Perché vogliamo tanto parlare di noi? – – – Michela Marzano

Perché vogliamo tanto parlare di noi?

di Michela Marzano

Perché scrivere del proprio dolore? Perché raccontare la propria storia? Ieri Stefano Bartezzaghi parlando di Gramellini e citando anche me faceva una critica garbata ad alcune forme di narrazione autobiografica che a volte diventano bestseller. Non prendo in considerazione l’ipotesi che uno lo possa fare per vendere libri, ma vorrei provare a spiegare, piuttosto, perché si sente l’urgenza di raccontare.

Non credo che esista una sola risposta. Come sempre, tutto dipende da colui o da colei che, un giorno, decide di “fare qualcosa” di quella sofferenza e di quegli attimi di solitudine estrema in cui nessuno poteva capire, perché nessuno trovava le parole per dirlo. Ma anche dal valore che si accorda alla scrittura. Perché talvolta si bara limitandosi a sbattere in faccia agli altri le proprie lacrime. Ma questo è proprio quello che cercano di evitare coloro che scrivono per dare un senso all’esistenza. In questo caso le emozioni non vengono mai “buttate” sulla carta.

Quando si scrive, è perché ci si è messo tanto tempo – talvolta anni e anni – prima di trovare finalmente quelle parole. E allora si cerca solo di condividerle con gli altri. Per mettere un po’ di ordine nel mondo, come direbbe Albert Camus. Per trasformare il proprio dolore in un atto militante. Visto che scrivere di sé e delle proprie esperienze, ormai lo sappiamo bene, è anche un’azione politica, un modo di mostrare che il “privato” è, in fondo, sempre “pubblico”. Certo, nella scrittura autobiografica può accadere che alcuni ci “mettano le viscere” senza essere capaci di passare per la mediazione razionale. E appunto il problema non è quello del “perché” si parla di sé, quanto quello del “come”. Che è poi l’eterno problema del raccontarsi.

Come dire quello che si è vissuto senza scadere nell’infantilismo, nella commiserazione? Come utilizzare metafore, ossimori e paradossi senza svuotare di senso la scrittura? Quello che ho cercato di fare con Volevo essere una farfalla è stato proprio questo: trovare le “parole giuste”. Raccontare la mia anoressia non per “mettermi in scena”, ma per nominare quell’evento che mi aveva attraversato. Quell’evento di cui parla Hannah Arendt quando spiega che l’unico modo per incarnare il pensiero è partire dalle macerie da cui ci si trova un giorno circondati. Quell’evento che lascia tante persone senza parole, e che ha invece proprio bisogno delle parole per dirsi, affinché si possa pian piano imparare ad accettare la propria fragilità e le proprie ferite. Quell’evento che rinvia al “vuoto esistenziale” che ognuno di noi, in fondo, si porta dentro e con il quale deve poter convivere, senza illudersi di incontrare un giorno chi sarà capace di colmarlo. Perché è una mancanza ontologica che caratterizza la condizione umana, come spiega Jacques Lacan. Ecco perché scrivere di sé non significa solo “scrivere dolore”, ma trovare il modo per “nominarlo”. Per raccontare le sfumature impercettibili dell’esistenza, quel non detto e quel non fatto che talvolta ci tormentano. Che senso avrebbe d’altronde scrivere la propria storia, se le parole non servissero poi a raccontare quegli attimi di “non senso” che, in fondo, ogni essere umano conosce, o ha conosciuto, almeno una volta nella propria vita?

Repubblica 17 marzo 2012 — pagina 61 sezione: CULTURA

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Commento

Perché raccontare la propria storia? Si chiede e ci chiede Michela Marzano. Non c’è una sola risposta, ognuno che la scrive ha la sua. E di solito passano anni prima di iniziare a scrivere e anni per finire, anzi direi che non si finisce mai di scrivere la propria, storia è vita e se c’è vita c’è storia. E mai storia unica, ma intreccio di storie e di vite che ci appartengono e che scopriamo se uno si ferma a fare i conti con se stesso. Quando uno inizia a raccontare di sé, sullo sfondo gradualmente emerge una figura di sé, quasi un alter ego con cui inizia un dialogo interiore, un interrogarsi e un rispondersi, un vedersi in uno specchio dell’anima. Ma sempre la domanda iniziale ci accompagna e ci chiede: Perché scrivere la propria storia?

Io ho cominciato a scrivere quando mi sono accorto che non conoscevo la mia storia familiare, la storia di mio padre, la storia di mia madre, la storia degli antenati più vicini. E probabilmente per nostalgia e per invidia dei miei pazienti che hanno avuto la forza, il coraggio di raccontarsi, di ricostruire un’altra storia liberatoria più vera di quella vissuta senza conoscere le loro radici.

Ma ancora penso che forse la spinta e la determinazione all’impegno mi è venuta dalla testimonianza di mio padre che alcuni mesi prima di morire inaspettatamente mi implorò testualmente: Non ti devi dimenticare di me, che nella versione dialettale siciliana: “Nun t’à scurdari ri mia” .è implicito un senso di dovere morale.

Perciò ho deciso di rendere giustizia alla storia familiare, impegnandomi nella stesura della mia storia così come l’ho vissuta e come l’ho vista io.

Dopo anni di ricostruzioni di storie familiari e di appelli ai pazienti di scrivere le loro storie per i figli e i nipoti, perché non se ne perda la memoria e dopo averli invidiati per il loro impegno e il risultato ottenuto, ho pensato che fosse giunto il mio momento per riappacificarmi con la mia famiglia nella speranza di fare un po’ di luce su certi nodi altrimenti non più comprensibili.

Vado lento, (ho iniziato nel 2005 anno della morte dei miei genitori a distanza di 10 mesi l’uno dall’altra) perché è un lavoro di rilettura della vita passata, ma presente, alla ricerca di segni, anche se impercettibili, che possano aiutare a capire quello che prima non si è capito e che potrebbe essere di aiuto non solo per me, ma anche per le figlie e non solo, forse anche per le nipoti.

Per me, e lo predico agli altri, e in primo luogo ai miei pazienti, la conoscenza della propria storia familiare, specialmente quella allargata alla prima generazione, quella dei nonni, è una ricostruzione, non tanto anagrafica o cronologica di fatti e di eventi individuali e familiari, più o meno importanti, ma soprattutto emotiva ed affettiva, volta alla ricerca di parti (affetti, modelli comportamentali, capacità reattive, atteggiamento verso la vita, valori familiari, miti, abitudini) delle generazioni precedenti che sopravvivono in noi e costituiscono parte integrante della nostra identità e dei nostri modi di essere, anche se non ne siamo consapevoli.

Inoltrarsi a fatica nell’esplorazione della famiglia e della sua storia è anche, e forse soprattutto, un modo per curare le parti di sé oscure, limitative, non accettate, dolorose. La percezione del nostro disagio e delle nostre incapacità, ma anche del nostro dolore, spesso hanno la loro origine nei nodi sconosciuti della nostra storia e trovano la loro spiegazione e la loro rivelazione nella felice ricostruzione e scoperta di una “un’altra verità” più ampia e diversa dalla nostra verità individuale, che ci siamo costruiti nel tempo. A patto che ci siano dei testimoni. Ma con il tempo la nostra rimane una verità bloccata, parziale, se non è messa a confronto con le altre verità che ogni familiare si porta serrate dentro.

Ma è anche un modo per comunicare, a chi ci sta più vicino e condivide con noi l’esperienza della vita, le parti sconosciute di noi stessi e sconosciute a noi stessi.