Perché la terapia familiare fa paura?
Giuseppe Basile
Un’amica del gruppo della Bottega dello Psicoterapeuta mi chiede:
“Perché la terapia familiare fa paura, o meglio mi fa paura?
Dal mio punto di vista perchè sembra violenza verso l’altro, un dito puntato verso, e la paura di una rottura profonda, insanabile.
O di scoprire dove credevi ci fosse amore, che questo non esiste, è stato frainteso.
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Commento
Rispondo che la domanda è legittima e pertinente.
Non è facile e semplice, come potrebbe pensarsi, chiedere aiuto ad uno psicoterapeuta di solito passa parecchio tempo prima di farlo. Un tempo fatto di attesa, di un interrogarsi se ne vale la pena di rivelare il bisogno e l’angoscia, parti segrete di sé stessi, ad uno sconosciuto. Nel frattempo, se il disagio è permanente, il vivere si caratterizza con il mettere in atto inconsapevolmente un comportamento specifico, anomalo, inspiegabile, che preoccupa prima di tutto i familiari: il sintomo. Il sintomo è prima di tutto un comportamento difensivo, oltre ad essere un comportamento psicopatologico, colpisce la stranezza del comportamento ripetitivo.
Solo allora si pensa di rivolgersi ad uno psicoterapeuta, ma la paura e l’ansia non scompaiono, perché dover rivelare parti intime di sé ad un estraneo mette in imbarazzo, è un sentirsi giudicato. Ma visto che il sintomo è sempre presente, e che a volte cambia la modalità comportamentale, la paura aumenta al pensare che il proprio modo di essere e di vivere non sia riparabile.
Anche quando è in corso una psicoterapia la tentazione di smettere l’incontro è sempre presente, un chiedersi ripetutamente” dove mi sono cacciato e perché”, è comprensibile.
Domanda che mi sono fatto anch’io alla fine di una seduta informativa terapeutica di gruppo, all’inizio della mia attività terapeutica, dopo quella scolastica. Non ricordo il perché, ma quando è venuto il mio turno di dire il perché fossi lì, l’emozione mi ha tradito, ero sul punto di piangere e non vedevo l’ora di andare via.
Così io per evitare fraintendimenti, al cliente che mi chiede un appuntamento, prima di iniziare il percorso terapeutico, dedico una lunga seduta gratuita per capire innanzitutto se sono in grado di aiutarlo per il sintomo che presenta. Successivamente presento in cosa consiste la terapia e il mio modo di lavorare. E dirimente per me l’accettazione della ripresa televisiva della seduta, specialmente e soprattutto se ci sono familiari in seduta, perché la seduta è rivista dal terapeuta e a volte dal paziente/i se lo desidera.
Così dopo la prima seduta, lascio andare l’altro con il bagaglio di quanto ci siamo detti, raccomandandogli di pensare e riflettere, e solo dopo, quando ne è maggiormente convinto, può telefonare per iniziare il percorso. L’altro se ne va forse ancora più confuso, quando lo accompagno alla porta, senza pagare, “l’onorario”, perché sono convinto che l’ascolto dell’altro non ha prezzo, non è mestiere. E anche se, come succede, l’altro non si fa più vivo, e sono i più, mi piace pensare di essergli stato utile in qualche modo, anche se solo con l’ascolto.