Noi con loro a scuola
Massimo Ammaniti (1)
“Qualche tempo fa sono stato invitato come consulente psicologico in un processo aperto, per la denuncia di un’insegnante da parte dei genitori di due ragazzine di terza media. Appena entrata in una classe che non conosceva, la supplente aveva dovuto fronteggiare la reazione scomposta degli alunni: c’era chi gridava, chi si alzava scherzando con i compagni e – come se non bastasse – due ragazzine addirittura saltavano in piedi sui banchi … Nonostante i ripetuti tentativi di ristabilire l’ordine, la confusione non accennava a diminuire. Esasperata, l’insegnante intimò alle due ragazzine di «non fare le cretine». E tanto era bastato per provocare il finimondo: le ragazzine scapparono dalla classe, gridando che la supplente si era permessa di insultarle. Non passò neanche un’ora e nella scuola si precipitarono le madri delle due ragazze, accusando l’insegnante di aver traumatizzato le figlie. Seguì, a stretto giro, un certificato fornito dal Pronto Soccorso che dichiarava uno stato di stress delle due ragazze e, dulcis in fundo, la denuncia al Commissariato.
Nel corso del processo dovetti accertare se effettivamente si potesse ravvisare un trauma nelle due ragazzine. «Più che il trauma causato dall’insegnante», dissi, «le ragazze hanno pagato lo stress provocato dalle madri che le hanno trascinate prima al Pronto Soccorso e poi al Commissariato». Il giudice decise di assolvere l’insegnante non ravvisando né le ingiurie, né l’abuso dei mezzi di correzione.
Al di là dell’esito, questo processo è indice non solo del clima che si respira in molte scuole italiane con insegnanti che rischiano di non essere messi in condizione di esercitare il proprio ruolo educativo, intimiditi come sono dagli alunni e dai loro genitori, ma soprattutto del fatto che l’obiettivo delle famiglie adolescenti sembra essere diventato un altro: difendere i figli da tutto e da tutti. Anche dagli insegnanti. E senza che i figli imparino a farlo da sé. Perché una famiglia adolescente è anche questo: una famiglia in cui i genitori si insinuano nella vita del figlio, spesso unico, e sperano in un contagio affettivo che sfumi i confini individuali e crei un «noi» liquido in cui tutta la famiglia è immersa. È un diverso modo di abdicare alla responsabilità genitoriale. Una delle conseguenze più immediate di un comportamento del genere, a parte l’inettitudine cui li si relega, è che i nostri figli finiscono per crescere e credere in un mondo dove vige l’impunità. Ovviamente la loro.
Con la nostra complicità, acquisiscono un’arroganza che li induce a mostrare poca attenzione e scarso rispetto nei confronti degli altri – in questo verso i loro insegnanti e la scuola come istituzione. È davvero avvilente sentire alcuni miei amici insegnanti affermare che non si stupiscono più del fatto che, mentre fanno lezione, gli alunni continuano come nulla fosse a dialogare sui social network, senza che loro possano fare alcunché. La verità è che averli eccessivamente assecondati in casa, aver detto loro pochissimi no, li ha resi incapaci di assorbire il senso di frustrazione che viene dalla negazione di un desiderio. Hanno sviluppato un sé grandioso, perciò fragile. A scuola le difficoltà esplodono appena si trovano ad affrontare le necessarie limitazioni e rinunce imposte dal contesto. Non sono in grado di sopportarle, diventano aggressivi, risentiti, svalutanti. Oppure perdono interesse e si ritirano.
[…] Con ogni evidenza si è spezzata l’antica alleanza tra genitori e insegnanti. Era restata salda fin quando ci si sentiva di condividere un comune obiettivo educativo. Il percorso non era sempre lineare, c’erano delle battute di arresto, problemi di disciplina o di studio, ma genitori e insegnanti rappresentavano agli occhi dei figli un sol uomo. Se emergevano delle divergenze, venivano risolte tra adulti e in privato. E questo perché si riteneva che in tal modo i ragazzi avrebbero percepito una linea formativa compatta, tracciata da figure autorevoli (certo, spesso, anche autoritarie), tanto a casa quanto a scuola. Così, se si veniva sospesi, i genitori non solo davano ragione agli insegnanti, ma si preoccupavano di rafforzarli. Spesso era il padre ad assumere un atteggiamento punitivo, che aveva la funzione di castrazione simbolica, atto a correggere il comportamento. In non pochi casi, i genitori assumevano un atteggiamento riverente nei confronti degli insegnanti durante i periodici colloqui con loro, ascoltando in silenzio ciò che questi avevano da dire, e si impegnavano a collaborare per aiutare il figlio a migliorare nel rendimento.
[…] Insomma, per molto tempo non ci sono state grandi possibilità di sottrarsi alla pressione compatta della famiglia e della scuola, alla quale ci si doveva adeguare volenti o nolenti. Ma si è chiuso un ciclo. L’autorevolezza di cui in passato godevano gli insegnanti è venuta meno, non solo agli occhi degli alunni ma anche a quelli dei genitori.
E le due cose sono collegate; anzi, è proprio l’atteggiamento dei genitori a rafforzare quest’immagine indebolita degli insegnanti agli occhi degli alunni. Se nostro figlio va male a scuola è perché gli insegnanti sono incapaci di spiegare; se non è diligente, è colpa dell’insegnante che non riesce a far rispettare la disciplina in classe. Se poi non ha un buon rapporto con i compagni, non si integra nella classe, è ugualmente colpa dell’insegnante che permette che questo avvenga. La responsabilità è a senso unico perché la compatta famiglia adolescente non se ne assume alcuna.
[…] Oggi è tutto diverso perché, come abbiamo visto, è cambiato il contesto familiare e sociale complessivo. La famiglia adolescente non vuole emanciparsi, nessun componente sembra volerlo davvero, perché il processo di distacco è diventato traumatico e complesso. Sembriamo aver dimenticato che l’adolescenza dei nostri figli è una condizione privilegiata per fare esperienza di noi stessi, di loro e degli altri con occhi nuovi. A vederla così, assume un’altra valenza la ricerca continua di nuove esperienze, di sensazioni forti da parte dei nostri figli: dovremmo considerarla un potente stimolo per essere contemporanei al mondo in cui viviamo. Una valenza positiva, che testimonia come lo sviluppo umano proceda per rotture e sia accompagnato dal dolore che, spesso, provocano. Andando nella direzione esattamente contraria, valorizzando cioè l’attaccamento dei figli adolescenti alla famiglia e considerando negativamente il loro bisogno di autonomia>, lo scontro e l’incomunicabilità che stiamo sperimentando, rischiano di amplificarsi a dismisura. Dobbiamo riconoscere e accettare la loro individualità e separatezza da noi, ovvero la loro libertà. Per i nostri figli è vitale che ciò accada. Dobbiamo smetterla di proteggerli indefinitamente e di prenderci ossessivamente cura di loro.
Non è un caso che nostro figlio non faccia che ripeterci: «Voi non vi fidate di me, pensate che non sia capace!» “.
Massimo Ammaniti La famiglia adolescente- Laterza
(1) Massimo Ammaniti, psicoanalista, professore onorario di Psicopatologia dello Sviluppo all’Università La Sapienza di Roma
Commento
Ho letto queste pagine, lo confesso, con attenzione, piacere, nostalgia, ma anche con rammarico. Nostalgia di un passato che mi appartiene e che è vivo nel presente. Nel 2017 nel silenzio ho fatto i miei 50 anni di attività lavorativa, divisa a metà fra quella di insegnante e quella di psicoterapeuta, che continuo ancora, finchè la mente regge.
Essere stato insegnante per me è stata una passione e una necessità.
Una necessità, perché allora, alla metà degli anni sessanta, i giovani adulti terminati gli studi non vedevano l’ora di rendersi autonomi e autosufficienti, e avendo fatto filosofia, l’insegnamento era l’unica mia possibilità, anche se la speranza era altra.
Una passione scoperta, perché nonostante l’ammonimento datoci dall’insegnante di matematica negli ultimi giorni prima dell’esame di maturità liceale e della scelta universitaria: “Mi raccomando, ragazzi, tutto fate, fuorché l’insegnante”, tanto misera doveva essere allora il mestiere dell’insegnante. Invece dal ’67 anno del mio primo incarico, anno dopo anno mi sono sentito realizzato, avevo un buon rapporto con gli alunni, con i genitori mostravo molta disponibilità e sentivo che loro mi apprezzavano. E ogni mattina andavo con piacere a scuola. C’erano le condizioni per lavorare assieme, ognuno con la sua responsabilità educativa, verso lo stesso obiettivo, favorire lo sviluppo e la crescita critica degli alunni e dei figli.
Così fino a quando mi sono accorto che l’entusiasmo, la vitalità, la passione non erano più quelli di prima, ho deciso senza pensarci due volte di lasciare la scuola per cimentarmi con la nuova professione di psicoterapeuta, con passione rinnovata, avendo la laurea di Psicologia da più di dieci anni.
La descrizione della scuola, degli alunni, dei genitori che ne fa oggi Ammaniti non è più purtroppo quella di allora, anche se ne avevo visto i segni di un cambiamento. Non che allora, erano gli anni del ’68, la scuola era un luogo tranquillo, anzi luogo di contestazione e di cambiamenti radicali, c’era scontro ma nel confronto, desiderio di apprendere e conoscere. Per me giovane insegnante il modello di insegnamento era fare l’opposto di quello che avevano i miei insegnanti, tranne quello dell’insegnante “preferito”, che ogni alunno ha avuto nella sua storia scolastica. Vita nuova si cominciava a respirare in quegli anni nelle aule scolastiche.
Nel giro di pochi decenni è avvenuto nel tessuto sociale, familiare e scolastico un cambiamento involutivo, lento, silenzioso, dovuto ad una abdicazione di responsabilità educativa. È invalsa la prassi del lasciar correre, di evitare lo scontro, e non porre freni al falso desiderio. Dimenticando che cioè sia in famiglia sia a scuola il processo educativo vero avviene nello scontro con alcuni “no” significativi e dati con autorevolezza. Saremmo cattivi genitori se non fossimo capaci di mettere un confine che definisce lo spazio dell’essere genitore e quello dell’essere figlio. Se confine non c’è, o è labile, o non lo si rivendica, la relazione genitore-figlio, rischia di diventare confusa nei ruoli o addirittura patologica se si arriva all’inversione dei ruoli, cioè quando è il figlio che ha più potere del genitore. Beninteso non si tratta di un semplice e autoritario esercizio del potere fine a se stesso, ma chi ha più libertà (potere) di definire se stesso e definire l’altro con cui si è in relazione, del Chi sono io e del Chi sei tu, del Chi sono io per te e del Chi sei tu per me.
Un ricordo esemplificativo.
Negli anni della partecipazione scolastica, della concessione agli alunni del diritto di assemblea di classe durante le ore scolastiche, regolamentato nei tempi, con richiesta scritta al preside, era altrettanto richiesta la firma obbligatoria dell’insegnante di turno. Se nei primi anni avevano un senso, un valore partecipato, con il tempo quelle assemblee si erano trasformate in due ore di far niente e di riposo o di assenze, prassi tollerata da tutti. Ebbene ad un certo punto mi son preso la responsabilità di rifiutare la mia firma alla richiesta, con conseguente grande meraviglia, stupore, incredulità dei miei alunni che proprio io, l’insegnante che ai loro occhi apparivo l’insegnante, tollerante, innovativo, comprensivo, rifiutasse la concessione dell’ora di lezione per permettere l’assemblea. Da quel no sistematico ogni volta si apriva una dialettica sul perché del mio rifiuto e sul mio diritto riconosciuto dalle norme a dire di no. Alla fine invitavo i rappresentanti di classe a protestare con il preside, cosa che non facevano mai, ricorrendo piuttosto alla facile soluzione di richiedere l’ora ad un altro insegnante più malleabile o disinteressato al problema educativo. Non so se i miei alunni hanno mai capito il senso di quel no, che era un modo per far prendere coscienza e responsabilità dell’esercizio di un diritto, che se calpestato, va fatto valere, se convinti, fino in fondo, anche se costa.
Qualche anno fa su invito, di una mia alunna, divenuta anche lei insegnante in una scuola superiore, ho accettato con entusiasmo e desiderio di ritornare nelle aule scolastiche e mi sono lasciato tentare di far parte di un progetto scolastico finalizzato fornire alcune indicazioni utili per la conoscenza del mondo della psicologia. Mi sono trovato davanti ad un piccolo gruppo di ragazze disinteressate a qualsiasi argomento proposto, tutte intente a smanettare con gli smartphone o chiacchierare. Sembrava che fossi capitato lì per caso e non su invito dell’insegnante all’interno di progetto formativo della scuola. Deluso e sofferente, ma non rassegnato, ho scelto io un argomento vitale per una futura professione o per chi esercita il mestiere di genitore, La relazione di Attaccamento, annunciando che alla fine avrei fatto una doverosa verifica scritta per una valutazione prevista dal progetto. Mugugni, meraviglia, incredulità, sono emersi, ma ho tirato dritto col massimo impegno fino alla fine. Al momento della verifica, tutte furtivamente impegnate a sbirciare sui loro smartphone, e io a passare fra i banchi, finto guardiano della regolarità dello svolgimento della prova. E alla lettura degli elaborati, una copiatura generalizzata con copia-incolla.
Sconsolato, mi sono ripromesso di non mettere più piede in un’aula scolastica.