MI SONO PERSO SULLA SPIAGGIA
di Antonio Frizzera
Vento d’estate
io vado al mare.
Non mi aspettare
mi sono perso.
Max Gazzè
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- Fruussh…il colpo di vento scompiglia il giornale, le pagine si sfilano a ciuffi dalle mani e si librano, sfarfallando, verso il canneto. Le osservo, pigramente infastidito, poi, facendo leva sul gomito piantato nella sabbia, mi alzo e scatto nella rincorsa. A dire il vero potrei correre più dritto e avere maggiori probabilità di successo ma la sabbia scotta e salto da un’ombra all’altra degli ombrelloni, facendo molta più strada; così infine recupero solamente un foglio, nulla di interessante: la pagina degli spettacoli.
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Allora mi giro per tornare sui miei passi ma la spiaggia è deserta: il mare, il fragore ritmato delle onde, la sabbia e io. Di tutta la gente che stava sulla spiaggia nemmeno l’ombra. Consulto l’altezza del sole, non sia mai che l’inseguimento dei fogli sia durato più di quel che mi è sembrato. No, è ancora alto, piantato quasi sulla verticale nell’azzurro livido. Sento bruciare la pelle delle braccia e della schiena e sono costretto a scavare nella sabbia con i piedi per non sentire bruciare anche quelli. Di fronte a me non c’è più nessuno, nemmeno in mare, né una vela né una nave. Quello che spesso si va cercando, la solitudine pura, mi sta di fronte ma ora che si mostra, inaspettata e definitiva, mi sgomenta. Facile e puerile è abbandonarsi ad essa quando colmarla è questione di poche ore o di poca strada. Altra cosa invece è dubitare di ritrovare qualcuno senza il quale nessuno specchio, benché luminoso e profondo, ci potrà restituire noi stessi.
2. Dalle mie spalle, dentro lo spesso muro di verdi canne, ancheggianti al vento, proviene uno strano lamento, come una litania. Fa meno paura della sparizione che ho davanti e così mi addentro, calpestando sfogliature seccate dal vento e dal tempo, in un cunicolo ombroso tra la Mentre il suono del mare mi abbandona il gemito misterioso si fa più forte.
Sbocco quindi in una radura, contornata da snelle palme dal ciuffo sbarazzino, dove bivacca una compagnia di zingari. Seminudi, sono seduti o sdraiati su stuoie di vimini e vecchi teli da mare consunti e macchiati e cantano all’unisono una nenia, come un rosario recitato senza capire le parole. Li osservo da lontano, ancora non mi hanno visto. Tutti i loro sguardi sono rivolti verso la scena che si svolge al centro dello spiazzo di terra battuta resa lucida dal lungo calpestio. Semi sdraiato come un notabile romano, su un lettino da spiaggia arrugginito, un uomo pingue dal viso molliccio e gli occhi a fessura, è intento in una delicata operazione motivo dell’attenzione di tutti. Al suo fianco, conficcato nel terreno, un ombrellone sbrindellato proietta porzioni d’ombra inutile vista la poca tela che oramai riveste gli steli sghembi. Seduti a terra di schiena ai piedi del lettino ci sono una vecchia e un ragazzino. L’uomo grasso maneggia un pennino, una specie di bulino, lo intinge in una piccola ciotola e poi lo picchietta sulla scapola del giovane con gesti precisi e veloci mentre il suo sguardo scorre solennemente tra la schiena della vecchia e il tatuaggio che sta realizzando sul ragazzo.
Per vedere meglio mi avvicino finché improvvisamente tutti si fermano e si voltano e mi osservano, come mi avessero percepito nello stesso istante. Abbozzo un sorriso di circostanza mostrando le mani verso il basso con le palme rivolte in avanti: è il primo gesto che mi viene in mente, così come mi hanno detto si debba fare con i cani per non mostrare aggressività. Sembra che funzioni: a cominciare dai più giovani è tutto un fiorire di palmi bianchi che si accendono contro lo scuro della vegetazione e della loro pelle che ora vedo è interamente istoriata di tatuaggi multicolori.
Mi sorridono e continuando il lamento, qualcuno si scosta per aprirmi un varco dritto fino all’officiante. Appena un po’ rasserenato mi faccio avanti e mi rivolgo all’uomo sul lettino.
“Buongiorno, penso di essermi perso. Ero in spiaggia poi il vento…il giornale, sono corso per riprenderlo ma poi non c’era più nessuno. Scusate, me ne vado subito, non volevo interrompere la vostra cerimonia.”
“Da dove vieni?”, mi chiede.
“Dalla spiaggia”, dico io.
“Nessuno è mai venuto dalla spiaggia.” Mi risponde secco e con palese sospetto.
“Sì, dalla spiaggia, siamo tutti là… cioè eravamo tutti là, …ma sì, sono là ancora, ne sono sicuro. Mi scusi, veramente, vado subito via.”
Comincio ad avere un po’ di paura e vorrei filarmela ma capisco che non posso alzarmi e andarmene così, come se niente fosse. Il suo sguardo mi dice che devo rimanere, almeno fino a quando non sarà sciolto l’inquietante convivio, almeno così spero. L’uomo mi indica di sedermi con gli altri e così trovo posto su ciò che resta di un asciugamano da spiaggia da dove due sbiaditi delfini ammiccano al culmine della piroetta e mi dispongo anch’io alla contemplazione. Poi lui non mi rivolge più la parola, riprende il tatuaggio e loro la cantilena.
Sulla spalla del ragazzino, il capo clan sta copiando fedelmente uno dei tatuaggi che la vecchia porta sulla schiena. Sulla pelle tesa del giovane i tratti del disegno, una serie di esagoni tridimensionali come un pavimento basaltico, sono nitidi e vividi mentre la stessa immagine sulla pelle grinzosa della donna è ormai sbiadita e confusa. Non mi rendo conto di quanto duri tutto questo, mi lascio trasportare dai suoni e dall’immagine che mano a mano si compone sulla pelle del ragazzo. Al termine della delicata operazione, il coro si acquieta, il ragazzino si alza per mostrare a tutti fieramente il risultato. Le donne e gli uomini dell’accampamento lo osservano con ammirazione e poi prendono a mirarsi reciprocamente i propri tatuaggi con mormorii di apprezzamento.
“Cosa significa questa cerimonia?” Chiedo incuriosito al capo tribù.
“La vecchia sta morendo.” Mi dice, senza peraltro un velo di tristezza. “Prima che muoia dobbiamo riportare i segni della Pietra Luminosa, che i nostri padri ci hanno tramandato, sulla pelle di un giovane in modo che la nostra memoria non vada perduta. Così come è stato per lei da bambina, ora tutti i suoi segni sono stati tramandati all’ultimo dei suoi discendenti. Quel ragazzino ha gli stessi tatuaggi della nonna, così di lei nulla andrà dimenticato.”
L’anziana è rimasta ferma dove si trovava, gli occhi acquosi della vecchiaia persi nel vuoto. Il tatuatore posa una mano sulla spalla della donna e le sussurra qualcosa all’orecchio poi lei si alza faticosamente e tutti si zittiscono mentre esce dalla radura accompagnata da quelli che penso essere i suoi figli. La processione funebre, con la salma ancora viva, richiama quella dei vecchi elefanti quando sentono arrivare la morte: si allontanano dal branco e vanno a morire, soli nella foresta, con il loro carico di leggendaria memoria. La vecchia invece se ne va con la pelle floscia di altrui ricordi, senza che abbia mai potuto aggiungerne uno, senza che abbia mai potuto modificarne uno. Li accomuna il grido mostruoso che lei esala prima di sparire, come il potente barrito dei pachidermi.
L’uomo mi fa cenno di avvicinarmi e mi mostra un piccolo fodero ornato da nastrini colorati con appese le biglie dei ciclisti della mia infanzia, perline multicolori e frammenti di lenti di occhiali a specchio. Con cerimoniosa lentezza estrae dallo scrigno di stoffa uno smartphone color argento.
“I segni furono ritrovati dentro questa pietra”, continua, “quando ancora emetteva la luce. I nostri padri poterono vedere i loro padri sulla superficie della pietra. Molti di loro indossavano i segni, i segni che ora puoi osservare sulla nostra pelle”.
“Dove hai imparato a tatuare? Chi ti ha insegnato?”
“Possiedo il Libro. E’ lì che ho imparato a tatuare. Il Libro appartiene da sempre alla mia famiglia e colui che lo possiede conosce tutto il nostro sapere e la nostra memoria e ha diritto al trono e allo scettro”. E così dicendo si stende sul lettino afferrando lo stelo dell’ombrellone. Disteso supino si addormenta in un sonno profondo e pesante e la tribù lo imita, ognuno acciambellandosi sui teli e sulle stuoie dei padri dei loro padri. Tra le braccia conserte protegge un libricino dal titolo: ‘Storia e Tecniche del Tatuaggio’.
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- E’ il momento di andarsene. Seguo il filo della brezza che penetra tra i giunchi e mi ritrovo di nuovo sulla spiaggia: è affollata come una domenica d’agosto! Felice e sollevato, corro verso il mare con l’intenzione di entrarci a balzi come solitamente fanno i ragazzi felici ma a pochi metri dal bagnasciuga inciampo e cado, con la faccia nella sabbia.
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Mi rialzo carponi, il cielo è verde e poi arancio, ora addirittura un blu mare mai visto, percorso da salamandre bianche tutte uguali. Al di là di quello strano cielo cangiante, sento delle voci femminili. La boutique semovente è ferma sopra di me. Mi siedo e osservo un abitino uscire da sopra la mia testa e poi, più forte del chiacchiericcio di fondo, una richiesta lanciata a qualcuno rimasto un po’ discosto, impigrito dal sole: “Cosa dici di questo? Carino no?”. Qualcuno deve aver risposto a cenni perché non sento nulla ma il vestitino rientra con un gesto secco e nervoso.
Sotto il via vai di abiti, di teli e di pareo, tra i piedi scuri dell’ambulante, mi soffermo a lungo ad annusare l’afrore nostalgico di curry e zenzero mischiarsi a quello delle creme lattiginose che emana dalle bianche caviglie, impazienti ed eccitate dall’acquisto. Poi, mano a mano, le uscite e le entrate si diradano così come le voci al di là del sottile diaframma di tessuti estivi. Mi affaccio e mi trovo occhi negli occhi con il titolare del negozio: è seduto a gambe incrociate di fronte al mare. Mi viene naturale sedermi accanto e condividere con lui il riposo.
Mi racconta che viene da un paese delle Indie. Il suo è un popolo di guerrieri abituato a vivere nella giungla, non ha ben chiaro perché si trovi lì con me. E’ successo un giorno che si doveva partire e con lui molta della sua gente e ora percorre la spiaggia su e giù, lungo il mare.
“Eravamo abituati a camminare lungo i sentieri della foresta, la nostra vita consisteva nel penetrare nel fitto misterioso della vegetazione e tornare con la preda. Le donne attendevano il nostro ritorno e quando sbucavamo dallo scuro potevamo vedere l’orgoglio e la frenesia dell’eccitazione nei loro occhi neri e luminosi. Eravamo uomini, nulla da dire. Il nostro era un movimento perpendicolare e possente, tu puoi ben immaginare, dentro e fuori dal bordo della giungla. Ora guardami, di là e di qua dalla spiaggia, mi trascino orizzontale sulla sabbia. La forza dei miei polpacci, sui quali i nostri padri caricavano il peso delle fiere, serve ora a sopportare quello di questi stracci cinesi per la gioia effimera di un pomeriggio in spiaggia!” E dicendo questo sputa e piange.
Di fronte a noi il mare è perfettamente liscio e oleoso, le piccole onde che frangono con un colpo secco sulla battigia appaiono senza che alcun movimento, nemmeno una leggera ondulazione, le anticipi. Con uno schiocco preciso precipitano sui sassolini da una minima altezza che si crea chissà come e poi tutto finisce lì.
Un gruppo di uomini sta in piedi qualche metro più al largo. Immersi con l’acqua che lambisce loro la vita parlottano del più e del meno.
Probabilmente, penso io, ritornati almeno per metà alla memoria del liquido materno, parleranno di ricordi lontani, di quando, da bambini ad esempio, andavano con il loro padri a veder passare i treni. Sembrano briccole piantate nella laguna alle quali però nessuna imbarcazione attracca. Capto frazioni di discorsi ma non riesco a ricostruirne il senso.
L’ambulante si alza e riprende il cammino senza un cenno.
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- E’ quel momento sulla spiaggia quando tutto si ferma, accade quasi sempre ad un certo punto del pomeriggio, tra le tre e le quattro. I bambini attendono di poter fare il bagno dopo le tre ore dall’ultimo pasto e intanto si trastullano silenziosi con la sabbia, i genitori ne approfittano per riposare.
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Lontano mare e cielo si confondono in una sfumatura grigio-azzurra e solo il potente bulbo di prua della nave cisterna definisce l’orizzonte separando tonnellate d’acqua che si ritroveranno poi dietro la poppa, nel turbinio convulso della scia. Così mi ritrovo anch’io, frastornato da quel giro di vento che mi ha separato dalla spiaggia che conoscevo prima e che ora non riconosco più.
E’ bastato che mi lasciassi sfuggire scioccamente qualche foglio di giornale per scoprire che erano labili i confini che mi dividevano da ciò che mi apparteneva ma non conoscevo.
Fruussh…il colpo di vento divelle gli ombrelloni scaraventandoli verso il canneto. Sulla spiaggia uomini e donne si affannano e si dimenano come insetti nel terreno umido lasciato scoperto da un sasso scalzato da una pedata. Corro anch’io a recuperare qualcuno di quegli esili scudi colorati che ci proteggono dal ritrovarci seminudi, sdraiati a terra sotto un implacabile cielo, ma quando raggiungo il canneto, il vento gira da terra e le pagine del giornale mi ritornano incontro e si piantano nelle mani mentre indietreggio con strani balzi, zigzagando all’indietro tra l’ombra degli ombrelloni, sorprendentemente di nuovo al loro posto, finché cado di schiena sul telo da mare con il giornale tra le mani.
La gente intorno a me e non si è accorta di nulla. Il sole si fa rosso sopra la linea del mare e si moltiplica sempre uguale negli schermi dei telefoni innalzati come ostensori e poi parte, a cavallo di onde radio, replicandosi in simili schermi ma dissimili orizzonti.
Rovereto, 7 settembre 2016
Commento
Mi trovo davanti una pagina che, come un vecchio specchio tenuto troppo tempo in una soffitta polverosa, riflette immagini sbiadite e offuscate, figure consumate dal tempo, verità sapute e scoperte nell’intrigo di segni, parole che si succedono come in un sogno, in un accavallarsi di sensi. Senza una apparente connessione razionale. Si potrebbe concludere che Antonio è un visionario e che quello che scrive è un gioco di scrittura consolatrice a suo uso e consumo personale. Invece no. Il racconto si muove per immagini allusive che tutte convergono, alla fine, al grande desiderio umano di trovare nel mondo un posto in cui stare con sicurezza. Nelle poche pagine del racconto c’è un sfida sottintesa per il lettore occasionale, che potrebbe concludere sbrigativamente che con i tempi che corrono una pagina così ingarbugliata è fuori moda e che non vale la pena capire quello che non si capisce.
Ma io so dalla mia umile esperienza di psicoterapeuta che ogni comportamento ha un senso, il più delle volte nascosto. Anche la scrittura è un comportamento con un senso, così come la lettura ha un senso che non sia un semplice diletto.
Mi metto dalla parte del lettore occasionale e privilegiato, come un ladruncolo che ruba pagine scritte da altri e le fa proprie, le rimaneggia, le piega ai suoi bisogni, taglia la connessione che lega la pagina all’autore.
Bene. Allora cosa ho visto in questo vecchio specchio impolverato e rovinato? Vado con ordine seguendo, pagina dopo pagina, il filo di Arianna che ci porta alla conclusione.
Prima immagine
Il racconto si apre con un’immagine tipicamente onirica: trovarsi in una spiaggia affollata d’estate, un colpo di vento improvviso si porta via le pagine di un giornale, la rincorsa per raccoglierle, improvvisamente avere la percezione allarmante di essere solo, unico in quella spiaggia assolata, né ombrelloni, né gente, né rumori, uno strano e assoluto silenzio e la lenta voce delle onde. Scoprire di trovarsi solo in un deserto, non avere altro punto di riferimento se non se stesso, sentirsi spaesato in un luogo che prima era familiare, suscita angoscia.
Altro stato è invece quando si cerca la solitudine. Il bisogno di solitudine è il bisogno umano di stare soli con se stessi, il bisogno di azzerare il tempo alla ricerca della propria identità, del “Conosci te stesso”, scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, del ritirarsi in se stessi della pratica ascetica, del fare i conti con la propria vita. Diverso è scoprirsi di essere solo, senza qualcuno a cui appoggiarsi per ritrovare la strada smarrita, senza un compagno con cui condividere fiduciosi un cammino incerto e misterioso, senza sentire la voce amica dell’altro che ti risponde. Senza un altro che, offrendosi come specchio dell’anima, mi rifletta la mia immagine, mi aiuti a definire chi sono. “Altra cosa invece è dubitare di ritrovare qualcuno senza il quale nessuno specchio, benché luminoso e profondo, ci potrà restituire noi stessi”. Verità e ulteriore conferma e corrispondenza a quello che con fermezza ritengo una certezza nel mio andare per gli incerti e sconosciuti sentieri della psicoterapia: “Con il tempo e con gli anni mi sto convincendo sempre più che l’unica vera terapia che guarisce è l’amore, perché sotto ogni variegata forma di patologia c’è sempre la disperazione della solitudine”[1]. E l’amore è sempre ricerca dell’altro e di se stessi per sentirsi completi o meno mancanti.
Seconda immagine
Antonio, confuso e smarrito non torna indietro, ode uno strano lamento, si inoltra per il canneto con passo prudente, approda ad una radura, dove una tribù di zingari seduti a cerchio, intonano una nenia, al centro stanno una vecchia e un bambino, danno la schiena ad un cerimoniere che sta trasferendo con un pennino i tatuaggi della schiena della vecchia su quella del bambino.
E’ una cerimonia, ma anche un rito, che con preciso rituale, trasferisce i segni simbolici della trasmissione della memoria di una famiglia e di una appartenenza “in modo che la nostra memoria non vada perduta …. Quel ragazzino ha gli stessi tatuaggi della nonna, così di lei nulla andrà dimenticato.” Si tramanda una cura, la cura della memoria della famiglia e della persona. Una storia e una memoria scritta con simboli grafici, agli altri insignificanti, come geroglifici egiziani, ma perfettamente conosciuti al gruppo e al singolo, che tengono in vita un racconto mitico del loro essere popolo. Il mito della nascita e del morire, che nonostante il divenire del mondo e della vita, racchiude la verità: tutti noi siamo di passaggio, morte e vita sono due facce della stessa medaglia, dell’unico mistero con cui fare i conti senza drammi. “La vecchia sta morendo.” Mi dice, senza peraltro un velo di tristezza”. Stessa verità e stesso ammonimento biblico, “Per tutto c’è il suo momento, un tempo per ogni cosa sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire” (QOELET 3,2-8). Ma nello steso tempo coltiviamo il bisogno, il desiderio, la speranza dell’immortalità o almeno di sopravvivere una stagione in più a quanto ci è concesso di vivere: “Non vive ei forse anche sotterra, quando/Gli sarà muta l’armonia del giorno/Se può destarla con soavi cure/Nella mente de’ suoi? (Foscolo, Dei Sepolcri). Unica condizione è “lasciare una eredità d’affetti”, lasciare una eredità è il nuovo comandamento psicoanalitico che assicura la memoria del passaggio generazionale. Per questo richiede cura, la cura del sacro, non semplice improvvisazione, serve il rito del tatuaggio, il tratteggiare lento e paziente quanto di più buono un nonno ha nell’animo del nipote “Quel ragazzino ha gli stessi tatuaggi della nonna, così di lei nulla andrà dimenticato.”
“Ti raccomando, non ti dimenticare di me”, questo fu l’appello e l’eredità che mi affidò mio padre prima di morire.
Terza immagine
Ancora cambio di scena. La spiaggia di nuova affollata, ombrelloni variopinti, vociare diffuso, musica a tutto volume, via vai di gente, odore di creme, i soliti ambulanti venuti chissà da dove fanno parte della stessa coreografia estiva in tutte le spiagge dal nord al sud. Ambulanti che vendono la stessa merce a donne e bambini in una boutique mobile trascinata a spalla sotto il sole cocente. Mai nessuno che chieda, allo sconosciuto Alì, chi sei, da dove vieni, perché sei qua, hai una famiglia?. Bisogna avere com-passione per riconoscere in quel volto e in quei piedi mai stanchi del continuo andirivieni un pezzo di umanità dolente e sperduta. Bisogna sentirlo vicino per ridurre la distanza istintiva e preconcetta dell’altro che senti diverso da te. “Mi affaccio e mi trovo occhi negli occhi con il titolare del negozio: è seduto a gambe incrociate di fronte al mare. Mi viene naturale sedermi accanto e condividere con lui il riposo”. Avviene l’incontro fra chi ha e chi non ha, fra chi è e chi non è più, fra chi ha radici nel terreno abitato e chi è senza radici, straniero. Comincia così un racconto nel racconto. Il racconto di una storia, di una appartenenza, di uno sradicamento non voluto, né cercato, di una solitudine silenziosa e taciuta, di uomini non più aspettati da donne al ritorno della faticosa giornata, di uomini orgogliosi e fieri che si muovevano nella foresta con la schiena dritta che ora si trascinano sulla spiaggia a testa bassa e schiena curva. “Eravamo uomini, nulla da dire…. Il nostro era un movimento perpendicolare e possente, … Ora guardami, di là e di qua dalla spiaggia, mi trascino orizzontale sulla sabbia”.
E’ la storia di una alienazione sopraggiunta senza aspettarla, di un sentirsi altro da quello che era, di uno scivolamento verso il basso, da cui è difficile il ritorno alle origini, di una espropriazione anonima e violenta di una personalità, di una rassegnazione muta e fatalistica ad una sorte cinica e cieca che sceglie di volta in volta lo sfortunato di turno. “La forza dei miei polpacci, sui quali i nostri padri caricavano il peso delle fiere, serve ora a sopportare quello di questi stracci cinesi per la gioia effimera di un pomeriggio in spiaggia!” E dicendo questo sputa e piange”.
Quarta immagine
Il racconto si chiude con il ritorno alla realtà e pone la domanda sul significato e sul senso dei sogni raccontati. Non c’è bisogno di inoltrarsi sul linguaggio dei sogni per la via maestra della psicoanalisi freudiana per dare una risposta o le molteplici risposte che si possono trovare nel testo. Ognuno può dare le sue, io ho cercato le mie.
Così con il capo del filo di Arianna in mano usciamo fuori dal labirinto dell’apparente non senso di un accavallarsi confuso di immagini, di storie, di vite, di una varietà di sensazioni, di sentimenti, di emozioni, di contrapposizioni. In fondo il racconto è un viaggio alla scoperta di una esperienza onirica di smarrimento (Mi sono perso in una spiaggia), di chi fa di tutto per non smarrire il senso del Sé individuale e collettivo (Il rito del tatuaggio), di chi vive sulla propria pelle il reale smarrimento (Lo sconosciuto ambulante Alì). Storie di un perdersi e ritrovarsi in una solitudine angosciante.
Sottinteso l’ammonimento che lo smarrimento è in agguato per ognuno di noi, perché è una esperienza tipicamente umana.
[1] In Giuseppe Basile: La ricetta della cioccolata