Nessun terapeuta potrà essere più importante per un bambino di quanto lo siano sua madre e suo padre

Nessun terapeuta potrà essere più importante per un bambino

di quanto lo siano sua madre e suo padre

VINCI: Nessun terapeuta potrà essere più importante per un bambino di quanto lo siano sua madre e suo padre, persino quando questi siano palesemente inadeguati. Abbiamo tante volte osservato il figlio di genitori gravemente problematici, esposto ai loro errori e alle loro mancanze, che li protegge e li difende dalle critiche altrui.

CANCRINI: È necessario, ma anche più utile e più semplice che il terapeuta aiuti i genitori ad aiutare il bambino in difficoltà. Ci saranno anche situazioni in cui invece bisognerà che i genitori si mettano da parte, ma il contesto interpersonale del bambino è fondamentale: lui non ha in sé le malattie, lui è ancora “totipotente”, può svilupparsi in tutte le direzioni, può diventare tante diverse persone. Può andare incontro alla salute o al disturbo mentale in rapporto a ciò che trova intorno a sé, all’aria che respira nel suo ambiente.
C’è chi pensa che in tutto questo ci siano aspetti geneticamente determinati, ma aspettiamo che dimostrino in che modo. Certo è invece il fatto che il trattamento dei disturbi del bambino con la terapia familiare semplicemente funziona.
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VINCI: Stiamo dicendo che sommando la carenza di cure adeguate nel contesto familiare alla mancanza di interventi e terapie adeguate disponibili nel contesto sociale, si determinano le condizioni di sofferenza attuale del bambino e di malfunzionamento futuro dell’adulto che egli sarà, ovviamente non in maniera meccanica, poiché le infinite circostanze della vita – anche quelle fortuite – possono svolgere una funzione riparativa delle mancanze subite in precedenza. Penso ora al ruolo positivo, che in tanti casi può avere un incontro con un insegnante, un allenatore o un nuovo amico, insomma una qualsiasi figura che diventi importante per il bambino e ne metta in moto le parti positive, magari rendendolo resiliente .Viceversa, può succedere che non accada nulla di riparativo, e che l’adulto che quel bambino diventerà, tenderà a ripetere nelle sue relazioni affettive gli stessi modi maltrattanti o trascuranti, trasmettendo da una generazione all’altra i disturbi e le sofferenze che ne derivano.

CANCRINI: Per ragioni etiche non sarà mai possibile dimostrarlo con degli esperimenti ad hoc, ma io credo che noi oggi, ragionando sui dati proposti dalla clinica, cominciamo a poter dire con una certa sicurezza che è così, e che continua ad essere così, purtroppo, anche nella cultura all’interno della quale viviamo, che sembra aver sviluppato, nei confronti del dio-bambino, forme di vera e propria venerazione. Continua a essere così a causa delle disparità sociali, delle povertà che privano molte famiglie di opportunità essenziali per i bisogni dei minori e, soprattutto, delle patologie o delle immaturità di troppi adulti (come ben dimostrato da ciò che accade anche nelle famiglie economicamente più fortunate, in cui troviamo bambini coperti di beni materiali e trascurati o stressati per ragioni e obiettivi che appartengono più ai bisogni dei genitori che non ai loro); sia le prime che le seconde sono condizioni che produrranno sofferenze negli adulti che quei bambini saranno: una catena che può essere spezzata solo curando i bambini feriti di oggi. Chi oggi si ponga il problema della prevenzione non può che partire da qui. È una prospettiva difficile, ma di estremo interesse e senza alternative.

VINCI: Spezzare la catena di riproduzione del disagio da una generazione all’altra, che tante volte osserviamo intorno a noi, può sembrare una grandiosa utopia. Da un altro punto di vista, è solo un nuovo passaggio di civiltà verso il quale stiamo già lentamente procedendo, almeno da quando -grazie ai cambiamenti sociali, di cui le conoscenze psicologiche sono insieme effetto e causa – abbiamo progressivamente compreso l’importanza dei primi anni di vita e abbiamo imparato a considerare il bambino un soggetto di diritti, e non un animaletto da addestrare con la frusta e con lo zuccherino”.

Conversazioni sulla psicoterapia, Cancrini-Vinci

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Giuseppe Basile

Ho sempre pensato, ed ora ne sono convinto di più, con l’esperienza di genitore, insegnante, e psicoterapeuta che quello che può fare un genitore per il proprio figlio, non lo può fare meglio uno psicoterapeuta.
I bambini sono per loro natura plastici, vivono adattandosi o ribellandosi nel loro contesto familiare. E’ lì che si decide soprattutto, anche se non del tutto, il loro destino. Meglio aiutare i genitori ad essere genitori adeguati e capaci per i loro figli, piuttosto che smistare i bambini per essere osservati dall’uno all’altro degli “specialisti”, che fatta una sterile diagnosi, li riportano al punto di prima.
Ho sempre presente una mamma che si rivolge in diverso tempo a due psicoterapeuti per capire il disturbo notturno di sua figlia di quattro anni che si svegliava spaventata. Entrambi tranquillizzano i genitori che a loro parere non c’è nulla di grave, che i comportamenti della figlia sono sintomi passeggeri, tipici dell’età evolutiva. Nascono altri figli e tutto appare tranquillo fino all’adolescenza, quando sorgono i primi contrasti relazionali fra fratelli. La patologia si aggrava e allora si rivolgono a me entrambi genitori. Facciamo una ricostruzione della storia individuale della figlia e della famiglia, da cui emergono gravi traumi alla nascita della figlia a cui non avevano dato peso. Ma tutto si blocca per il rifiuto della figlia di essere coinvolta in questo lavoro terapeutico. Può essere che anche i genitori difronte a questo percorso terapeutico allargato alla famiglia, non previsto e non capito, si siano allarmati, senza capire che le radici della storia individuale si trovano nella storia familiare allargata ai nonni e bisnonni. Perché nella storia delle relazioni umane il passato è un presente che bisogna conoscere e saper leggere per capire chi sono io e perché.
Solo allora si capirà l’importanza di trasmettere, scrivere la propria storia, aprire il cuore dove sono depositati i nostri vissuti, per non restare sconosciuti, come spesso sono i nostri genitori, e conseguentemente, sconosciuti a noi stessi.
Allora di fronte ad una difficoltà di un figlio di essere stesso, si dovrà necessariamente leggere anche la storia del padre e della madre, rispondendo così alla domanda ingenua che tanti pazienti mi fanno: “A che serve conoscere il passato?” Che è poi la formula magica, usata anche in psicoterapia, perché entrare in psicoterapia è come entrare in una sala degli specchi e vedersi riflesso in tante parti di sé, tutte vere anche se diverse, e solo se ricomposte potrà apparire una immagine unitaria, più vera, più completa.
Per questo quando genitori mi chiedono se lavoro con i bambini, umilmente rispondo che è meglio lavorare con i genitori. Solo loro possono essere più efficaci a produrre cambiamenti nei loro figli, se fossero più capaci e attenti osservatori di quel che succede nel loro contesto familiare.