CANCRINI
“Credo che sia molto importante riflettere sul fatto che la sofferenza di fronte al dolore del mondo, di quello che vediamo nelle immagini di un terremoto o di una carestia, persino la partecipazione forte che sperimentiamo di fronte alla rappresentazione artistica del dolore, in un teatro o al cinema, è espressione di salute mentale; significa che ci sentiamo in relazione con gli altri, siamo capaci di condividerne almeno in parte le sventure, perché siamo capaci di immedesimarci e sentire. Come abbiamo già detto, la salute mentale non è assenza di sofferenza. È anche sofferenza, quando questa nasce da cause appropriate. Credo che soffrire perché un altro sta male (come il terapeuta che si trova di fronte un bambino abusato che espone il suo dolore) sia un buon punto di partenza per una relazione di aiuto in cui sia possibile sentire anche altre cose: la tenerezza, la gioia di poter alleviare il dolore altrui e cosi via. Serve attenzione su questo punto, perché quella che sta passando in questi nostri tempi è l’illusione che la salute mentale sia il puro sentimento dello stare bene. Non è proprio così. La salute mentale è la capacità di stare nel mondo provando sentimenti adeguati alle esperienze che facciamo e sentire il dolore degli altri è un indicatore di un buon funzionamento mentale. La salute mentale è la capacità di stare con il dolore del mondo, senza lasciarsene sopraffare, sentendolo e vivendolo, però e, nei limiti del proprio possibile, adoperandosi perché diminuisca. Sapere che, mentre noi stiamo sotto l’ombrellone, in Somalia muoiono migliaia di bambini fa male, però questo dolore indica che siamo esseri umani. Poi è un problema della nostra coscienza, in base al tipo di educazione che abbiamo ricevuto, e al nostro sistema di valori, lasciare l’ombrellone e partire per andare a soccorrerli, mandare un sms che contribuisce a una raccolta fondi oppure non far niente. “
Conversazioni sulla psicoterapia – Cancrini, Vinci – Alpe
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Giuseppe Basile
Così scopriamo che essere sano di mente non significa non essere in una condizione di sofferenza fisica o psichica. È saper stare nel e con il dolore del mondo. È la condizione per poterci riconoscere umani, persone che sentono, che sono empatiche con la sofferenza dell’altro vicino o lontano che sia. Vedere negli occhi dell’altro la disperazione che chiede aiuto è riconoscere la nostra stessa umanità sofferente. A niente serve distogliere lo sguardo dallo specchio dell’altro in cui mi vedo: sofferente, bisognoso, indifeso, limitato. Ognuno di noi nel suo silenzio sente che siamo tutti sulla stessa barca che affonda, impotenti a capirne il senso della vita, che apparentemente, distingue, differenzia, discrimina assegnando privilegi o sfortuna. Certo, chi può, può accendere altre luci e guardare altrove abbagliato, piuttosto che vedersi dentro e riconoscersi di essere “ancora quello della pietra e della fionda”.
La sofferenza non può lasciarci indifferenti, sordi al lamento della capra di Umberto Saba
La capra
“Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.”
Poi alla fine ognuno fa i conti con se stesso.