campo.

Salendo a piedi lungo la strada lo osservò da lontano, scintillante nel sole orizzontale dell’alba. Le foglie degli olivi rispondevano alla luce, mosse dal vento teso che aveva allontanato la nuvolaglia e ancora soffiava vivace, asciugando la terra. Quando fu più vicino, vide una sottile linea scura che correva lungo tutto il versante della collina e affrettò il passo. Arrivato nei pressi, notò che si trattava di uno scalino di una decina di centimetri e che questo aumentava a vista d’occhio, scoprendo il sottosuolo ancora intriso d’acqua.

Con i piedi a cavallo della frattura, Pietro sentiva il piede sinistro abbassarsi inesorabilmente e seguire la parte del campo che lentamente abbandonava quella a monte. Una fetta di un centinaio di metri del versante della collina si era staccata di netto e, come una nave liberata dai cunei nel bacino di varo, scivolava sempre più velocemente verso la fiumara a valle.

A bordo una decina di olivi, passeggeri impettiti e inconsapevoli, vibravano, goffamente scossi dal movimento di quel terrificante bastimento che aveva appena lasciato gli ormeggi.

Incapace di muoversi e reagire, cadde di schiena e prese a scivolare lungo il bordo della ferita. Solo dopo qualche metro riuscì a girarsi su un fianco ma rimase di nuovo attonito di fronte all’infilata delle radici oscenamente scoperte e ai rivoli di melma che uscivano dal terreno, come ossa e arterie recise da un’amputazione sommaria. Lo smottamento si fece più rapido e solo allora parve destarsi dallo stupore. Cominciò a piantare furiosamente le mani e i piedi nello scivolo fangoso immergendovi quasi completamente le braccia e le gambe senza però riuscire a far presa.

Poi desistette, affondando, nella carne molle del terreno che lentamente si denudava senza opporre alcuna resistenza. Il corpo della terra lo accoglieva nell’amplesso ancestrale, mentre rivelava la ragione del vagare suo e di suo padre sulle tenere zolle della superficie che, fino a quel giorno, avevano temporeggiato.

 

Rovereto, 5 aprile 2016

 

Commento

 

E’ uno dei racconti del mio amico che ha impegnato più degli altri la mia capacità interpretativa, al punto tale che volevo confessare la mia incapacità e pubblicare il racconto lasciando ad ognuno di voi di fare il tentativo.

E dire che l’ho letto e riletto diverse volte e in diversi giorni, ma arrivato alla scadenza ultima dei miei tempi non volevo rassegnarmi all’impotenza e mi son messo a cercare con più impegno, come novello archeologo, i segni che potevano suggerire il senso nascosto. E proprio le righe finali mi hanno dato la chiave di una mia probabile e possibile interpretazione.

Inizialmente è sempre il tema delle relazioni familiari e della memoria familiare che compare sottofondo, come lo è stato nei racconti precedenti nelle sue molteplici diversificazioni. Ma ritorna anche quello dell’appartenenza al sistema famiglia, (“quell’uliveto che apparteneva alla sua famiglia dai tempi del padre di suo padre”).

Uliveto, che passa di mano in mano da padre in figlio, che non è solo un bene economico, ma anche soprattutto un luogo in cui trascorre la vita degli uomini e della natura con le sue stagioni, apparentemente indifferente al lavorìo dell’uomo sulla sua carne e della sua assenza e del suo ripresentarsi sotto altre vesti (Delle ore che suo padre trascorreva nel campo non trovava traccia evidente). Luogo di tradizioni vitali e di storie che custodiscono le radici del nostro fare e del nostro essere e delle generazioni che si sono succedute se ci fossero tracce di memoria e di continuo presidio. (salì al campo e ne continuò il presidio, fino a quel giorno). Fino a quel giorno, quando dopo tre giorni di diluvio avviene l’irreparabile, l’imprevedibile. La terra si riprende quello che è suo, (Polvere sei e polvere ritornerai), in un amplesso ancestrale, la sorte cieca taglia casualmente il filo della vita degli uomini, rivelando il loro destino. Un vagare senza meta di padre in figlio, di generazione in generazione, a cui gli uomini, ognuno, devono dare un senso, una ragione.

S\ullo sfondo e in silenzio c’è il temporeggiare infinito di una madre terra, che accetta e tollera ferite profonde sulla sua carne, (la strada che, tagliando di netto la collina, portava fuori dal paese), ma fino ad un certo limite, oltre il quale esplode con violenza. Ammonimento di non sopportare nella suo corpo millenario ingiuste ferite e rotture ingiustificate di un’equilibrata presenza dell’uomo con la sua terra di cui nel tempo ha imparato a riconoscere i segni della sua vita più lunga di quella degli uomini (Di ogni pianta poteva ricordare le contorsioni artritiche del tronco, ogni braccio nodoso