MARILENA
di Antonio Frizzera
Marilena guardava fuori dal finestrino della corriera. Nel mattino ancora buio, intuiva le forme delle case mentre le scorrevano accanto e, nelle chiazze di luce sotto i lampioni, osservava la pioggia, caduta nella notte, irrigidirsi in un velo ghiacciato. Il cielo infatti si era da poco rasserenato e la temperatura era scesa sotto lo zero. Intorno a lei gli altri passeggeri perlopiù dormivano o tenevano gli occhi chiusi, tentando di prolungare il tepore dei loro giacigli per il tempo che li separava dall’inizio del turno.
Un uomo era sveglio e disegnò col dito un nome di donna sull’umido del vetro poi, velocemente, lo cancellò, zigzagando l’indice e una goccia di condensa gli scivolò fin dentro il palmo della mano.
Erano tutti operai, quasi tutti uomini. Le poche donne scendevano alla fabbrica delle sigarette. Marilena invece lavorava alla clinica e tutti la chiamavano “l’infermiera”. A lei piaceva quando la chiamavano così, ma era solo un’inserviente: infermiere erano le suore.
Quel mattino di fine inverno, Marilena si ricordò del giorno in cui, molto tempo prima, quando non aveva ancora sedici anni, aveva percorso a piedi la salita che terminava di fronte alla scalinata d’ingresso.
La clinica era un edificio di mattoni rossi e stava a metà della collina, sopra il reticolo di strade del quartiere nuovo. Le villette a due piani, ognuna con un giardino ben curato, si affacciavano sulle vie intitolate a compositori di musica operistica. I giovani mariti, rientrando a casa la sera, gustavano anche in questo piccolo dettaglio musicale, il sapore di un primo successo nel loro progetto vita.
Qualche giorno prima, lo zio aveva detto alla mamma che alla clinica cercavano personale e così si era vestita come per la domenica e aveva preso per la prima volta la corriera per la città.
Cominciò subito, il giorno seguente, di notte, perchè era ancora troppo giovane per essere assunta regolarmente e in quelle ore i controlli non li facevano. Suor Severa, la madre superiora, la accolse con un’espressione luttuosa quanto il nome e la portò nel reparto maternità dove avrebbe dovuto accudire i neonati: lavarli, portarli alle mamme per la poppata e poi rimetterli nelle culle. Marilena era sollevata perchè aveva paura delle malattie e soprattutto di guardare la sofferenza negli occhi dei malati e dei loro parenti. Lo aveva detto anche alla mamma, ma lei le aveva risposto che doveva portare qualche soldo a casa e che non facesse quindi troppe storie.
Così, prendeva la corsa della sera con la corriera quasi sempre vuota.
A volte, il venerdì, salivano dei giovani che andavano a festeggiare oppure coppiette di fidanzati che si regalavano un gelato e una passeggiata sul corso principale della città. Lei li guardava, sognando e aspettando quando sarebbe arrivato il suo momento.
Alla clinica si cambiava nello spogliatoio e poi iniziava il turno. Nella fioca luce dei neon andava dalla nursery alle camere delle ospiti. Le puerpere, inebetite dal sonno, allattavano i loro piccoli e si riaddormentavano. Lei poi li metteva sulla bilancia, segnava il peso, attendeva con la testolina sulla spalla che avessero digerito e poi li adagiava nella culla. Trascorreva quelle ore nella penombra e nel silenzio, interrotto solo dagli strilli dei neonati e da qualche parola scambiata con la collega che, come lei, galleggiava nei corridoi silenziosa e grigia.
Fu così per molte notti poi, durante una di quelle, la Madre Superiora si presentò in reparto e le ordinò di seguirla. Presero l’ascensore – per lei era la prima volta – e raggiunsero uno dei piani. In una stanza giaceva il cadavere di un vecchio. La suora indicò un abito scuro su una sedia, le diede un rasoio, del cotone, e le disse: “Lavalo, rasalo, mettigli il cotone nell’ano e poi vestilo con quello, quando hai terminato torna dai bambini”. Rimase, invece, fino a quando la luce dell’alba adagiò sul biancore del viso un fugace colorito vitale, poi lo coprì con il lenzuolo e scese a cambiarsi.
Quel mattino, ritornando a casa, si addormentò sul sedile della corriera. Fu un sonno inquieto e pesante. Quando si risvegliò si rese conto di aver oltrepassato il paese e vide il lago. Non lo aveva mai visto. Sapeva che oltre il passo c’era una pianura larga e maestosa con uno specchio d’acqua i cui confini a sud si potevano vedere raramente, solo nelle ore successive ai forti temporali estivi e in poche altre occasioni. Ne aveva sentito parlare ma nessuno ce l’aveva mai portata. Mentre attendeva una corriera per tornare indietro, sedette su una panchina, di fronte alle onde che rimbalzavano sul muretto del lungolago e ritornavano al largo incrociandosi con quelle che venivano e creando ripidi ciuffi liquidi che catturavano il suo sguardo, ipnotizzandola. Fu esattamente in quel momento che si sentì persona tra le persone, sola tra altre solitudini. Invece che spaventarsi per quei pensieri, sollevò la testa, mostrò il viso al vento e si alzò, incamminandosi verso la fermata con un’andatura ben diversa da quella dell’adolescente che si era seduta poco prima.
Poco tempo dopo quell’episodio chiese di fare anche i turni di giorno. Scoprì che i corridoi della clinica erano dipinti di un verde chiaro e luminoso, i dottori e le suore si indaffaravano nelle stanze e quando le passavano vicino percepiva un lieve profumo di cotone fresco. I pazienti che erano in grado passeggiavano lentamente nei corridoi, qualcuno tenendosi al corrimano. Lei doveva occuparsi dell’igiene delle sale e dei pazienti. Aveva sempre uno straccio in mano e la pelle irritata dall’acqua e dai detersivi.
Terminate le pulizie, andava e veniva con pitali, padelle e lenzuola intrise degli umori dei corpi che trasudavano la malattia in forme ben più ripugnanti delle prime digestioni dei neonati. Nonostante questo, le ore trascorrevano veloci e piacevoli, qualche volta riusciva a fare due chiacchere con le colleghe e persino a fumare una sigaretta clandestina alla finestra dei bagni.
Marilena si fece così alcune amiche tra le colleghe: insieme riuscivano a sopportare meglio le angherie delle suore e, anzi, si spinsero addirittura a sfidarle. C’era infatti una sala, nella quale le inservienti potevano entrare solo per le pulizie, dove i dottori e le suore si riposavano e mangiavano. Lì le poltrone erano morbide e alle pareti erano appese fotografie di paesaggi montani. In un armadio, scoprì un piccolo deposito di marmellate, pane a fette e biscotti. Durante il turno notturno cominciarono a visitare regolarmente la credenza, stando bene attente a non esagerare e a riposizionare tutto, in modo da camuffare gli esigui prelievi. Nel cuore della notte il sapore di quel cibo semplice e la paura di venir scoperte le eccitava e rafforzava la loro complicità e le ragazze del turno successivo trovavano sempre negli armadietti qualcosa di dolce con cui iniziare la giornata.
Nonostante queste precauzioni, una notte, la credenza fu trovata chiusa con un pesante lucchetto. Probabilmente le suore contavano le fette di pane e segnavano il livello dei barattoli.
Un giovane dottore prese servizio alla fine di un’estate.
Portava i capelli, nerissimi, lisciati all’indietro con la brillantina.
Aveva il mento aguzzo e gli occhi spiritosi. Quando le capitava di incrociarlo, lui le sorrideva e faceva un cenno di saluto con il capo. Se non c’erano suore nei dintorni anche lei rispondeva sorridendo ma abbassava subito gli occhi perché i contatti tra donne e uomini non erano mai stati tollerati e lei ne temeva le conseguenze. In passato il manutentore era stato visto parlottare con una inserviente e questa, l’indomani, era stata trasferita nella lavanderia che stava negli scantinati, proprio accanto all’obitorio: da lì, si diceva, nessuna era più tornata a lavorare nei reparti.
Ma ogni volta lui le sorrideva. Mentre fregava i pavimenti, inginocchiata, perchè le suore volevano che fossero puliti in quel modo, alzava spesso gli occhi per scorgerlo in fondo al corridoio e quando lo riconosceva aveva un tuffo al cuore.
Un mattino andò al lavoro indossando la gonna che le aveva confezionato la mamma con un tessuto grigio che avevano acquistato al mercato. Marilena l’avrebbe voluta corta, come andava di moda da qualche anno, ma lei gliela aveva tagliata solo un po’ sopra il ginocchio. Non era come l’aveva sognata ma era comunque bellissima. L’accompagnò con un paio di scarpe basse senza le calze e una camicetta bianca che aveva usato solamente per il matrimonio di una cugina. Poi prese la corriera, immaginandosi di entrare in clinica mentre lui, sulla scala di ingresso, l’aspettava, fumando una sigaretta prima di iniziare il turno.
Suor Severa la vide quando ancora saliva lungo la strada e l’attese sul primo gradino. Il dottorino non c’era. Le disse che le prostitute non potevano entrare in clinica e che tornasse a casa a cambiarsi: avrebbe fatto il turno successivo. Mentre parlava così, la suora guardava sopra di lei, verso la valle e la montagna in fondo, e Marilena scorse in quello sguardo un rancore ancora vivo e un antico rimpianto.
Poi, un giorno, vide il giovane dottore infilarsi un piccolo pacchetto con un fiocco verde nella tasca del camice mentre entrava in reparto. Lei rimase impietrita, non voleva che succedesse qualcosa lì, in mezzo a tutti.
Era quello che sognava da molto tempo, una dichiarazione proprio lì, in reparto, come aveva visto accadere in un film di successo appena uscito, ma si vergognava e aveva anche paura. Si girò ed entrò quasi di corsa nei servizi del personale e si nascose. Sentiva le guance rosse e le orecchie calde. Dovette sciacquarsi il viso a lungo e tornò fuori solo quando fu certa che il giro delle visite fosse terminato. Avrebbe desiderato più discrezione da parte sua: certo, anche lui era innamorato, ma doveva controllarsi, avrebbe dovuto sapere che la questione era delicata e bisognava fare un passo alla volta, con cautela. A fine turno, quindi, lo aspettò per parlargli nel parcheggio, su una panchina che stava all’ombra di un grande acero, dalla quale poteva vedere l’ingresso senza essere notata.
Il dottore uscì, sorridente, a braccetto di una giovane infermiera. Era una delle prime non consacrate al Signore che si erano diplomate alla scuola di Padova. Lei lo stava guardando con occhi innamorati e riconoscenti.
Passando accanto a Marilena il dottorino le sorrise e le fece un cenno con il capo, come sempre.
Quella sera, ritornando a casa, Marilena osservava la campagna pronta per la vendemmia. Il sole era basso e l’aria ancora tiepida. Voleva scrivere il suo nome sul vetro ma l’avrebbe tracciato senza poter lasciare un segno. L’inizio dell’autunno non è poi così malinconico come lo sono le mattine d’inverno, pensò. Così si lasciò sorridere.
Sciconi, 10 agosto 2015
Commenti
Cosa ti resta alla fine della lettura di questa Marilena? Quali pensieri si rincorrono per carpire un senso ad una storia umile, scritta con la prevalente tonalità del grigio, della monotonia.
E’ una storia “minore”, una storia d’altri tempi, vissuta nella luce del chiaroscuro, agli antipodi dei sedicenni di oggi immersi nello scintillante sfolgorio delle luci psichedeliche della vita moderna. Qui tutto è accelerato, una rincorsa continua contro il tempo, là invece tutto scorre lento, senza frenesia e senza smanie. E’ una storia silenziosa, non ci sono suoni stonati, vissuta fra i corridoi dell’ospedale e l’andirivieni della corriera fra la casa e l’ospedale. Con l’eccezione fortuita, e non cercata, della scoperta del lago e della solitudine, sua e degli altri, “sola tra altre solitudini”, ma anche “si sentì persona tra le persone”. Scopre così che il tratto che accomuna “l’essere persona” è la solitudine, che ogni uomo cerca di colmare con il bisogno e il desiderio di incontrare un Altro a cui appoggiarsi. Marilena si apre così ad un altro mondo, esterno ed interno, prende coscienza di sé, di essere altra rispetto a prima, non più adolescente, ma donna con gli stessi diritti, bisogni e desideri delle altre donne, “si alzò, incamminandosi verso la fermata con un’andatura ben diversa da quella dell’adolescente che si era seduta poco prima”.
Il breve sogno però svanisce all’apparire della realtà, dove non ci sono Cenerentole fortunate, né improvvisi cambiamenti di vita. Fa l’amara e necessaria esperienza della delusione, senza drammi e senza tormenti, ma più consapevole che non basta scrivere il nome dell’innamorato sul vetro perché si avveri la magia dell’incontro. “Si lasciò sorridere”, imparò così a sorridere di se stessa e sorridere alla vita, a coltivare la speranza che nella vita l’incontro con l’altro è sempre possibile, perché le stagioni della vita sono varie, non sempre malinconiche come “le mattine d‘inverno”.
Un bel racconto, quello di stasera di Antonio Frizzera ben scritto, con un quieto, armonico ritmo musicale, che ricorda il lento apparentemente scorrere della vita in provincia, quasi a voler minimizzare angherie, di un lavoro scelto a metà, per necessità; eppure si cresce, si diventa adulti attraverso i colpi che la vita riserva, capaci ancora di sorridere.