La solitudine come rifugio ai tempi del social network
La solitudine come rifugio ai tempi del social network
Cos’è per lei la solitudine e perché si differenzia dallo stato d’isolamento?
“Solitudine e isolamento sono due modi radicalmente diversi di vivere, anche se spesso vengono identificati. Essere soli non vuol dire sentirsi soli, ma separarsi temporaneamente dal mondo delle persone e delle cose, dalle quotidiane occupazioni, per rientrare nella propria interiorità e nella propria immaginazione, senza perdere il desiderio e la nostalgia della relazione con gli altri: con le persone amate e con i compiti che la vita ci ha affidato. Siamo isolati invece quando ci chiudiamo in noi stessi, perché gli altri ci rifiutano o più spesso sulla scia della nostra stessa indifferenza, di un egoismo tetro che è l’effetto di un cuore arido o inaridito»
Perché la solitudine si nutre di silenzio e l’isolamento è impastato di mutismo?
«Perché nella solitudine, così ricca di vita interiore, il silenzio ha un suo eros e un suo proprio linguaggio: dice le nostre malinconie, le angosce, le speranze inespresse, i timori, le attese. Dice i nostri desideri più autentici. Il silenzio ha mille modi di manifestare qualcosa e di nasconderla, di indicare e di alludere, di avvicinarsi e di allontanarsi, di affascinare e di intimorire. Quando invece si è isolati, distaccati dal mondo, monadi dalle porte e dalle finestre chiuse, non si hanno pensieri ed emozioni da trasmettere agli altri. Senza più parole, si sprofonda in un mutismo che ha un’unica dimensione: quella dell’insignificanza».
Ma noi siamo immersi nell’era dell’incantamento per il digitale, dove l’intimità viene esteriorizzata attraverso i social network, probabilmente in fuga dal senso di vuoto che deriva dall’assenza di legami reali, certamente in grado di comunicare rapidamente con chiunque. Sarà ancora possibile recuperare il senso più prezioso della solitudine?
“Lei tocca un aspetto emblematico della condizione umana di oggi, e di quella giovanile in particolare: la tendenza ai contatti deemozionalizzati che rispondono ai bisogni del momento e s’inceneriscono senza lasciare tracce nel cuore e nella memoria. Non c’è dubbio che oggi la solitudine è sempre più difficile da salvare, e da vivere, ‘perché siamo trascinati in un vortice di sensazioni esteriori che non ci danno più nemmeno ” il tempo per pensare a noi stessi per confrontarci con i nostri segreti, con il manzoniano guazzabuglio delle emozioni che sono in noi, con le cose che non vorremmo ricordare e tornano alla memoria, con l’autenticità o l’inautenticità delle relazioni che abbiamo con gli altri: in fondo, con il mistero del vivere e del morire».
La solitudine – come lei l’intende – non è allora destinata ad essere la prerogativa di una minoranza di “anime belle?
No, perché la solitudine, come io l’intendo, non è solo un’ esperienza interiore di pochi eletti, ma al contrario è una matrice ideale di cambiamento relazionale e culturale, politico e sociale, e in ultima istanza ragione di vita storicamente significativa. È indispensabile ritrovane i valori inalienabili della riflessione critica e della solidarietà, dell’impegno etico nella politica, del rispetto radicale delle persone, e delle loro differenze – trasferendo la coscienza di questi valori in quella che è l’azione quotidiana, la testimonianza personale di ciascuno di noi».
Alcune pagine iniziali del suo libro rievocano un film di Bergman del ’71: è “Sussurri e grida”. Perché le ha scritte? ”
«Perché quelle quattro donne vestite di bianco declinano i diversi linguaggi paradigmatici della solitudine. C’è Agnese, ormai divorata dalla malattia, che anche nelle ultime ore non perde nulla della sua sensibilità, mai è chiusa in se stessa ma aperta a un dialogo con la memoria e con l’attesa misteriosa della morte. Accanto a lei c’è Anna, una giovane donna capace di condividere quel destino come fosse il suo. Poi ci sono le due sorelle di Agnese – Karin e Maria – imprigionate invece in una solitudine che rappresenta l’isolamento più egocentrico, il deserto delle emozioni, l’indifferenza ghiacciata all’amore e alla solidarietà, in un’insana idolatria dell’io, del corpo, della bellezza».
“Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo”: la solitudine dell’anima non si potrebbe riassumere in quest’aforisma di Pascal?
«Leggo Blaise Pascal dai tempi del liceo, eppure questa volta la folgorante incisività del suo pensiero non si è levata in volo dai quartieri della mia memoria. Sì, nell’ aforisma pascaliano – che coglie la radicale dimensione esistenziale della solitudine, della fatica, e anzi dell’incapacità, di viverla – non si potrebbe riassumere meglio il senso trainante del mio libro. Mi spiace anche non aver citato una bella riflessione leopardiana, e lo faccio qui sintetizzando al massimo: la solitudine “ci ringiovanisce”».
La Repubblica martedì 18 gennaio 2011
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Commento
Nella mia solitudine, facendo ordine nelle mie pagine a futura memoria, mi sono imbattuto in questa intervista di Eugenio Borgna del 2011 che trovo ancora più attuale e significativa nei nostri giorni sempre più affannati da una corsa frenetica nel fare e nel dover essere.
Il bisogno e il valore del silenzio io l’ho scoperto quando studiavo filosofia a Milano negli anni 60’ nella Abbazia cistercense di Chiaravalle. Ero in crisi con i miei studi e sul mio futuro, sentivo il bisogno di fare silenzio dentro di me e di ascoltarmi. Avevo già capito che per capirsi bisognava far silenzio esterno e interno, che “il silenzio ha un suo eros e un suo proprio linguaggio”.
E prima di lui l’avevo scoperto in una pagina di Machiavelli:
“Quando arriva la sera, me ne torno a casa e mi dirigo verso il mio studio. Appena sull’uscio, mi libero dai vestiti indossati per tutto il giorno, pieni di fango e sporco, e indosso abiti degni di re e di corti (reali e curiali). Vestito in modo adeguato, entro nelle antiche corti degli uomini del passato, dove vengo accolto con piacere da questi; mi nutro di quel cibo che è solo per me e per il quale io sono portato; e non mi vergogno a conversare con loro e chiedergli spiegazioni sulle loro azioni, e loro, per la loro gentilezza, mi rispondono; e per quattro ore, non avverto la noia, dimentico ogni preoccupazione, non temo la povertà e la morte non mi turba: mi immergo completamente nel loro mondo.” (Lettera a Francesco Vettori 1513)
Eppure apparentemente con i nuovi e diffusi strumenti di comunicazione on line si ha l’impressione di assistere ad una crescita esponenziale della comunicazione interpersonale. Tutti hanno in mano un cellulare, dai bambini agli anziani, diventato ormai strumento di eccellenza per comunicare. Ormai è uso quotidiano in famiglia il ritirarsi e isolarsi ognuno nella propria stanza e connettersi con il proprio cellulare e perdersi per ore in un mondo accattivante di notizie più disparate. È un navigare senza meta, trascinati da correnti accattivanti in posti, luoghi sconosciuti. Alla fine vince la stanchezza o la noia sopraggiunta, si spegne tutto e “domani è un altro giorno”.
E giorno dopo giorno è l’isolamento, è un allontanarsi dal mondo, un rimuginare ossessivo, l’abbandonare o non cercare il mettersi in relazione con l’altro, fare quasi la scelta di somigliare ad un novello “hikikomori” giapponese che:
“Si è ritirato completamente dalla scuola o dal lavoro. …. Si è chiuso a chiave nella sua stanza. Veglia preferibilmente la notte e dorme di giorno. La madre deposita un piatto davanti alla porta, lui lo preleva quando tutti dormono. Non si è escluso completamente dal mondo: di solito ha un computer collegato a Internet. Mantiene, cioè, un certo dialogo con soggetti lontani, mentre tutto il suo comportamento – la porta serrata e gli orari rovesciati – dichiara quella morte del prossimo che i suoi prossimi, i familiari, si rifiutano di ammettere”. Luigi Zoia – La morte del prossimo
Altra cosa è la solitudine cercata, voluta e salutare, è il tempo del silenzio, dell’interrogarsi dove si va e con chi, specialmente quando si percepisce che il tempo si riduce sempre più, giorno dopo giorno:
“il tempo per pensare a noi stessi per confrontarci con i nostri segreti, con il manzoniano guazzabuglio delle emozioni che sono in noi, con le cose che non vorremmo ricordare e tornano alla memoria, con l’autenticità o l’inautenticità delle relazioni che abbiamo con gli altri: in fondo, con il mistero del vivere e del morire».