Ogni analisi psicoterapeutica racchiude una domanda – James Hillman

Ogni analisi psicoterapeutica racchiude una domanda

James Hillman

Ogni analisi psicoterapeutica racchiude una domanda; e questa può venire tanto dal paziente, quanto da me che su di lui mi concentro. Io mi chiedo cos’altro egli vuole, oltre ciò che abbiamo cercato di formulare, così come il paziente cerca di scoprire il motivo vero per cui è venuto. E questa domanda non si presenta il primo giorno soltanto, ma si ripete, talvolta riproposta con intenzione, al fine di una consapevolezza maggiore riguardo all’analisi. Tuttavia le risposte ad essa non sono mai semplici come quelle che si leggono nei libri, dove è detto che il paziente chiede di essere amato, o guarito da un sintomo, o che vuole trovare, salvare o migliorare una relazione, sviluppare tutte le sue potenzialità, oppure essere preparato alla professione di analista. Né la domanda può essere soddisfatta semplicemente enumerando le esigenze del terapeuta: aiutare qualcuno, stabilire profondi rapporti con la gente, guadagnarsi da vivere standosene in poltrona, indagare la psiche, risolvere i propri complessi. 

Infatti, ciò che io voglio e ciò che vuole il paziente sembra sempre complicato da un altro fattore, quasi un filo che tira indietro, un’esitazione riflessiva che impedisce all’affermazione di ciò che realmente si vuole di trovare un’espressione diretta; tanto che, anche quando si arriva a toccare le proprie intenzioni, subito esse negano se stesse: “Non è questo, assolutamente. Non è affatto quel che intendevo”. 

Mi sono ormai convinto che l‘incertezza riguardo al vero motivo per cui il paziente ed io ci troviamo lì, è appunto il motivo per cui siamo : questo terzo fattore, che sembra mantenere intenzionalmente mutevoli ed enigmatici i nostri scopi, e che ci incalza con la sua domanda anche mentre rifiuta le nostre risposte. 

Questo momento di intervento riflessivo, questo terzo fattore nell’esperienza terapeutica, lo attribuisco all’anima. Sono convinto che il paziente ed io siamo trattenuti nell’analisi psicoterapeutica perché è lei che lì ci trattiene con mezzi di ogni sorta, dalle ossessioni del transfert al persistere dei sintomi, all’enigma dei sogni: tutti fenomeni che non comprendiamo. Ma soprattutto siamo trattenuti da quella sensazione di volere qualcosa di profondamente importante, che non può essere mai identificato con quel che crediamo di volere. Questo indistinto desiderio ci fa provare inoltre una dolorosa inferiorità. Ci sentiamo inferiori semplicemente perché non riusciamo ad afferrare per quale motivo siamo impegnati in un’analisi, che cosa essa sia, se stia andando avanti bene o invece non stia andando avanti per niente, e in quale momento essa finisca. E proprio perché ne sappiamo così poco, ci affidiamo così tanto ai positivismi: alle scienze positive, a ciò che di positivo è contenuto negli insegnamenti spirituali, alle posizioni morali delle ideologie. Ci aggrappiamo a queste festuche luccicanti e rigide, perché la base su cui ci troviamo, l’anima, è senza fine e inconoscibile

Quindi, in primo luogo, il nostro tema d’inferiorità nella psicoterapia appare come quella mancanza – al di là delle effettive inferiorità del fallimento, della depressione, della ripetizione e della sofferenza, che costituiscono il contenuto della terapia – come quel senso d’irrimediabile inadeguatezza che sta alla radice del nostro lavoro, e che la parola “anima” ci porta. 

James Hillman, Le storie che curano pag. 113- Raffaello Cortina Editore

Commento

 

Domanda che anch’io mi son fatto e ho fatto ad un mio paziente: Che cosa si aspetta da me? Rivedendolo a chiedermi per la seconda volta una psicoterapia a distanza di anni. Domanda che a me sembrava naturale, immediata, quasi neutra, ovvia, un modo per aprire un contatto, ma che invece ha avuto l’effetto di mettere il paziente sulla difensiva:

“E’ una domanda che blocca il fluire delle richieste al terapeuta, ma anche a se stessi. Perché anche a se stessi? È come una saracinesca, un griglione tirato giù quando meno te lo aspetti. È un muro che all’improvviso si erge ad interrompere il cammino. È elevarsi a Demiurgo. All’improvviso, uno viene spiazzato; diventa inevitabile la censura dei racconti che vorresti analizzare, dire.”

Risposta che mi ha spiazzato, tanto qualche giorno dopo ho dovuto rispondere scrivendo e articolando le mie ragioni sul senso di quella mia domanda. Insomma domanda e risposta sembravano poi accettate e comprese all’uno e all’altra. Comprensione e accettazione però apparenti e sempre presenti lungo il percorso, tanto che alcuni mesi dopo ritorna ancora la stessa domanda, prova che la mia risposta non è stata esauriente, né compresa e comunque era impropria. Così come non compresa da me nella sua portata e nel suo significato la prima domanda iniziale del paziente che si fa vivo dono molti anni: “Ci prendiamo un’ora per fare una chiacchierata?” Domanda apparentemente generica per quell’uso della parola chiacchierata che vuol dire tutto e niente e non impegnativa per nessuno di noi, ma che anch’essa si è fatta presente diverse volte nel percorso e con insistenza. Ha campeggiato nella nostra relazione, quasi un suono sottofondo inascoltato che ha messo in crisi diverse volte la terapia.

Solo ora, alla luce di quello che dice Hillman, ho capito che la domanda del paziente nella sua apparente insignificanza non era di essere curato per un sintomo o migliorare una sua relazione critica, ma era  il terzo fattore attivo anche se apparentemente non presente:

il filo che tira indietro, un’esitazione riflessiva che impedisce all’affermazione di ciò che realmente si vuole di trovare un’espressione diretta … questo terzo fattore nell’esperienza terapeutica, lo attribuisco all’anima. Sono convinto che il paziente ed io siamo trattenuti nell’analisi psicoterapeutica perché è lei che lì ci trattiene con mezzi di ogni sorta . La terapia, o l’analisi, non è solo qualcosa che gli analisti fanno ai pazienti, essa è un processo che si svolge in modo intermittente nella nostra individuale esplorazione dell’anima, negli sforzi per capire le nostre complessità, negli attacchi critici, nelle prescrizioni e negli incoraggiamenti che rivolgiamo a noi stessi. Nella misura in cui siamo impegnati a fare anima, siamo tutti, ininterrottamente, in terapia. ”

“Impegnati a fare anima” lo traduco nel mio linguaggio con essere stessi. La richiesta allora del mio paziente è: essere aiutato ad essere stesso. In un momento critico del percorso ho chiesto al mio paziente:

Terap.     Perché allora la psicoterapia?

Paz.         Come ci arrivavo a incontrare me stesso? Seduto, lungo il fiume, ad aspettare che passasse il cadavere del mio nemico, cioè il mio?

O detto in altro modo: “avrei voluto che mi mettessero nella condizione di ballare la mia di vita”

E frasi equivalenti sono presenti e ricorrenti.

Ballare la mia vita è incontrare la propria anima