La porta chiusa – Giuseppe Basile

La porta chiusa

Giuseppe Basile[1]

 

E’ il caso di un adolescente problematico sul piano scolastico e comportamentale. Seguito da circa 3 anni con poche sedute quindicinali individuali, ma più spesso familiari mensili (madre, padre e sorella di 10 anni), perché quelle individuali risultano poco feconde. Il contratto è però per una terapia individuale del figlio, ma i genitori sono disponibili ad essere coinvolti ed interessati all’allargamento del setting, ma non ad una terapia familiare proposta.

Pare che non succeda niente nei primi due anni, mi pare di annaspare nel buio e nell’impotenza, quando improvvisamente, visibilmente, continuamente e qualitativamente significativo scatta “misteriosamente” il processo di cambiamento, ammesso, anche se non riconosciuto immediatamente, dai genitori e dalla sorella.

 

[1] Ringrazio Piero, Elena, Filippo, Veronica, protagonisti di questa storia, per la collaborazione nella stesura dell’articolo, per la revisione e l’integrazione dei dati e per quanto hanno saputo darmi con il racconto della loro storia

 

* * * * * *

 La storia di Filippo

 Filippo è bimbo definito “geniale”, ma timido, dalle maestre della scuola materna, che suggeriscono ai genitori di inserirlo in una scuola per geni a Milano. Ma nello stesso tempo segnalano un certo suo disagio non ben definito. Crescendo, la sua genialità diventa per i genitori una “diversità” sempre più preoccupante. I genitori annotano che per la strada è rigido e parla poco. E’ molto riservato. Rinuncia anche a chiedere su cose che lo interesserebbero, al parco giochi rinuncia ai giochi, se ci sono altri bambini. Quando riceve dispetti, li incassa senza riferirlo all’adulto ( tanto lui non piange, dicono gli altri bambini). E’ rigido mentalmente a quanto stabilito e detto. E’ eccessivamente pignolo, molto attaccato al protocollo procedurale, che se non viene rispettato può esternare reazioni anche violente e sproporzionate. Nello stesso tempo è eccessivamente diligente, al punto da far pensare ai genitori che Filippo vive nel contesto sociale interpretando un ruolo obbligato di bambino diligente, educato, rispettoso delle regole e dell’autorità degli adulti.

A 6 anni i genitori chiedono una consultazione psicologica soprattutto per i suoi comportamenti rigidi e per la sua eccessiva timidezza. Alle elementari è bravo, autonomo, ma richiede una scuola regolata, e per superare la sua timidezza e la sua marginalità fa il buffone di classe. La sua timidezza è diventata eccessiva, tanto da ritirarsi sempre più in se stesso e da evitare il contatto sociale ed i rapporti con gli altri. Con l’adolescenza diventa ipercritico, molto selettivo, categorico, sospettoso, osservatore attento degli sguardi degli altri, quando si trova in mezzo alla gente, e specialmente quando è in compagnia del padre. Dopo le medie autonomamente decide di iscriversi al liceo linguistico, ma dopo 2 mesi si trova a disagio, non gli piace studiare per forza e soprattutto il latino, ma anche con le lingue non si trova bene. In classe si sente l’unico diverso e differente in una classe di 28 alunni, di cui 24 femmine e con le quali ha difficoltà di rapporti. Si ostina così a cambiare scuola, vuole passare al liceo di scienze sociali, dove non si fa latino. Ma i capi di istituto non avallano questa sua decisione, sembrando a loro un falso problema e non sufficientemente razionale. Le preoccupazioni dei genitori crescono, perché notano sempre più un suo ritirarsi in un suo mondo, non vive nel presente, ma in un passato nel modo di ragionare e nel modo di vestire, diventa sempre più passivo, senza capacità di far fronte alle piccole e grandi difficoltà della vita pratica, incurante dei bisogni e delle necessità pratiche familiari. In famiglia comunica quasi a monosillabi, a domanda risponde, “vive rintanato nella sua camera, da cui raramente esce, ciò nonostante è critico e giudice della vita degli altri”. La grande paura del padre è che Filippo possa essere influenzato da suo fratello Carlo, personalità estroversa, solitario, asociale, anche lui polemico ed ipercritico, ma un fallito sul piano lavorativo e sociale. Filippo invece è affascinato dallo zio, con cui va d’accordo ed è l’unica persona che frequenta.

La consultazione

 Questo è il quadro dell’identità di Filippo e del clima di tensione e preoccupazione familiare, presentato dai genitori nella prima seduta di consultazione nel novembre del 2015. Propongo una seconda seduta di consultazione familiare in cui sia presente oltre a Filippo anche la figlia Veronica di 10 anni.

Al momento della consultazione la famiglia è così composta:

  • Il padre, Piero, 46 anni, insegnante;
  • la madre, Elena, 43 anni, insegnante;
  • Filippo, 15 anni, I° liceo scientifico
  • Veronica, 10 anni, V elementare
  • Giovanna 11 mesi.

In questa prima seduta di consultazione familiare viene definito meglio il problema che certamente ruota attorno a Filippo ed alle ansie dei genitori, soprattutto del padre, per il suo sviluppo e per il suo futuro, perché nello specchio del figlio vede riflessa l’immagine rotta di suo fratello e la storia fallimentare degli altri suoi fratelli, “dei quali, dice il padre, mi ero liberato completamente e che credevo di aver sepolto per sempre”. Il padre comunque riconosce che vede il figlio mediante l’ottica con cui vede i suoi fratelli. Però Piero vede nel figlio anche tratti positivi: “onesto, corretto, intelligente, buono, nonostante gli influssi malefici dello zio”.

Ma secondo Filippo il problema della famiglia è che con il tempo si è perso lo spirito di famiglia, non si parla insieme. Secondo Veronica in casa c’è poca allegria. La madre conferma le percezioni dei figli, e condivide le amarezze del marito.

Nella successiva seduta di consultazione emerge il clima molto teso in famiglia durante le vacanze natalizie, acceso dallo scontro fra padre e figlio. L’innocenza di Veronica registra che “Filippo è “pesante”, ma il papà si arrabbia facilmente, e soprattutto con lui, difficilmente con lei”.

Il padre ribadisce che a fronte di una sua grande disponibilità al dialogo, deve amaramente constatare, paradossalmente, il rifiuto e la fuga di Filippo.

Secondo la madre il figlio non sente il bisogno di cambiare il quadro descritto dal padre e condiviso con lui. Sostanzialmente vede il figlio passivo, chiuso in se stesso, senza un amico.

Filippo da parte sua non vede felice la mamma, e paradossalmente anche se volesse non vorrebbe cambiare i genitori con altri.

Seguono due altre sedute di consultazione, una individuale con Filippo, in cui mi dice che non sente il bisogno di colloqui individuali e una di coppia a cui prospetto alcune ipotesi possibili sul comportamento del figlio, tutte ovviamente relazionali e apro con la mossa della terapia familiare, a cui però è decisamente contrario il padre, anche se però entrambi i genitori sono disponibili a mettersi in gioco per il benessere di tutta la famiglia e non solo per Filippo.

La terapia

A questo punto rimane come unica strada terapeutica quella della continuazione delle sedute di consultazione familiare con cadenze mensili, a cui tutta la famiglia partecipa con molta disponibilità e responsabilità.

Andando indietro con i ricordi e con le emozioni, ho cominciato la terapia con l’ovvia e doverosa ricostruzione della storia familiare del padre, del perché lui fosse così angosciato dai fantasmi della sua famiglia, dal pensiero che il figlio potesse subire l’influenza deleteria e malefica di suo fratello.

Nella mia esperienza di terapeuta nessuna altra storia ho sentito raccontare in seduta con tanta drammaticità e sofferenza con il coinvolgimento emotivo degli altri familiari e mio personale. Quello del padre era un dolore per molto tempo congelato, che si scioglieva di nuovo nel racconto emotivo. La cosa significativa era che questa storia, anche se forse nei suoi elementi biografici parziali fosse non nuova alla moglie e ai figli, veniva ricostruita sulla dimensione emotiva del dolore e della sofferenza provati e vissuti nell’infanzia in una famiglia disgregata.

Il padre, Piero, ultimogenito di 4 figli, è cresciuto precocemente come un adulto, eletto dalla madre a svolgere diversi ruoli: “marito, confidente, sostenitore, messo al corrente di cose private fra genitori, plasmato per essere il vettore che portava le triangolazioni”, di cui si sentiva in colpa, se non lo avesse fatto, in una organizzazione familiare in cui è saltato il sistema di comunicazione.

A lui ultimo figlio, e “figlio della madre”, è toccato “il ruolo unico del bravo bambino” per compensare i disastri fatti dagli altri fratelli, si è sentito “caricato sulle spalle di un peso talmente gravoso fin da bambino, … nel dover fare l’adulto, ….  perché io purtroppo dovevo fare da mediatore fra i miei genitori, da confidente, da console diplomatico che doveva fare arrivare le notizie ai fratelli in una certa maniera, e in più dovevo comportarmi bene, perché non v’era spazio perché un altro desse dei problemi.”

La famiglia di origine della madre Elena è meno problematica, anche se il clima in cui si vive è tutto ovattato, non ci sono litigi, non ci sono comportamenti fuori le righe e le regole, sia da parte dei genitori che dei figli. Tutti rispettosi della forma, anche se di fatto i figli hanno goduto di ampia libertà individuale. Ma anche qui il tratto che caratterizza questa famiglia è un ridotto sistema di comunicazione, soprattutto quello emotivo e affettivo. Uno dei ricordi infantili più nitidi di Elena è il camicione bianco ospedaliero che la madre indossava quando si curava dei figli “per non trasmettere i germi”, ma non ha un ricordo di un gesto affettuoso. Anche il padre, anche se Elena ne ha un ricordo più positivo, è stato poco espansivo nelle sue manifestazioni affettive, tanto che uno dei suoi ricordi sono le coccole che il padre faceva ad un gatto, quasi invidiandolo, perché il padre non era capace di farle ai figli.

 

La cronistoria

Mano a mano che le sedute si succedono con una cadenza mensile e senza che appaiano segni di grossi cambiamenti, anche se ne si notano tentativi, rimango colpito del come i genitori non riescano a vedere i segni di piccoli cambiamenti comportamentali e i loro significati relazionali. Mi accorgo che il mio ruolo è quasi quello di un supervisore che aiuta i “familiari terapeuti” a saper leggere e interpretare i comportamenti nei loro significati comunicazionali e relazionali.

Filippo va male a scuola, il giudizio degli insegnanti è negativo, soprattutto per il suo scarso impegno nello studio e per la sua scarsa partecipazione alla vita della classe, Sostanzialmente è isolato e marginale. Il rapporto padre figlio è sempre difficile

Dopo 8 sedute arriviamo alla fine dell’anno scolastico nel giugno del 2016

Filippo ha recuperato negli ultimi due mesi le numerose insufficienze e alla fine deve recuperare a settembre solo 2 debiti in latino e matematica.

Anche se appare un leggero cambiamento in famiglia, rimane, secondo la madre, una tensione continua fra padre e figlio, che si manifesta a volte in modo eclatante, a volte in modi impercettibili.

Il padre è deluso e depresso,  si assume la “colpa” del cattivo rapporto con Filippo in particolare, ma è anche convinto che “il rapporto negativo con Filippo influenza negativamente le altre relazioni familiari, … ho pensato di vivere da solo per il bene degli altri, …  produco un male in famiglia con il fatto di esistere.

Da parte mia noto in Filippo un sentimento di ambivalenza verso il padre. Da una parte lo cerca, lo apprezza, lo stima sul piano professionale (“Sei il più bravo insegnante”), là dove invece il padre si disistima, è l’unico della famiglia che gli chiede quasi con apprensione “Come stai?, come è andata a scuola?”. Dall’altra se ne allontana, quasi temendolo, per le critiche e la svalutazione che ne riceve e per la percezione negativa che il padre ha di lui.

 

Arriviamo, in decima seduta, all’apertura del nuovo anno scolastico.

All’entrata avverto un clima drammatico, tutti scuri in volto e silenziosi. Filippo non ha superato il debito scolastico in matematica, nonostante le lezioni private.

Aumenta la tensione fra padre e figlio, accusato di non essersi impegnato sufficientemente. In un primo momento la rabbia del padre è devastante, pensa seriamente che se il figlio non ha voglia di studiare è meglio per lui che vada a lavorare. Poi subentra un sentimento di pena verso Filippo, riconosciuto bisognoso di aiuto.

I genitori riferiscono che Filippo durante un colloquio con loro ha confessato: “In un’altra famiglia sarei vissuto diversamente”.

Filippo appare confuso e disorientato.

Anch’io mi sento disorientato, e impotente, mi pare di brancolare nel buio.

 

Capitolo terzo

 Passano i mesi. La situazione continua ad essere difficile.

Gli insegnanti alle udienze ribadiscono le valutazioni negative dell’anno precedente. I genitori vedono il figlio triste, non sereno, e non lo vedono ancora sufficientemente impegnato a scuola. Si chiedono: “Vuol farci pagare qualcosa che abbiamo fatto contro di lui?”. Ma sono ancora più preoccupati, perché mettono a fuoco alcuni comportamenti “strani” di Filippo: si sente ossessivamente osservato, specialmente quando è assieme al padre, per strada cammina sempre alcuni passi più avanti a lui (“Come se si vergognasse di me”); manifesta un comportamento di controllo sulle persone che gli stanno attorno, osservandole se lo osservano; ha un bisogno di non essere visto per cui a casa, ubicata a ridosso di un bosco in un luogo quasi isolato, compulsivamente deve chiudere tende, tapparelle; è senza ambizioni; passa la maggior parte del suo tempo in casa chiuso sistematicamente in camera sua.

A questo punto rifaccio la proposta di un lavoro individuale con Filippo, a cui lascio un tempo di riflessione per una scelta motivata. Rimane parallelo il lavoro di verifica con la famiglia .

Passano alcuni giorni, Filippo accetta di fare un percorso individualizzato, motiva la sua scelta perché si sente più curioso di capire il perché di certi suoi comportamenti strani, rilevati dai genitori, e curioso anche di conoscersi.

Ho qualche dubbio che la richiesta sia spontanea, ma invece obbligata dal suo senso del dovere, perché sarebbe stato disdicevole un rifiuto.

 

Iniziamo ad esplorare il rapporto difficile con il padre.

Secondo Filippo entrambi hanno pregiudizi reciproci, che rendono il rapporto “innaturale”. Rapporto che è stato difficile forse dalla nascita e che crescendo è diventato più difficile, ma reso evidente da quando è alle superiori.

Ha ricordi infantili lontani, forse a 1-2 anni e qualche ricordo piacevole con il papà, ma anche ricordi spiacevoli. Riconosce di avere una certa soggezione di camminare vicino al padre, perchè spesso lui fa delle battute in pubblico, strane, estrose, che non passano inosservate e lui non vuole sentirsi osservato. Riferisce che a casa aleggia sempre un’atmosfera elettrica, vede il papà triste, deluso, arrabbiato. Sentimenti che influenzano la vita familiare.

Il suo rapporto con la madre è più naturale e spontaneo che non con quello con il papà. La differenza è data dal fatto che facendo le stesse cose sia con la mamma che con il papà, sa però che da lui si sente criticato, commentato, valutato, anche se non lo fa apertamente.

 

Filippo a scuola ha un comportamento ambivalente, a momenti in cui è chiuso in se stesso, associa momenti in cui è estroso, fa delle battute critiche e comiche, perché è un capace imitatore degli insegnanti. Il suo scarso impegno e rendimento a scuola pare dovuto ad una scarsa motivazione in un ragazzo senza ambizione. Anche se scrive in un test che “la gioia più grande è capire che gli altri ti apprezzano”.

Il padre però gli ha fatto diverse volte il discorso che piuttosto che andare avanti per tutto il corso del liceo in modo così faticoso è meglio che vada a lavorare, per cui alla fine di dell’anno scolastico dovrà decidersi cosa vorrà fare.

Nel lavoro di verifica familiare i genitori cominciano a prendere maggiormente consapevolezza di sé e della carenza del loro ruolo educativo verso Filippo: “Forse abbiamo sbagliato tanto, preteso tanto, su Filippo … Ci siamo incontrati sulla rigidità e severità reciproca, con cui abbiamo educato Filippo, così probabilmente Filippo è stato mortificato nelle sua potenzialità espressive”. “Sono prevalsi, nell’educazione di Filippo più gli aspetti di severità, che non quelli gioiosi o affettuosi”. La madre riconosce che nei confronti del marito “Io mi sono adattata a lui e ai suoi bisogni; da qualche tempo sono più me stessa, …”

Ma nel complesso del lavoro terapeutico non ci sono segni visibili di cambiamenti significativi in Filippo, che, anche se più aperto nella relazione terapeutica, per il resto è statico, non si muove, o almeno non appare.

 

Così arriviamo alla seduta del giugno 2017.

 

Capitolo quarto

 

Il cambiamento

Così arriviamo alla seduta del giugno 2017

Al solito Filippo è riuscito a recuperare quasi tutte le insufficienze, tranne quella di latino e matematica.

Da parte mia dopo aver brancolato nel buio alla ricerca di un ipotetico disturbo di Filippo, mediante sedute familiari e sedute individuali, raccogliendo gli indizi emersi finora, avanzo l’ipotesi di un possibile disturbo di fobia sociale.

L’ipotesi al momento sembra essere illuminante e anche accettata bene sia dai genitori che da Filippo, anche se io non le dò una grande rilevanza. Lui stesso porta qualche altro indizio recente a giustificazione: quando è in bici, al ritorno, per andare a casa deve attraversare un incrocio, ma spesso sfortuna vuole che incrocia il tram pubblico, per cui deve fermarsi e allora prova un grande imbarazzo al pensiero che fra i passeggeri potrebbe esserci qualcuno che lo conosca e lo osservi.

Allora provo a dargli delle prescrizioni: tenere la porta della sua camera a giorni alterni, se non aperta almeno socchiusa, tenere la finestra del bagno aperta, non abbassare al tramonto le tapparelle, tenere aperte le tende, telefonare a un suo compagno di classe che l’ha cercato, ma senza averlo più richiamato.

Così inizia il tempo del cambiamento visibile, osservabile, continuo, autonomo, accelerato.

 

Alla ripresa della terapia in agosto dopo la pausa estiva vengono riferiti i primi cambiamenti visibili. Innanzitutto sono state rispettate le prescrizioni senza grande difficoltà, anche se Filippo ammette che era forte la tentazione di fare come ha sempre fatto. L’unica vera difficoltà è stata quella di tenere aperta la porta della sua stanza, c’è riuscito solo qualche volta. In famiglia hanno riconosciuto che ci sono state meno tensioni, una maggiore disponibilità reciproca padre-figlio.

Il padre sottolinea soprattutto i cambiamenti sociali di Filippo, come quello di collocarsi in chiesa nei primi banchi.

Ma nello stesso tempo rileva un suo personale movimento interiore e un suo cambiamento. Egli si è messo in crisi nel suo essere genitore, pensa di aver trasmesso al figlio certi suoi comportamenti sociali, quali il disagio di stare in mezzo alla gente, la tendenza appresa nella sua famiglia a commentare, valutare e criticare. Si riconosce nei comportamenti di Filippo, perciò si sente responsabile verso di lui. Ma questo suo sentirsi responsabile e in colpa verso il figlio non lo esime nonostante tutto dal suo dover esser critico di fronte alle sue inadempienze e inadeguatezze. Quello che è cambiato in lui è il fatto che il suo essere critico ed esigente, soprattutto nella relazione con Filippo, è fatto in modo più amorevole”.

Anche la madre conferma questi cambiamenti sia nel figlio che nel padre.

 

Nella seduta successiva di settembre sono presenti padre, madre e Filippo. In me c’era attesa per sapere come erano andate le prove di riparazione dei debiti. All’arrivo, a differenza dello scorso anno e per la medesima occasione, sia il padre, la madre e Filippo hanno in faccia un aspetto gioioso e sorridente, che faceva presagire un risultato positivo. Invece Filippo anche quell’anno non aveva superato il debito di matematica.

Sono rimasto spiazzato. Il padre ha continuato ad essere critico per lo scarso impegno di Filippo, ma con un tono più pacato, per nulla drammatico rispetto alla stesso contesto dell’anno scorso.

 

Mi chiedevo cosa era successo, se qualcosa era cambiato. Ero sbalordito per questo cambiamento, ma loro non se ne rendevano conto.

Ho cominciato a interpretare il cambiamento, facendo rilevare che se i fatti, gli attori e la scena erano gli stessi dell’anno scorso, era il modo ed il tono che erano diversi e che potevano spiegare il cambiamento. Adesso nel padre c’era quel di più di amorevole che lui ci mette nella relazione con il figlio e che la fa cambiare nello stesso tempo, e non solo la relazione diadica, ma di tutta la famiglia.

Il padre motiva questo suo comportamento più amorevole con il fatto che adesso si sente in colpa verso il figlio, perché si è reso conto di averlo influenzato e di avergli trasmesso i suoi comportamenti. Nel figlio vede se stesso.

La madre conferma questa lettura, rafforzando la percezione di un clima familiare diverso, con l’osservazione di un marito che da alcuni mesi ha iniziato un percorso di cambiamento personale positivo e probabilmente è da questa revisione di sé che deriva quel in più di amorevole che riesce a mettere nella relazione con il figlio.

Filippo, di fronte al senso di colpa del padre che si autoaccusa per la trasmissione involontaria di comportamenti e di stili di vita sociali, subito lo discolpa con un istintivo ed immediato atto di protezione “Non è vero che hai colpa”.

Scatta probabilmente il bisogno di identificazione con una figura paterna intatta.

 

Le sedute successive sono un crescendo di cambiamenti piccoli e grandi nell’arco di un tempo di pochi mesi. Filippo non ha più bisogno di prescrizioni, né di consigli. Il tutto diventa così spontaneo da meravigliare. E’ come fosse un parto, una rinascita, mi sembra di vedere un bambino che ha imparato a camminare e che gusta il piacere di camminare e di esplorare. Certo il movimento di Filippo è prudente, ma inarrestabile. La mia meraviglia è che in famiglia vivono i cambiamenti senza accorgersene e che solo in seduta vengono scoperti e riconosciuti. Più che mai è in questa fase che mi sento un supervisore della famiglia che interpreta e commenta i movimenti in atto.

 Vengono ancora eseguite le prescrizioni date a Filippo, tranne quella di lasciare la porta aperta, il bisogno di tenerla chiusa è troppo forte. L’unica a cui è permesso di entrare in camera è la sorella per i suoi esercizi musicali.

  • Con l’inizio del nuovo anno scolastico Filippo si ferma con i compagni di classe alla fine delle lezioni per studiare in gruppo in biblioteca senza andare a casa per il pranzo, consumato invece con loro al bar. Evento impossibile da pensare alcuni mesi prima, data la sua chiusura e il suo rifiuto di un qualche contatto con i compagni di classe.

Il rito della cioccolata

  • Sempre nello stesso periodo in seduta, incidentalmente, viene riferito dal padre che Filippo a merenda aveva preparato la cioccolata per la famiglia.

La consumazione della cioccolata in famiglia nel pomeriggio è quasi un rito, introdotto dal padre. La preparazione della cioccolata segue una ricetta messa a punto da lui con meticolosità e dopo molte sperimentazioni fino ad arrivare alla stesura finale di cui è orgoglioso. Neanche la madre, può sostituirlo nella celebrazione di questo rito e se qualche volta lo fa, i risultati sono scadenti, perché secondo il padre, lei non ci mette nella preparazione la necessaria cura richiesta per ottenere quel perfetto equilibrio di dolcezza, densità, cottura, quantità di latte e cioccolato. Filippo non sempre partecipava a questo rito, e spesso consumava da solo alla sera la sua porzione di cioccolata. Filippo dopo silenziose osservazioni della preparazione, di recente si è offerto di provare a sostituire il padre nella celebrazione di questo rito, soprattutto in sua assenza, perché ne possa essere assicurata la continuità. Il padre ha dovuto ammettere, dopo le prime prove, che la cioccolata di Filippo è come la sua e che lui addirittura è stato capace di prendersi la libertà di personalizzarla, senza però modificare la ricetta.

Evento questo apparentemente minimale e minimizzato dai genitori, ma che per la sua portata simbolica è stato il riferimento illuminante in diverse sedute.

La preparazione della cioccolata è la simbolizzazione dell’avvenuto processo di identificazione di Filippo con il padre. Reso possibile dall’avvicinamento emotivo e affettivo nella relazione padre-figlio, dalla recuperata e sperimentata fiducia reciproca, dalla scoperta di un altro padre e un altro figlio. Filippo sente ora che la figura del padre è avvicinabile e non paurosa (percezione del padre), non si sente percepito da lui come goffo e inadeguato (percezione della percezione del padre su di sé) e quindi sente se stesso più capace e un po’ più sicuro (percezione di sé).

Continuano i cambiamenti

–  In una seduta individuale successiva convocata per analizzare con Filippo i cambiamenti e valutare se sono cambiamenti di secondo ordine, lui mi dice che si sente più sicuro di sé, specialmente fuori casa. Alla mia richiesta di farmi qualche esempio di questa acquisita sicurezza, lui mi porta un episodio banale, ma significativo. Camminando per strada una volta gli è capitato di inciamparsi su un tombino e non ha provato disagio, né si è sentito osservato dagli altri per la sua goffaggine, come sarebbe successo prima, provando vergogna e sentendosi uno sprovveduto. Ha pensato invece fra sé e sé: è una cosa che può succedere a tutti, quindi è normale, allora sono normale.

–  E poi finalmente riesce a superare la paura di far entrare il padre e la madre in camera sua, superando lo strano comportamento di precipitarsi davanti alla porta appena sente bussare, quasi a voler impedire di fatto il loro ingresso. Adesso, anche se ancora non riesce a tenere aperta la porta, però in compenso non si alza più dalla scrivania o dal letto per piazzarsi fulmineamente sulla porta.

– Usa liberamente in pubblico il cellulare, perdendo la paura di esporsi

–  Filippo, che è un bravo chitarrista e che non si è mai esibito in pubblico, ha accettato di accompagnare con la musica il coro dei ragazzi della parrocchia

–  Durante le festività natalizie Filippo suona l’organo durante la novena di Natale in parrocchia

–  Nella seduta di dicembre  il padre riferisce che Filippo è costante nel suo cambiamento, anche se a volte il suo umore è instabile. Alla mia richiesta di portarmi un esempio di questa instabilità, il padre riferisce un episodio avvenuto qualche giorno prima, apparentemente quotidiano e insignificante. Filippo quando fa la doccia ha la tendenza a lasciare la finestra del bagno aperta, senza preoccuparsi, dopo il periodo necessario di aerazione, di chiuderla, in modo che chi usa il bagno successivamente non si trovi in una stanza gelata. E’ una sua abitudine radicata. Un giorno il padre, vedendolo uscire dal bagno, gli chiede con gentilezza e senza un pizzico di rimprovero: “La finestra del bagno è aperta ?” La risposta di Federico è stata un chiudersi in un mutismo per tutta la giornata. Il padre interpreta questo comportamento del figlio come una reazione di risentimento, quindi una reazione umorale, emotiva, ingiustificata. La verità di Filippo invece è sbalorditiva. La sua reazione non è scattata per il suo essersi sentito offeso ingiustamente, bensì per il modo umile, non imperativo con cui il padre gli aveva fatto la domanda, per il sentimento di pena nel dover vedere il padre (persona adulta, superiore,) che con umiltà si rivolge al figlio, quando avrebbe potuto usare il suo potere. Percepiva così un padre sminuito nella sua autorità, che si abbassava e questo l’ha colpito, lo ha fatto star male e lo ha impensierito. Alla mia richiesta di farmi capire meglio, Filippo fa liberamente una analogia. Anche lui prima in classe non si faceva valere, per paura o per il troppo rispetto verso gli altri o per la sua insicurezza. Ma adesso sta imparando a farsi strada, a non restare in retroguardia e gli fa male vedere nel padre i suoi vecchi comportamenti.

 

Capitolo quinto

Faccio una interpretazione in seduta.

 

Faccio una interpretazione in seduta.

Siamo di fronte ad una inversione di ruoli, al figlio che protegge il padre e che lo spinge a ritenere legittimo il suo potere familiare, senza che ci sia il bisogno che si umili di fronte al figlio, perdendo così potere. Nel comportamento del padre a Filippo sembra di vedere il suo comportamento umile, non impositivo, schivo, ritirato, basso. Il padre gli fa da specchio, che gli riflette le parti negative di sé (il suo sentirsi inferiore nel gruppo sociale), proprio quando gli sembra di aver iniziato un processo di cambiamento di sé, di superamento di questa immagine di sé negativa, proprio quando si sente proiettato nella ricerca timida di una autoaffermazione e di uno sviluppo della sua autostima. E’ in atto cioè in Filippo da una parte un processo di riconoscimento delle parti negative di sé, vedendole rispecchiate in quelle del padre (incapace di farsi valere abbastanza nella sua professione, secondo lui), dall’altra il perseguimento di un bisogno di superamento e di riscatto di sé, in cui però coinvolge anche il padre a fare altrettanto.

 

  • Ha festeggiato il suo compleanno con altri due suoi compagni, andando a mangiare una pizza, mai successo prima. Ha ricevuto da loro in regalo un DVD appena uscito dei Pink Floyd, gruppo musicale preferito, segno di un apprezzamento e di stima nei suoi confronti, e non solo un gesto formale, da parte dei suoi compagni.
  • Filippo su invito di un suo compagno di classe ha accettato di fare parte di un gruppo musicale fuori città, anche se senza grande soddisfazione per il tipo di orientamento musicale, ma ci va lo stesso volentieri.
  • A scuola è migliorato il suo rendimento. Per la prima volta è riuscito a prendere un 7 in matematica
  • Ha superato definitivamente il problema della porta chiusa
  • Ascolta musica a volume alto in camera sua, mentre prima lo faceva con le cuffie per non far sentire quello che ascoltava.
  • Ha acquisto maggiore autostima, riconosciuta dalla prof. di scienze.
  • Interviene liberamente nelle assemblee di classe esprimendo con forza e convinzione il suo punto di vista, anche se agli altri può sembrare una banalità.

Ma il cambiamento di Filippo si trascina dietro uno stato depressivo del padre, per cui ho continuato le sedute anche con la coppia. In queste sedute raccolgo ulteriori informazioni su Filippo, che continua sempre più nel suo processo di cambiamento.

Rivedo in seduta Filippo dopo circa 2 mesi e il cambiamento è visibile nel suo modo di presentarsi, con il suo modo di vestirsi, con una maggiore libertà di comunicare, con il taglio dei capelli, con la mimica sorridente e disinvolta. Non era più il ragazzo di prima contratto in se stesso.

 

Continuano i cambiamenti

 

  • Per la prima volta si è recato da solo con mezzi pubblici in un comune distante per cercarsi una nuova chitarra. Da parte sua il padre già gli aveva promesso di comprargliela a fine anno scolastico a condizione di un miglioramento nel rendimento. Ma, visto il desiderio del figlio e l’indubbio cambiamento, gliel’ha comprata subito.
  • Ha iniziato un nuovo rapporto di amicizia con un ragazzo di quinta liceo appassionato di chitarra e musica in genere. Si trovano a suonare a lungo e stanno preparando insieme un “concerto” a Trento con musiche inventate da loro. Filippo con lui è riuscito ad aprire la casa e non solo la porta della sua stanza, visto che si trovano a casa sua e qualche volta lo invita a fermarsi a cena .
  • Dovendosi fermare a scuola per frequentare i recuperi di matematica nel primo pomeriggio, diversamente da altre volte Filippo ha pranzato ai giardini pubblici, invece che, come successo in situazioni simili, fermarsi a mangiare il suo panino, in classe, da solo.
  • Un giorno, sapendo che sarebbero saltate le due ultime ore di lezione, Filippo si è portato la chitarra a scuola ed è rimasto in classe a suonare.
  • Addirittura canta nella sua band della domenica sera.
  • Ha esternato alla madre, con molta stizza, il fastidio nei confronti delle due nonne, a suo avviso piuttosto invadenti.
  • Un giorno avrebbe voluto partecipare ad una manifestazione musicale in un altro comune. Non avendo trovato il bus per il trasferimento, è tornato a casa a piedi, piuttosto avvilito ed esternando considerazioni tristi sul fatto di essere in giro “solo come un cane” a differenza di altri ragazzi che sono in giro almeno in due…. In altri tempi la solitudine era la sua condizione privilegiata e cercata.

*** *** ***

Capitolo sesto

Il congedo

 

 

A questo punto sento il bisogno di un congedo formale da Filippo, per cui convoco una seduta familiare in concomitanza con la chiusura dell’anno scolastico, appuntamento ormai emblematico.

Filippo è stato promosso per la prima volta senza debiti. A lui precedentemente avevo dato il compito di scrivere le sue riflessioni su cosa possa essere successo che poteva spiegare questo suo cambiamento.

Filippo legge i suoi appunti schematici:

–      Cosa è successo per determinare questo cambiamento (positivo)?

Lui si chiede e scrive: Innanzitutto qual è il cambiamento?

Risponde:

–  più facilità ad “esporsi”

–  più autosicurezza

–  più tentativi di “uscire” e “buttarsi”

–  più consapevolezza delle proprie capacità

–  più relazioni sociali

–  più felicità generale (non letta in seduta, forse cancellata?)

Perché, gli chiedo?

– mi sono reso conto “che non sono più solo”, “ma che sono parte di una immensa umanità peccaminosa” (testo di una canzone preferita)

–  Dà più sicurezza.

Secondo la madre la diagnosi di fobia sociale avanzata l’anno prima è stato un fattore che ha influito sul cambiamento, perché Filippo da sempre ha una piccola fobia della malattia.

Chiedo a tutti se, oltre al cambiamento di Filippo, hanno avvertito un cambiamento nella famiglia.

La figlia Veronica dichiara che certamente “nel papà sì, prima era sempre scuro, adesso è allegro”

Il padre Piero si chiede “se il clima disteso in famiglia è causato dal cambiamento di Filippo, o se è vero il viceversa”. E confessa che il suo cambiamento, quella sua capacità di essere più amorevole, è stato favorito da una lettura religiosa di Santa Teresa di Lisieux.

La madre Elena riconosce che “il cambiamento ha coinvolto tutti, non solo il papà e Filippo.

 

Alcuni giorni prima della seduta avevo letto l’articolo di Canevaro sulla terapia individuale sistemica allargata alla famiglia e l’esercizio dello zaino. Trattandosi di una seduta di congedo, ancor più poteva essere significativa la metafora del viaggio ancora in atto di Filippo e quella dello zaino in cui conservare gli auguri di “buon viaggio” di ogni familiare, che lo potessero accompagnare in questo percorso esplorativo e sostenerlo nel bisogno. Auguri che fossero anche una consegna da parte di ognuno di una parte di sé significativa e che potessero essere risorse importanti per lui durante il viaggio.

 

Il clima era solenne. Ho cominciato io, sentendomi anch’io un “familiare”, avendo condiviso con la famiglia per così lungo tempo speranze, delusioni, disorientamenti, sofferenze, gioia e insegnamenti.

A Filippo io ho augurato:

–  di tenere viva la curiosità dell’esplorazione, di coltivare il desiderio di conoscere, di non rinunciare alla volontà della ricerca. Risorse queste che mi sono state utili per portare anche a termine la terapia fino in fondo, anche quando mi sentivo impotente.

–  di imparare a farsi valere per quello che è, senza sminuirsi né esaltarsi.

La madre gli augura di essere paziente

Il padre gli raccomanda di avere fiducia nella vita e nelle persone care.

La sorella gli augura di essere più costante, senza sbalzi nel rendimento.

Il congedo avviene con un caloroso abbraccio.

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Commento critico al caso al convegno residenziale

Scuola di Psicoterapia della famiglia “Mara Selvini Palazzoli”

  

Ho proposto questo intervento perché sono ancora meravigliato di questo processo di cambiamento, così repentino e così inaspettato sul piano temporale, che mi son chiesto, ho chiesto e mi chiedo ancora cosa è successo, quali possono essere stati i fattori specifici che lo hanno favorito e avviato.

Ovvio che mi son dato, e mi sono state date dai familiari, e me ne aspetto da voi, probabili risposte, senza però sentirle esaurienti, anche se importanti per la costruzione della necessaria bussola per una navigazione più sicura nel mare aperto dell’arte della psicoterapia. Per quanto vogliamo circoscriverla entro confini teorici e metodologici chiari e certi, la psicoterapia rimane un’attività creativa che è impossibile ridurre a regole e tecniche scolastiche di appartenenza.

Io sento istintivamente che la chiave di lettura di questo cambiamento è stato quel più di amorevole che il padre è stato capace di immettere nella relazione e che presuppone un suo cambiamento individuale e che ha favorito il cambiamento della relazione con il figlio. Ma quel più di amorevole, che il padre è stato capace di immettere, probabilmente è l’esito finale di quella ricostruzione drammatica della sua storia davanti alla famiglia e con la famiglia. Quel suo dolore scongelato, quel suo rientro nella sua famiglia di origine, da cui pensava di essersene allontanato per sempre, quel suo rivivere le dolorose dinamiche familiari, lo hanno aiutato a prendere gradualmente consapevolezza che nel figlio c’era una parte di sé e che quindi non era solo un figlio da educare, criticare, correggere, ma soprattutto un figlio da aiutare e da amare. L’avvicinamento emotivo e relazionale tra padre e figlio avviene lungo la dimensione dell’amore e della pietà per un comune destino, che però ancora può essere fatto deragliare. Penso che anche Filippo deve aver avvertito il cambiamento del padre, deve in qualche modo aver sentito e sperimentato di essere amato, per cui si avvicina lentamente a lui, non lo teme, gli dà fiducia. Ha bisogno del padre, della sua figura di identificazione e il suo offrirsi come sostituto nella celebrazione del rito della cioccolata è l’espressione simbolica della pacificazione, della recuperata sicurezza.

Con il tempo e con gli anni mi sto convincendo sempre più che l’unica vera terapia che guarisce è l’amore, perché sotto ogni variegata forma di patologia c’è sempre la disperazione della solitudine.

Perciò mi trovo in sintonia con quanto dice Giorgio Festa in un suo bell’articolo pubblicato su Ecologia della Mente[1] che “l’amore nelle sue varie, infinite declinazioni sia l’unico “divino collante” per la nostra umana frammentazione, e che lo specifico terapeutico consista in una riattivazione della capacità di legame sano”.

E che sia l’amore che salva l’ho imparato dalla viva voce di Mara Selvini Palazzoli, quando raccontava agli allievi la sua storia e quanto fosse stata determinante per lei l’esperienza d’amore con la sua “tata”. Ma anche e soprattutto da mia moglie, generosa e attenta mia compagna di viaggio.

Un altro potente fattore di cambiamento probabilmente è l’assunzione di responsabilità personale del padre, della coppia che ha favorito l’evoluzione della terapia, anche quando sembrava inconcludente, facendo emergere come naturale un discorso narrativo che attraversava i tre diversi livelli (transpersonale, interpersonale, intrapsichico) ma compresenti e intrecciati in ogni storia familiare.[2].

Infine nei movimenti della famiglia e in modo particolare di Filippo mi pare di riconoscere come vero quanto dice Canevaro[3] : “ La filosofia di fondo di questo nostro modello di terapia individuale è quella di cambiare la relazione, valorizzando un sentimento di appartenenza alla famiglia: un cambiamento che avviene dentro la famiglia, attraverso il riavvicinamento emotivo e non attraverso il distanziamento fisico e psicologico. L’ulteriore crescita e differenziazione del paziente avverrà spontaneamente grazie al bisogno che ogni essere umano ha di esplorare il mondo e tracciare il proprio progetto esistenziale. Lo sforzo del terapeuta sarà quello di aiutarli a eliminare gli ostacoli che invischiano la relazione e impediscono la relazione da persona a persona (e non da ruolo a ruolo)

Infine faccio mio il pensiero di un’amica, compagna di studi e didatta in questa scuola, quando mi suggerisce che “forse è possibile che in una terapia il cambiamento avvenga proprio quando noi terapeuti riusciamo a trasmettere a chi ci chiede aiuto sia un po’ del nostro animus che della nostra anima”, e sia l’uno che l’altra, presenti in questa terapia, mi hanno aiutato a non rassegnarmi all’impotenza e a metterci una parte di me stesso per trasmettere la speranza che il cambiamento è sempre possibile.

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Commenti

Un’amica del gruppo della Bottega dello Psicoterapeuta, Daniela Barbacovi, cosi commenta:

 

Marc Chagall, l’ebreo errante

“Per recuperare il pensiero odierno, trovo opportuno riproporre questa immagine, che ricorda bene la condizione umana, i ricordi, i legami a tratti vincoli, “catene”.

Ognuno di noi è un “errante”, con quel significato ampio che va dal “dover andare, scegliendo”, all’accettare che, in quel andare, cercando, su vie ignote, si possa anche “cadere”, ma capaci di avere in sé, la forza di rialzarsi, quella “forza”, i cui semi, primi, dai genitori, poi, dai buoni insegnanti furono o avrebbero dovuto essere dati.

Questo “caso” è non solo interessante, ed emozionante per il percorso compiuto, che ti coinvolge, allo stesso tempo sostiene nei momenti bui dell’analisi, dove tutto sembra fermarsi, in una nebbia sempre più fitta, e ti permette di sperare, di credere.

Primo ad affrontare quella nebbia, il terapeuta che si carica di uno zaino il cui contenuto è ignoto, da investigare, poi, pian piano gli altri “attori” tra alti e bassi, con tempi oggigiorno “illogici”, cominciano a “lasciarsi andare”, ad allentare le difese, lo zaino comincia ad aprirsi un po’ per volta, un passo avanti, due indietro, uno magari di lato, ma qualcosa di magmatico, di profondo si muove, e, all’improvviso, inaspettatamente l’inconscio, ma anche il super potente Super-Io con timore, si affaccia.

La via è lì, davanti a tutti, si tratta di trovare il coraggio di muovere un passo dopo l’altro. Con fiducia, con speranza, lasciando dietro la paura di cadere, di sbagliare.

 

Giuseppe Basile

Ottimo commento e ringrazio.

Vero la psicoterapia è un viaggio senza sapere dove e come si arriva, è un percorso sconosciuto dove non ci sono mappe e carte da viaggio precostituite.

È sempre un primo e unico viaggio, anche se la meta è condivisa, o almeno dovrebbe essere condivisa: la liberazione da un qualche blocco sintomatico che ha un dolore e una storia. Liberazione possibile se entrambi i viaggiatori, terapeuta e paziente, (o terapeuta e pazienti quando è la famiglia che sta male), si fanno carico e responsabilità del viaggio e si riesce a creare una alleanza terapeutica, fondata su una forte fiducia reciproca.

È un percorso in cui entrambi viaggiatori hanno ognuno il proprio zaino.

In quello del terapeuta devono trovarsi non solo un saper fare acquisito nel tempo lungo, ma anche e direi forse soprattutto un saper ascoltare l’animo e l’anima dell’altro che soffre. E ascoltare l’altro non è cosa semplice, richiede un tempo sospeso, anche il silenzio, mal conciliabile con il tempo prescritto e contingentato della seduta. Nello zaino del terapeuta ci deve essere passione per la ricerca, che è una sfida al suo saper fare, che se congelato e indiscusso, diventa una zavorra controproducente al viaggio e alla scoperta del significato del sintomo che non sempre ha un significato univoco.

Direi che un bravo psicoterapeuta è come un bravo archeologo che ricerca segni di un possibile luogo sconosciuto e solo allora inizia lo scavo per portare alla luce quello che non si vede.

 

 

[1] Giorgio Festa,  “Non più, non ancora: un terapeuta a confronto con alcuni passaggi del proprio ciclo vitale.”,  Ecologia della mente  vol. 30, n. 1, 2007

[2] Vittorio Cigoli “Dalla verifica al confronto. Ruoli narrativi, intreccio, processo di modificazione e protezione”,  Terapia familiare n. 31, 1989.

Corrado Pontati “Famiglia-individuo. Una retrospettiva lunga venti anni”  Terapia familiare, n. 77, 2005

[3] Alfredo Canevaro, Matteo Selvini, Francesca Lifranchi, Laura Peveri, La terapia individuale sistemica con il coinvolgimento dei familiari significativi”, nel sito della Scuola Mara Selvini Palazzoli

 

 

 

2 Risposte a “La porta chiusa – Giuseppe Basile”

  1. Bravo Pino. Bravi Filippo Piero e Elena Veronica. Bravi.
    Bravi perchè credo che riuscire a evolvere in positivo rapporti famigliari incancreniti rinchiusi in piccoli gesti quotidiani (di cui ognuno è assolutamente lontano dal comprendere l’influenza negativa che possono avere sugli altri) è cosa difficile in quanto richiede di abbandonare le proprie certezze e la forza di farlo anche quando non si vedono i risultati.
    Bravi perchè non è poi da tutti avere il coraggio di raccare i propri limiti, le proprie paure, l’ulmiltà del riconscere che tutti abbiamo continuamente da metterci in discussione.
    L’umiltà, che non è un debolezza, ma una virtù.
    Giacomo Manzana

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