“mentre la formazione si regge sul principio
operativo della divisione del soggetto, la conformazione
implica come suo esito una installazione del soggetto,
la quale, a sua volta,
genera una sorta di cambio di stato nel soggetto stesso:
da incompiuto diviene compiuto, da diviso diviene indiviso”.
Massimo Recalcati, Manifesto del Mare
1/ La classe morta
Un insegnante entra nello spazio scenico scolastico.
Saluta o non.
Gli allievi drizzano le orecchie, si mettono all’erta.
L’insegnante schiarisce la voce.
Parla, parla, parla e parla.
Gli allievi prendono appunti o fanno finta di prendere appunti.
Qualcuno segue. Qualcuno vola. Qualcuno medita la fuga.
L’insegnante fa qualche domanda che rimbalza nel vuoto dell’aula.
Una voce risponde, quasi sempre la stessa.
Quasi sempre le stesse voci rispondono alle stesse domande.
L’insegnante guarda l’orologio.
Saluta o non.
L’insegnante esce dello spazio scenico scolastico.
Se questo, più o meno, è il classico schema scolastico che si ripete in diversi posti della terra come un rito, una cerimonia ormai priva di significato, sorge la domanda: questo è l’insegnamento?
In-segnare.
Cioè segnare, fare segno, marchiare.
L’atto dell’insegnamento si produce unicamente quando l’allievo riconosce il segno, l’incisione che ha lasciato l’incontro con un sapere.
Non tutti gli insegnanti sono disposti a segnare.
Non tutti gli allievi sono disposti a farsi segnare.
L’insegnante dettatore si associa in modo complementare con l’allievo copia tutto.
L’allievo tante volte si deresponsabilizza, lascia il corpo sul banco come un abito in disuso, mentre ascolta senza udire la monotonia della voce dell’insegnante.
[…]
Ripetere
L’insegnamento tradizionale deve la sua efficacia alla ripetizione della parola, del gesto.
L’allievo risponde a quello che gli viene chiesto e impara a memoria.
Sono considerati bravi quegli allievi che sanno ripetere a memoria le parole dell’insegnante.
L’insegnante trova davanti a sé un replicante, un doppio di se stesso e rimane estasiato davanti allo specchio.
L’allievo, furbo, sa mimare l’insegnante e si guadagna il voto facendo esattamente quello che gli viene chiesto.
[…]
Muore quindi l’allievo in una ripetizione senza senso di frasi e gesti di qualcun altro.
Se ha lasciato quindi il suo corpo in aula con una serie di gesti privi di sensi, come un manichino e parla (se parla!) come un pappagallo, dov’è il soggetto? Se l’insegnante quando parla da solo colloca l’allievo in posizione di oggetto devitalizzato e l’allievo si lascia andare in questa morte apparente, deresponsabilizzato, decentrato e si perde in pensieri lontani o vicini, la domanda di nuovo è: questo è l’insegnamento?
L’insegnante colloca l’allievo nella posizione di oggetto nello stesso modo in cui la medicina disumanizzata pensa al paziente. Non più la persona con la sua sofferenza esistenziale bensì un pezzo di essa. Il medico recita il suo monologo, pronuncia la sua lezione davanti all’organo della persona. Un organo nella sua parzialità, non la persona nella sua complessità.
Collocato in questa posizione l’allievo risponde alle aspettative dell’insegnante, cioè farsi specchio, pappagallo o se non possiede queste capacità mimetiche fa il morto.
La posizione di totale sudditanza al sapere, potere dell’insegnante si prolunga nello studio, dove l’allievo non si appropria della parola dell’autore, bensì la investe di sacralità. Un libro quindi non è pensato, discusso, sottolineato, cioè lavorato. Un libro viene letto per essere ripetuto pappagallamente ingoiato senza essere assaporato.
[…]
Ogni volta che siamo visti, pensati, studiati, classificati, valutati, come una categoria indifferenziata (studenti, ammalati, carcerati, ecc) perdiamo la nostra soggettività.
Il primo problema che si pone l’insegnamento dei gruppi è l’impossibilità di insegnare ad uno ad uno.
L’insegnamento che ha originato il nome pedagogia era un insegnamento individualizzato dove maestro e allievo potevano sviluppare ed approfondire il legame educativo perché camminavano racchiusi in uno spazio simbolico intimo.
C’erano tutte le condizioni per stabilire il dialogo (dal greco dialogos, composto dalla particella DIA, fra e LOGOS, discorso) Il dialogo è un discorso fra persone.
Risuonano potenti, per la verità istituzionale che evocano, le parole di alcune maestre “…non possiamo dedicarci solo ad un bambino perché ne perdiamo il resto”.
Questa è l’idea di fondo dell’insegnamento tradizionale che porta alla massificazione del discorso, dove le maestre non potendo dedicarsi alla particolarità di ogni bambino, in realtà concepiscono tutta la classe come se si trattasse di un solo bambino.
Le maestre puntano il discorso ad un ideale bambino “medio”.
Nell’impossibilità di costruire rapporti individuali, legami educativi personalizzati, l’insegnamento si spersonalizza, si “astrae”, diventa programma. Il programma (che per essere tale dovrà essere perennemente in ritardo) è una mappa concettuale che serve all’insegnante per seguire un proprio cammino. L’insegnante con il programma in mano evita di perdersi nelle insidie della realtà, dell’imprevisto, dell’incontro, della vita.
Come riprendere il soggetto, fare rinvenire l’allievo non come un morto in vita bensì come un vivo tra i morti?
Come svegliarlo del suo torpore?
Proviamo ad orientarci seguendo l’origine della parola pedagogia.
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Commento
Propongo la lettura di queste pagine in cui mi sono imbattuto casualmente e che per curiosità ho cominciato a leggere riandando indietro con nostalgia a quando anch’o ero insegnante. Ma anche per una fatale e felice coincidenza di tempo. Ho fatto un incontro con una mia alunna il cui nome e il cui volto si erano perduti nell’oblio della mia debole memoria.
La peculiarità di questo lungo testo, di cui pubblico una prima parte ridotta, si trova in un sito web di psicoterapia[1] e la mia attenzione si è focalizzata sul significato etimologico di in-segnare, mettere un segno, lasciare un segno, un’impronta in una relazione unica con un alunno.
Mi sono interrogato: ho lasciato qualche segno in qualche alunno?
Ho ripensato al mio essere stato alunno e ho trovato la traccia di un mio maestro elementare, quella di un mio prof di liceo e quella di un prof alla facoltà di Filosofia. Per il resto deserto.
Se sono stato l’in-segnante che sono stato lo devo in buona parte a loro, non dimenticati Mollica, Rossini, Apollonio, Agazzi, e ognuno con la sua peculiarità.
Qualche settimana fa mi trovavo a Ginevra da mia figlia, mi giunge una richiesta di “amicizia” su Facebook di una persona che non conosco e a cui non rispondo e che non prendo in considerazione per un mio criterio selettivo. Dopo qualche giorno di silenzio si fa di nuovo viva con un messaggio con nome e cognome:
“ Buon giorno Prof.. sono stata una sua studentessa alla ITC di Rovereto.. La ricordo spesso e volentieri.. “
Buio totale in me e lo confesso, le chiedo qualche indizio, anno, compagni. La colloco negli ultimi anni della mia carriera di insegnante, riconosco qualche altro nome. Ma niente di più. Le chiedo se può farsi viva quando sarei rientrato a Rovereto. Incontro che è avvenuto ieri nel mio studio. Si presenta con sua figlia adolescente, il suo volto non mi è sconosciuto, anche se sono passati quasi trent’anni. Mi dice:
“Io, la ricordo benissimo è sempre stato un insegnante molto disponibile e sincero a differenza di molti altri… Mi ha accompagnato fino in seconda, poi io sono stata bocciata, perché ho avuto problemi con alcuni prof e quindi consigliata dal preside di andare a Trento. L’ho cercata anni dopo senza possibilità di trovarla. Ora grazie a Facebook l’ho ritrovata”.
Mi sono commosso e consolato ripensando alla pagina sull’importanza di lasciare un segno nella relazione fra alunno e insegnante!
[1] https://divergenzecura.wixsite.com/divergenze/contributi-1?fbclid=IwAR01A_4K2k1XA2O00cNOWy23Y4Wz7GMpybls_HLgRFE_IeWBlkiHNMKxjRY