Psicoterapia: solo chiacchiere o talking cure?

Psicoterapia: solo chiacchiere o talking cure?

La forza della parola nel trattamento della sofferenza umana

«Non di pane soltanto vivrà l’uomo,   ma di ogni parola che proviene    dalla bocca di Dio»

[Matteo 4.4]

 

Indice

 

      1. Da animali a uomini: l’ingresso nel linguaggio
      2. Babele e la confusione delle lingue
      3. Il nome umanizza la vita
      4. La presenza dell’assenza
      5. La parola oltre la mera propagazione delle onde sonore
      6. A chirurgo sta bisturi come a psicoanalista sta parola

In un’epoca in cui l’utilizzo dello psicofarmaco è sempre più quotidiano, si assiste ad un netto peggioramento delle condizioni di chi ne fa utilizzo piuttosto che al miglioramento preventivato dalla molecola farmacologia[1]. Superando le iniziali resistenze, le evidenze scientifiche hanno iniziato a constatare come in sé e per sé il farmaco non costituisca una soluzione e che dei benefici a lungo termine sono apprezzabili solo in combinazione con un trattamento psicoterapico.

Ma se da un lato il mondo scientifico sta accettando l’evidenza per cui l’introduzione nel corpo umano di molecole che modulano l’azione di altre molecole non è sufficiente a garantire l’equilibrio psicofisico del soggetto, la popolazione non specialista – ormai abituata ad avere a disposizione una pillola per qualsiasi forma di malessere – potrebbe nutrire ancora dei dubbi. Insomma, se di fronte ai dati epidemiologici l’opinione scientifica ha dovuto constatare come il metodo riduzionistico intrinseco alla scienza non è sufficiente a garantire il benessere dell’essere umano – in quanto questi non è solo la mera sommatoria del corretto funzionamento dei suoi organi interni – la restante parte della popolazione si interroga ancora su come possa considerarsi una vera e propria terapia una seduta di psicoterapia in cui lo specialista non fa altro che interloquire con il paziente.

Il presente contributo vuole essere d’aiuto a coloro i quali vorrebbero rivolgersi ad uno psicoterapeuta ma che non hanno ben chiaro se davvero ne valga la pena; se le “chiacchiere” che ci si scambia in confidenza possano davvero restituire al paziente qualcosa con cui si possa realmente superare le impasse della propria vita. Insomma, la parola può essere considerata come uno strumento clinico alla stessa stregua del bisturi per il chirurgo?

 

      1. Da animali a uomini: l’ingresso nel linguaggio

La reale perfezione di una relazione tra due esseri così strettamente sintonizzati l’uno con l’altro e legati da così tante cose tangibili e intangibili comporta la possibilità di disturbi seri se essi non sono in sintonia. [Spitz e Wolf, Autoerotismo]

Il cucciolo dell’uomo alla nascita è totalmente privo di qualunque competenza e questo lo rende totalmente dipendente dall’altro. Questa condizione non è così drastica nel regno animale, in cui i cuccioli sono invece in grado di svolgere fin dalla nascita determinate azioni[2]. Il neonato, invece, totalmente impotente, non fa altro che mettere in atto dei riflessi innati che gli permettono di comunicare con l’altro i propri bisogni primari. Questi riflessi, come il pianto e la suzione, sono già una forma di linguaggio che si potrebbe definire ante litteram di cui il soggetto è portatore in maniera innata[3].

In questo confronto tra le prime azioni che fa il cucciolo dell’uomo e quello del regno animale riscontriamo una grande differenza nell’approccio alla vita: il primo deve mettere in atto specifiche azioni affinché intervenga l’altro mentre nel regno animale tutto procede in maniera più diretta grazie al predominio dell’istinto, vero e proprio canovaccio dell’esistenza animale. Confrontando i soggetti in esame, ci si accorge che “non c’è alcuna differenza, da questo punto di vista, quando si osservano un bambino e un gattino succhiare il seno e la mammella della propria madre”[4], poiché la differenza risiede a monte, ovvero nel modo in cui il soggetto è riuscito ad accedere al seno materno: la differenza consiste nel grido.

Dunque, la discrepanza radicale fra la vita umana e quella animale la si riscontra nel fatto che per l’umano la vita “deve entrare nell’ordine del senso[5], in quanto non segue le regole dell’istinto, ma si configura come un “appello rivolto all’Altro[6]. E questo grido, questo appello rivolto all’Altro, a ben vedere è la prima forma di linguaggio intenzionale, dato che “il grido cerca nella solitudine della notte una risposta dell’Altro. In questo senso, ancora prima di imparare a pregare […], noi siamo una preghiera rivolta all’Altro[7].

È opportuna una precisazione. Se è vero che è l’appello rivolto all’Altro ad umanizzare la vita, è anche vero che questo Altro deve rispondere a tale appello. O meglio, è proprio la risposta dell’Altro che rende il grido – altrimenti mero grugnito ancestrale – un appello umano: “solo se l’Altro risponde alla nostra preghiera. Se viene tradotto da questa presenza in un appello. Ecco l’evento primario in cui la vita si umanizza: quando il grido è tradotto in una forma radicale di domanda[8].

E se tutto questo non dovesse avvenire? Se la vita del cucciolo dell’uomo non si inscrivesse nella forma umana? Se l’altro non rispondesse a questa chiamata?

Se la vita non si umanizza, non può esistere vita.

La sindrome da deprivazione primaria studiata da Spitz sembra essere una sentenza a tal proposito. L’importanza dell’azione materna nei primissimi stadi dello sviluppo dell’infante risulta palese facendo un confronto fra i bambini “ospedalizzati” e quelli che vivono nel nido famigliare. Le osservazioni hanno evidenziato come la presenza materna abbia una funzione che vada al di là del semplice accudimento. Infatti, i bambini che vivevano negli orfanotrofi, dove ricevevano tutte le cure primarie, di natura meramente fisiologica e nutritiva, soffrivano di un ritardo generale in tutte le sfere[9]. Inoltre, quando questa condizione perdurava fino al nono mese si assisteva ad un permanere cronico della patologia e, nei casi più gravi, addirittura alla morte del bambino. Dunque, se l’unico rapporto che il bambino ha con l’altro è prettamente di natura fisiologica non relazionale, nel bambino si svilupperà una forma di apatia – di fatto rientrante nella “depressione” – che porterà il soggetto ad una tale inerzia da rifiutare persino il nutrimento vitale[10].

E dunque, fin dal primissimo istante di vita, fin dal primo vagito, tutto ruota attorno alla centralità del linguaggio in quanto veicolo di vita e di amore.

 

 

 

      1. Babele e la confusione delle lingue

Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole.

[Genesi 11,1]

 

È, dunque, con l’utilizzo del linguaggio che l’essere umano è tale, nella misura in cui perde parte della propria animalità. Tuttavia, in questo processo, paradossalmente, perde anche una quota di sé stesso[11], dal momento che per interagire con l’Altro è necessariamente costretto a scendere a patti con questi, ad elaborare delle strategie per rendere l’interazione più efficiente possibile, per ottenere il massimo dal caregiver da cui il bambino dipende totalmente.

Quanto detto porta ad una diretta conseguenza: fin dalla nascita siamo costretti ad imparare la lingua dell’Altro. A tal proposito, il mito racconto biblico della Torre di Babele insegna molto.

L’evento è noto: “Gli uomini della Torre vogliono assaltare il cielo sfidando Dio non solo perché esibiscono la loro ambizione in una spinta ascendente che vorrebbe escludere l’esperienza del limite, ma perché in questo slancio fallico-narcisistico essi vogliono farsi un nome da se stessi”[12]12.

Come si dirà meglio oltre, è l’Altro che ci dà un nome. A ben vedere, la nostra identità deriva dall’Altro. Il primo “Altro” in questione è indubbiamente la madre e in senso più ampio la coppia genitoriale. A loro volta questi sono il risultato di un lungo processo di costruzione della propria persona che ha interagito ed assimilato quanto derivato dal sociale. Per mezzo del “primo” Altro il bambino interagisce con tutto un mondo – fa il suo ingresso nel linguaggio – perdendo irrimediabilmente una quota di sé, istintuale e primitiva.

Negare tutto questo equivale a ritenere che ogni individuo si genera da sé e senza bisogno di passare per l’Altro. A questo Altro viene riconosciuta esclusivamente la funzione procreativa. Di fatto, questo è il delirio “fallico-narcisistico” dei babelici. E cosa fa Dio per impartire loro la lezione? Il castigo è la confusione delle lingue!

Non la pioggia di fuoco, non l’invasione delle cavallette, non la morte dei primogeniti, ma la confusione delle lingue affinché l’essere umano possa reimparare l’importanza del linguaggio in quanto strumento che unisce gli uomini, definisce la loro natura e pone dei limiti non valicabili attraverso il mero diniego degli stessi. E per reimparare l’importanza del linguaggio si è scelta la via più ardua, ma l’unica percorribile, ovvero l’imparare a interagire con l’Altro che parla una lingua diversa dalla nostra, che vive in modo diverso, che abita un luogo diverso[13]: “Costruire la Torre è un modo per generarsi da sé inseguendo un miraggio di autosufficienza. Si tratta di una hybris che viola ogni processo di filiazione. L’esistenza di un solo popolo e di una sola lingua esclude la lingua dell’Altro”[14].

Freud affronta la tematica ne Il disagio della civiltà in cui si sofferma sulle conseguenze delle rinunce a cui è costretto l’essere umano per vivere nella civiltà: affinché esista una civiltà ogni soggetto deve rinunciare ad una parte della propria libertà personale in virtù di qualcosa di più grande, ovvero la civiltà stessa.

Non è un caso che il titolo originale del saggio sia Das Ungluck in der Kultur, ovvero “L’infelicità nella civiltà”, dove la preposizione di stato in luogo – “nella” – sottolinea come sia proprio il passaggio che compie l’essere umano dal regno animale a quello civile a renderlo infelice, a provocarne il disagio:

La vita dell’animale resta un tabù inaccessibile per quella umana: mentre la vita animale è vita piena, regolata dalla forza infallibile dell’istinto, quella umana appare come una vita ferita, limitata dalle leggi della Cultura, separata irreversibilmente dalla Cultura[15]15

Come detto sopra, questo enorme iato fra vita animale e vita umana inizia nelle primissime esperienze di vita:

“Il lattante non distingue ancora il proprio Io dal mondo esterno come fonte delle sensazioni che affluiscono in lui. Apprende a farlo gradualmente […]. Deve produrre in lui la massima impressione il fatto che alcune delle fonti di eccitamento […] fra cui quella maggiormente desiderata, il seno materno – temporaneamente gli si sottraggono e gli vengono riportate solo come risultato del suo strillare in cerca di aiuto[16].

Winnicott si è soffermato a descrivere molto bene queste prime esperienze del neonato, puntualizzando come nelle primissime fasi dello sviluppo, ogni sensazione corporea che prova il bambino lo invada totalmente. Quando ha fame, egli è la fame e nulla può placare questo stadio se non la sazietà e questo spiega le sue “esplosioni” di frustrazione. Queste non sono né più e né meno che una vera e propria forma di linguaggio, seppur rudimentale, finalizzate a sopprimere le sensazioni di frustrazione che ben presto il bambino imparerà ad associare con la venuta di un oggetto esterno a lui: “In questo modo si contrappone per la prima volta all’Io un ‘oggetto’, come qualcosa che si trova ‘al di fuori’ e che viene costretto ad apparire soltanto in seguito a un’azione particolare”[17].

 

 3. Il nome umanizza la vita

«Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati.

Non temete, voi valete più di molti passeri».

[Luca 12,7]

 

«Fatti non foste a viver come bruti

ma per seguir virtute e canoscenza»

[Inferno XXVI]

 

“Lacan ha affermato una volta che l’amore è sempre ‘amore per il nome’” nel senso che si ama l’altro nella sua personalissima sfaccettatura, “si ama sempre una vita particolare, il soggetto nella sua singolarità, […] per la sua esistenza unica, irripetibile e insostituibile”[18]18. E questa costituisce un’altra enorme differenza fra il mondo animale e il mondo umano.

Nel regno animale tutto procede con un meccanismo che potremmo sintetizzare con l’espressione “azione e reazione”, in cui l’istinto indirizza in toto l’agire dell’animale e questo rende il comportamento delle specie animali “standardizzato”. L’uomo, invece, che ha operato un “addomesticamento” dell’istinto, non può essere inscritto in delle leggi universali. Ogni individuo della specie umana è una specie a sé: ha un obiettivo di vita squisitamente individuale, è frutto di un desiderio personale che sfugge dalla briglia di qualunque forma di generalizzazione.

È un delirio della scienza contemporanea il deliberato diniego di questo aspetto e l’applicazione delle regole universali all’essere umano. Nella scienza medica avviene proprio questo:

“nell’attualità ipermoderna il discorso delle cure appare sempre più vincolato alla logica disumana della quantificazione: grafici, scale, dati statistici, costanti biologiche, diagrammi computerizzati occupano la scena  svuotandola della dimensione etica della parola. L’affermazione scientista di un linguaggio protocollare e integralmente formalizzato non esime però il medico dal fronteggiare la dimensione più specifica e scottante della sua pratica, ovvero l’incontro con la domanda di aiuto del soggetto.[19]

L’essere umano, dunque, è un essere unico e questa unicità si viene a costituire fin dalla nascita, quando la madre rinforza qualsiasi forma di particolarità che il suo bambino manifesta. “L’amore materno, più di ogni altro amore, rivela che, quando si ama, si ama una vita particolare […]”[20], “una madre – come il Dio della tradizione cristiana – conosce l’esatto numero dei capelli sulla testa del figlio”[21]:

Una madre non esige il figlio ideale, non ama il figlio a partire dalle sue capacità, dalle sue facoltà o dalla sua bellezza. L’amore materno è amore non per l’ideale, ma per il reale del figlio, è amore per il suo nome proprio. E nulla come avere un figlio disabile, storto, anormale, impone lo scavalcamento dell’ideale verso il reale, impone l’abbandono di ogni rappresentazione narcisistica di sé e del proprio figlio, l’incontro con una sporgenza che non può essere smussata e che il figlio come non-coincidente con le consuete aspettative narcisistiche della madre.[22]

Sì, perché nella singolarità di ogni essere umano non esiste nulla che possa coincidere con le aspettative, a differenza di un esemplare di animale che rispecchia tutte le principali caratteristiche della specie di appartenenza. E la singolarità insita nella condizione umana deriva proprio dalla dialettica amorosa fra madre e bambino, nell’azione del nome proprio[23].

Come detto sopra, si tratta di un’illusione narcisistica propria dell’epoca contemporanea quella per la quale ogni soggetto si fa da sé, portando alle estreme conseguenze la figura del self made man di derivazione ottocentesca che vorrebbe l’uomo capace di elevarsi da qualunque condizione iniziale, oltrepassando i propri limiti grazie all’utilizzo della ragione “oggi molti giovani sembrano convinti  di poter fare a meno di tutta l’informazione contenuta nella nostra tradizione culturale. […] «essi gettano via i genitori insieme all’acqua sporca»”[24]. Invece, […] al tempo della Bibbia il passo compiuto nel cammino culturale dalla generazione successiva, rispetto alla precedente, era così breve, che non soltanto l’identificazione con il padre era un fatto ovvio, ma essa poteva andare così avanti che ci si identificava con lui fino al punto di assumerne il nome. Con crescita affannosa del ritmo di sviluppo della nostra civiltà le generazioni diventano sempre più diverse le une dalle altre.[25]

Dunque, sembrerebbe quasi che ciò che sta avvenendo nella società moderna non è altro che un’attualizzazione dell’episodio biblico della Torre di Babele.

L’architettura della Torre esige la compattezza uniforme della lingua che si fa da sé. Non è questa una delle cifre più evidenti del nostro tempo? Non viviamo tutti immersi nello sfondo incessante di edificazione del nostro nome proprio? Farsi un nome non è un imperativo egemone nella concezione occidentale della vita?[26] Nel nome – nonostante sia nome proprio – non c’è nulla di autoreferenziale. È qualcosa che serve solo in rapporto con l’Altro e deriva proprio da quest’ultimo. È solo attraverso questa dialettica con l’Altro che l’uomo si può davvero elevare, passando dalla condizione animale a quella umana. Lo spiega molto bene l’artista[27]:

«Che cosa vuol dire “addomesticare”?» [Chiese il Piccolo Principe]

«È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire “creare dei legami…”» [Rispose la volpe]

«Creare dei legami?»

«Certo», disse la volpe. «Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo». «Comincio a capire» disse il piccolo principe.

 

      1. La presenza dell’assenza

«Perché nei sogni entriamo in un mondo che è interamente nostro.»

[Albus Silente, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban]

 

Il linguaggio è lo strumento di comunicazione principale dell’essere umano. Esso permette non solo un’altissima qualità e quantità di interazioni sociali, ma anche le abilità di riflessione impossibili per qualsiasi altro essere vivente. In questo senso è la principale qualità evolutiva dell’essere umano: “con il termine «evoluzione» si intende, da Darwin in poi, ciò che accade ogniqualvolta si accumulano delle mutazioni che forniscono a chi ne è portavoce dei vantaggi selettivi potendo portare anche allo sviluppo di nuove specie”[28]. La grande potenza del linguaggio consiste nel rendere presente ciò che è assente. Attraverso la denominazione, infatti, è possibile rievocare qualcosa anche se questo qualcosa non è presente. Questo è il simbolismo intrinseco della parola, che permette al soggetto di riflettere sulla realtà esterna anticipando azioni, programmando comportamenti, supponendo eventi, riflettendo sulla condotta.

Freud ritiene che è proprio il bisogno del bambino di mantenere un contatto con la madre a spingerlo ad elaborare delle strategie simboliche per poterla tenere con sé. Freud giunge a questa conclusione attraverso l’osservazione diretta del proprio nipotino nel momento in cui si allontanava la madre[29]:

Il bambino aveva un rocchetto di legno con un pezzo di spago arrotolato […]. Quel che gli piaceva fare era tenere in mano lo spago e scagliare con consumata precisione il rocchetto dietro la spalliera a tendina del suo letto, di modo che l’aggeggio sparisse; contemporaneamente egli emetteva il suo caratteristico «o-o-o-o». Quindi ritirava il rocchetto dal nascondiglio e salutava la sua riapparizione con un festoso «da!» [«eccolo!»]

[…]

Il bambino si compensava, per così dire, dell’assenza materna, riproducendo, con gli oggetti che gli capitavano a tiro la scena della scomparsa e della riapparizione.

Questo processo, indispensabile per la formazione di apposite capacità cognitive, che successivamente andranno a costituire la base del pensiero e della fantasia, permette al bambino di passare da una posizione passiva ad una attiva: egli sperimenta una strategia per poter non essere semplicemente vittima dell’evento ma di avere l’illusione di controllarlo[30].

Il tutto è accompagnato da apposite vocalizzazioni di gaudio. Emerge chiaramente come la vocalizzazione adesso sia utilizzata in senso intenzionale e non più viscerale[31].

Se in base a quanto appena detto, il bambino elabora delle vocalizzazioni sulla base delle stimolazioni sensoriali provenienti dal mondo esterno, nel sogno tutto questo trova la sua più compiuta dimostrazione.

Nei sogni la vita di tutti i giorni, con le sue fatiche e i suoi piaceri, con le sue gioie e i suoi dolori, non si ripete mai; al contrario, i sogni hanno lo scopo di liberarcene. Anche quando tutta la nostra mente è presa da qualcosa, quando siamo abbattuti da qualche profondo dispiacere, o quanto tutto il nostro potenziale intellettivo è assorbito da qualche problema, il sogno non farà altro che entrare nella tonalità del nostro umore e rappresentare la realtà in simboli.[32]

Esiste dunque una frattura tra la vita della veglia e quella rielaborata dalla mente durante il sonno? E questo taglio sarebbe persino capace di avere un ruolo benefico? La risposta è un solenne «sì», celebrata persino dal detto popolare “i sogni son desideri”.

Il sogno rivela un emblematico funzionamento dell’essere umano: la realtà nella quale l’uomo vive quotidianamente la propria vita non corrisponde del tutto ai suoi bisogni e la sua mente fa in modo che tali esigenze prendano forma durante il sogno; “esso ci libera dalla realtà, ne estingue la nostra abituale memoria e ci colloca in un altro mondo ed in un’altra storia di vita che essenzialmente non ha niente a che fare con la nostra vita reale…”[33]

Il sogno, dunque, ricava elementi provenienti dal mondo esterno, restituendoli al mondo interno in maniera levigata. E il processo inverso come avviene? Come può l’uomo immettere le esigenze del mondo interno nel mondo esterno? Una delle vie per farlo è proprio il linguaggio. Non a caso, Lacan constatò che il fondatore della psicoanalisi sarebbe stato, anche in questo campo, un precursore poiché avrebbe realizzato analisi linguistiche «prima» che la nuova disciplina fosse fondata. Freud non poteva conoscerla solo perché quest’ultima «è sorta pochi anni dopo la psicoanalisi. Saussure l’ha inaugurata poco dopo che Freud, nell’Interpretazione dei sogni, aveva scritto un vero e proprio trattato di linguistica», seppur inconsapevole.[34]

 

La parola oltre la mera propagazione delle onde sonore

 

Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.

[Genesi 1,3]

 

La disamina appena proposta sembra potersi compendiare in un’evidenza: la parola è in grado di dar voce a parti del nostro essere. L’esergo biblico del presente paragrafo sembra voler aggiungere dell’altro: nella parola risiede una forza propria.

Nel corso del Mondiale di calcio “Brasile 2014”, il Portogallo affronta il Ghana nella fase a gironi. Dopo essere stati battuti dalla Germania e aver pareggiato con gli Stati Uniti, alla nazionale portoghese ha un solo risultato a disposizione, la vittoria. Il fuoriclasse Cristiano Ronaldo non è al top della condizione fisica, o per meglio dire gioca solo per la sua bulimia da gol nonostante il divieto dello staff medico, che lo mette in guardia sulla serietà del problema[35]35.

Nei primi quaranta minuti Ronaldo non fece alcun tentativo di affrontare un avversario. […]

Ronaldo gioca come mezzapunta o seconda punta. Da numero 9. Quasi mai ala. E mai con energia.

73°: Corre palla al piede, si ferma nell’area in cerca di un rigore. Ha una fitta al ginocchio sinistro e cade a terra.

Zoppica. Si china in avanti. Impiega quattro minuti a riprendere un’andatura normale.

[…]

78°: Scatta in corsa per evitare che la palla finisca fuori campo e ricomincia a zoppicare. Non si sta godendo la partita. Sembra davvero preoccupato.

80°: Dauda, il portiere del Ghana, non blocca un tiro e il rimbalzo manda la palla sui piedi di Ronaldo. Lui segna di sinistro, ma non esulta. Zoppica ancora.

84°: Ronaldo si china in avanti e se la prende con il suo ginocchio: gli urla di piantarla con i capricci e di comportarsi come si deve.

87°: Non ce la fa più, si piega in due e si appoggia sulle ginocchia. Chiede di bere […]. Si copre il volto con le mani. Sembra stia per piangere. Non resiste più. Eppure parte di nuovo in corsa sulla fascia destra e chiede palla…

La partita finisce. Lui si sfila la fascia da capitano.[36]

Questo spezzone di partita non pone l’accento solo sull’indubbia qualità professionale di Cristiano Ronaldo, quanto sul fattore umano. “Sapeva di aver spinto il suo corpo oltre i limiti. «Per il Real e la  nazionale ho messo a repentaglio il mio futuro», avrebbe ammesso in seguito”. È spinto a mettere a repentaglio tutto per via della bulimia da gol a cui sopra si accennava, mista al bisogno di essere sempre in prima linea nei palcoscenici primari[37]. Eppure, nel corso di questo match accade qualcosa che non aveva preventivato: il suo corpo non risponde come aveva auspicato. Il suo corpo viene a chiedergli un conto molto salato: “Ronaldo si china in avanti e se la prende con il suo ginocchio: gli urla di piantarla con i capricci e di comportarsi come si deve”. Questa scena racchiude perfettamente le due funzioni della parola di cui si è parlato: da un lato l’urlo di Ronaldo contro il suo stesso ginocchio rispecchia come la parola sembri in grado di dar voce a parti del nostro essere; da un altro lato, la necessità che spinge un perfezionista come Ronaldo ad accasciarsi a terra di fronte a tutta la platea a cui ha da sempre trasmesso l’idea di possedere una forza sovraumana e ben poco di umano, attesta come nella parola sembri che vi sia insita una forza propria, la stessa forza che permette a Ronaldo di non uscire dal campo, di finire la partita, facendo persino degli scatti e chiedendo palla.

Se l’esempio di CR7 ricalca fortemente il primo aspetto della questione, lasciando un po’ in penombra il secondo, i prossimi due passaggi serviranno a sopperire a questa lacuna.

C’è un altro racconto, questa volta di Freud, che mi ha sempre colpito e che vale la pena ricordare a proposito della potenza simbolica della parola. Riguarda una sua nipotina che aveva paura del buio. Questa bambina aveva bisogno di sentire la presenza della madre prima di addormentarsi. La sua paura del buio esprimeva una domanda di presenza rivolta al suo Altro materno. La madre, che probabilmente non aveva colto questa domanda, rispose alla bambina che anche se il buio le faceva paura lei non poteva accendere la luce perché doveva addormentarsi. Allora la bambina le disse: “No, voglio solo che parli, perché se tu parli c’è luce![38]”39 Nella stanza il buio continuava ad esserci, eppure, la parola era capace di illuminarlo, nonostante nella propagazione del suono per mezzo delle onde sonore non vi sia nulla di luminoso.

Probabilmente un esempio non tratto dalla clinica ma dal cinema potrà ancora meglio sottolineare questo punto. Nel film Padre Padrone si assiste alla scena in cui Efisio Ledda insegna al figlio Gavino come lavorare nei campi. Il bambino di età scolare non riesce a reggere i ritmi comandati dal padre. In particolare, gli risulta impossibile sollevare un barile di latte di capra appena munto. «Aiutati con la voce» gli intima il padre. E fra sospiri, esclamazioni e urla soffocate, da qualche parte nel suo esile corpo trova la forza per sollevare un carico più pesante del corpo stesso.[39]

39 Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2018, p. 47

 

 

 A chirurgo sta bisturi come a psicoanalista sta parola

La vita puramente biologica è mortificata dall’azione del linguaggio.

Recalcati, Il complesso di Telemaco

 

“Raccontò anche lui all’amico le sue vicende, e n’ebbe in contraccambio cento storie, del passaggio dell’esercito, della peste, d’untori, di prodigi. – Son cose brutte, – disse l’amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio aveva resa disabitata; – cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi l’allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo”.[40]

 

Da dove deriva il sollievo di cui parla il Manzoni? Adesso lo possiamo enunciare: deriva dalla basilare condizione di mancanza nella quale si trova l’essere umano fin dal momento della nascita e che il linguaggio cerca di colmare. La venuta al mondo è contrassegnata dalla fine della beatitudine che la vita intrauterina apportava, capace di garantire l’assenza di qualunque forma di necessità. Dalla nascita in poi il soggetto non è altro che un grido nella notte, una preghiera rivolta all’Altro, nel tentativo di colmare la mancanza ormai costituzionale[41]:

Nei primi mesi di vita il bambino produce comportamenti (pianto, sorriso, vocalizzazioni) come diretta espressione del suo stato di bisogno. Non c’è in lui alcuno scopo comunicativo, alcuna intenzionalità. L’adulto, tuttavia, può ricavare da questi comportamenti delle indicazioni sullo stato di benessere o di malessere del bambino. È significativo il fatto che molte madri imparino ben presto a distinguere il pianto causato dalla fame, da rumori molesti o dal bisogno di essere cambiato.[42]

Dunque, la vita umana è caratterizzata dalla presenza dell’Altro che risponde al grido. “In questo senso, ancora prima di imparare a pregare […], noi siamo una preghiera rivolta all’Altro. La vita può entrare nell’ordine del senso solo se il grido viene accolto dall’Altro […]. Solo se l’Altro risponde alla nostra preghiera”. Questa dialettica molto rudimentale e viscerale nella fase infantile non farà altro che riproporsi continuamente e costantemente per tutto il corso della vita di ogni essere umano.

E proprio su questa dialettica che si crea la Legge fondamentale dell’umanità:

A quale legge mi sto riferendo? A una Legge non scritta, assente nei Codici e nei libri di Diritto […] nel Decalogo biblico, ma che è a fondamento di ogni possibile Civiltà, o meglio, dell’idea stessa della Civiltà. Si tratta di una Legge che rende possibili tutte le altre Leggi. La psicoanalisi chiama questa Legge fondamentale: Legge simbolica “della castrazione”, ma potremmo anche chiamarla Legge della parola. Cosa stabilisce questa Legge che è la Legge delle Leggi? Stabilisce che essendo l’umano un essere di linguaggio, essendo la sua casa la casa del linguaggio, il suo essere non può che manifestarsi attraverso la parola.[43]

 

Lacan lo dice chiaramente: l’uomo, soggiogato dalla parola, ormai non può più farne a meno e proprio per questo conia il termine “parlessere” per riferirsi all’essere umano. Soffermiamoci su ciò che succede nel setting psicoterapeutico della psicoanalisi.

Riprendiamo un punto fondamentale: “La mia parola è riconosciuta solo quando viene ascoltata. Non dobbiamo sottovalutare in nessun modo questo potere dell’ascolto che la psicoanalisi nella sua pratica eleva alla massima potenza”[44]. A testimonianza di questa verità è possibile citare il resoconto di Margarethe Walter, l’ultima paziente di Freud, morta recentemente e il cui incontro con il padre della psicoanalisi ha generato non poca risonanza nel mondo mediatico, che arrivò a parlare della paziente “guarita con una parola sola”.

Quando incontrò Freud […] era una giovane adolescente. Il giornalista che la intervista, alla ricerca del miracolo taumaturgico, le chiede come fu possibile essere guarita in una seduta sola. Voleva sapere quale tecnica suggestiva fosse stata utilizzata dal mago Freud. Più sobriamente, l’ex paziente racconta che si recò dal padre della psicoanalisi in compagnia di sua madre e come egli le ricevette insieme facendole accomodare amabilmente nel suo studio. Poi chiese alla ragazza le ragioni del suo malessere. A quel punto però la madre prese la parola rispondendo al posto della figlia. Freud allora intervenne risolutamente, con tutta la sua autorevolezza, per restituire la parola alla figlia. In seguito fece uscire la madre e si mise ad ascoltare con attenzione la parola della ragazza.

“Allora”, incalza testardamente il giornalista, “cosa la guarì?”.

“Quello che mi ha guarito”, commenta l’ex paziente, “è una cosa semplice; è essermi sentita ascoltata per la prima volta. Ecco cosa mi ha guarita, aver ricevuto la mia parola!”.[45]

 

Come sottolinea Recalcati, il silenzio dell’analista è quasi sacro. A discapito dei ritratti caricaturali che si sono spesi per sindacare l’inutilità di tale professione, il silenzio ha un ruolo fondamentale: “è solo il silenzio che consegna valore alla parola del soggetto attivando la dialettica del riconoscimento”. Per questo Lacan affermava che il compito primo dell’analista è quello di ‘custodire il silenzio’[46].

Il compito dell’analista è quello di restituire il senso della parola del paziente al paziente stesso, in una forma levigata. Ma questa levigazione non può avvenire sulla base di un preconcetto dello psicoanalista, ma deve instaurarsi sulla falsariga della vita del soggetto, che, come detto, è sempre una vita unica, irripetibile e non universalizzabile. Ecco perché l’ascolto e la valorizzazione della parola del paziente è il primo ed irrinunciabile passo. La pena è lo spostamento del paziente verso una presunta verità universale stabilita da canoni scientifici ritenuti universali, ovvero validi in qualunque situazione e per qualunque persona. Ma il funzionamento dell’essere umano non ha nulla a che vedere con il funzionamento del corpo umano. La verità della psicoanalisi non è la verità scientifica della medicina. La verità della psicoanalisi e la verità dell’uno per uno, la verità della pluralità delle lingue.

Una vicenda tratta dalla biografia di Freud potrà servire a far maggiore luce su questo punto. Invitato in una prestigiosa università americana […], mentre stava tenendo il proprio discorso il padre della psicoanalisi venne costantemente disturbato da una persona tra il pubblico che non tratteneva il proprio aperto dissenso. A nulla servirono gli interventi del direttore dell’Università per calmarlo al punto che si dovette la misura estrema di allontanare il facinoroso dall’aula. […] A quel punto Freud intervenne chiedendo al direttore di non procedere in quella direzione, ma di fare rientrare in aula il «dissidente» offrendogli la possibilità di parlare apertamente.[47]47

Recalcati sottolinea giustamente come in questo aneddoto si possa ravvisare l’etica della psicoanalisi:  “dare la parola, includere, ascoltare l’Altro che disturba, considerare l’esistenza di più lingue e la necessità della loro traduzione[48].

Laddove “l’Altro che disturba” può essere anche inteso come “colui che è disturbato”, espressione con la quale nel gergo si addita colui che soffre di una qualsiasi forma di psicopatologia o che semplicemente si comporta in maniera “stramba”. Tali semplici stramberie o anche i veri e propri sintomi non solo altro che dei comportamenti inizialmente funzionali per mantenere l’equilibrio del soggetto, ma che successivamente si sono estremizzare facendo propendere l’ago della bilancia verso il disfunzionale piuttosto che il funzionale. La psicoanalisi insegna che anche le forme più acute di delirio rispondono a questo schema, ovvero:

Il senso di un sintomo deriva, come abbiamo appreso, da una relazione con le esperienze del malato. Quanto più individualizzata è la forma del sintomo, tanto più possiamo sperare di riuscire a stabilire questa connessione. Sarà allora nostro compito, semplicemente, di rintracciare, per un’idea senza senso e per un’azione senza scopo, quella situazione passata nella quale l’idea era giustificata e l’azione rispondeva a un fine.[49]49

 Ma quanto detto fin ora significa forse che per mezzo della parola è possibile dire tutto, esprimere tutto, risolvere tutto? Ovviamente la risposta è un secco no, per almeno due ragioni.

La prima appartiene al delirio scientista che ritiene di poter spiegare tutto attraverso le virtù dell’uomo, quando invece “quanto più rigorosamente la conoscenza umana si definisce come la conoscenza che si lascia esprimere sul piano verbale, tanto più diventa chiaro come un gran numero di fenomeni essenziali non si lasciano affatto esprimere in modo diretto per mezzo delle parole”[50]50.

Il secondo motivo appartiene alla natura dei sentimenti umani: “I nostri sentimenti, e prima di tutto le nostre sensazioni di tipo valutativo, appartengono al grande campo dei processi reali «che certamente esistono, ma non sono dicibili»[51]”51. Infatti, dire che l’uomo è un “parlessere” è ben diverso da sostenere che l’uomo non è nient’altro che un “parlessere”[52]52. Per questa ragione prima Freud e poi Lacan hanno insistito molto sul non detto piuttosto che su quanto viene detto. Il dispositivo psicoanalitico, infatti, dà tantissima importanza ai lapsus, agli errori, alle dimenticanze, ovvero a tutti quei tentativi di dire qualcosa, piuttosto che effettuare una disamina di ogni singola parola utilizzata. In questo verso deve essere inteso l’enorme interesse che Freud dà al sogno[53]53, visto come un deposito di materiale inconscio che tenta di trovare una significazione, e che Lacan dà alle pause di reticenza nel corso della seduta.

Prima di concludere, è d’obbligo rammentare una massima di Freud: Niente di ciò che abbiamo posseduto nella mente una volta può andare completamente perduto. Alcune di queste conoscenze, esperienze e ricordi si possono sedimentare nella mente in maniera disfunzionale e che il soggetto deve imparare a trasformare in funzionale ed “è necessario tutto un processo educativo per consentire a una persona di reimparare a leggere un testo”[54]. Il testo in questione è ovviamente la vita stessa del paziente. La clinica psicoanalitica è una clinica sotto transfert, ovvero una pratica in cui è in gioco l’amore fra due esseri umani e solo l’esperienza dell’amore rende possibile la nascita una nuova vita, “una nuova apertura del mondo, un mondo visto non più dalla prospettiva dell’Uno da solo, ma in quella del Due”[55]

E dunque, l’Uno non è più da solo. Ha gridato nel buio della notte. Ha ricevuto la risposta dell’Altro, in grado di accogliere la sua preghiera sotto forma di parola che appartiene ad una lingua unica che appartiene alla verità della vita unica ed irripetibile di colui che ha gridato.[56].

  

Bibliografia

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[1] 1 Nel 2018 il portale AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha rappresentato un dato allarmante: rispetto all’anno precedente, infatti, è aumentato dell’8% il numero di italiani a cui è stato somministrato un farmaco per combattere ansia, nevrosi, attacchi di panico e insonnia. (Rapporto OsMed 2018)

Nel 2017 circa 3,7 milioni di italiani hanno assunto psicofarmaci, mentre il consumo di benzodiazepine è stato 50 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti. Dati allarmanti a cui va aggiunto il sommerso, nonché il numero di persone che, pur avendo bisogno, per vergogna, decidono di non farsi aiutare (AIFA).

Cfr: https://www.stateofmind.it/2020/07/psicologo-cure-primarie-legge/

[2] Basti pensare al cavallo che è fin da subito di assumere la posizione convenzionale ai quadrupedi e fare un confronto con le peripezie, della durata di svariati mesi, a cui va in contro il cucciolo dell’uomo prima di poter raggiungere questo traguardo.

[3] Piaget ha a lungo insistito sul concetto di “nativismo”, secondo il quale il soggetto nascerebbe già provvisto di un patrimonio filogenetico che gli consentirebbe di mettere in atto le azioni necessarie per la propria sopravvivenza, come il pianto in quanto segnale di richiamo dell’altro e la suzione come elemento di sostentamento. Cfr. Jean Piaget, L’epistemologia genetica, Laterza, 2000

[4]  Recalcati, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, Milano 2014, p. 39

[5]  Ibidem, corsivo nell’originale

[6]  Ibidem, corsivo nell’originale.

[7] 7 Ibidem

[8]  Ibidem

[9]  Cfr. Spitz, Hospitality: A follow-up Report, 1946.

[10] “[…] la situazione di nutrimento non costituisce soltanto una esperienza di gratificazione. […] Attiva il sistema percettivo diacritico, che gradualmente sostituisce l’organizzazione cenestetica primitiva”, Spitz e Wolf, (1949).

[11]  “Essere figli significa essere generati dall’Altro, avere la propria origine nell’Altro. È il primo paradosso della condizione di figlio: egli ha vita propria, vita distinta, differente, ma non è mai del tutto padrone di questa vita perché la può ricevere solo dall’Altro in un indebitamento simbolico originario”, cit. Recalcati, Il segreto del figlio, Feltrinelli, 2017, p. 28

[12]  Recalcati, I Tabù del mondo, Einaudi, 2018, p. 88

[13]  Non è forse questa la condizione alla base di ogni relazione fra un essere umano e l’altro? E non è proprio per colmare questa défaillance che nel corso della storia dell’umanità si sono inventate strategie linguistiche per poter far muovere i gruppi come fossero un sol uomo? Lo scopo delle canzoni e delle preghiere è anche questo: scandire i ritmi di vita di un’aggregazione di persone. Basti pensare non solo alla vita nei monasteri ma anche ai canti intonati durante le battaglie per poter sincronizzare le azioni, come per esempio la carica delle balestre e il conseguente scoccare delle frecce.

Non a caso nel racconto di Wells L’isola del dottor Moreau, in cui si effettuavano degli interventi chirurgici per elevare gli animali ad esseri umanoidi, il dottor Moreau aveva prescritto un canto – intitolato “Le nuove leggi delle dodici tavole” – da intonare in coro ogni giorno per reprimere i loro istinti animali che inevitabilmente tendevano a risvegliarsi:

“Non andare a quattro gambe; questa è la Legge. Non siamo noi uomini? / Non lappare per bere; questa è la Legge. Non siamo noi uomini? / Non mangiare carne né pesce; questa è la Legge. Non siamo noi uomini? / Non scorticare la corteccia degli alberi; questa è la Legge. Non siamo noi uomini? / Non dar la caccia agli altri uomini; questa è la Legge. Non siamo noi uomini?”

[14] 14 Recalcati, (2018b), p. 88

[15] 15 Ivi, p. 146

[16] 16 Freud, (1929), Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, p. 202

[17]  Ibidem

[18] Recalcati, Le mani della madre, Feltrinelli, Milano 2015, p. 65

[19] 19 Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010, p. 53

[20]  Recalcati, 2015, p. 65

[21]  Ivi, p. 66

[22]  Recalcati, 2015, p. 71

[23]  Un passo tratto da Jurassic Park di Crichton potrebbe essere d’aiuto a comprendere l’importanza del nome:

“Spesso si era chiesto perché mai essi esercitassero tanto fascino sui giovanissimi. Aveva infine concluso che i bambini amavano i dinosauri perché queste gigantesche creature impersonavano la forza incontrollabile e sempre incombente dell’autorità. Erano un simbolo dei genitori. Affascinati e incontrollabili, proprio come i genitori. E i bambini li amavano, proprio come amavano i genitori.

Grant sospettava che a quella stessa ragione fosse riconducibile la facilità con cui i bambini imparavano i nomi dei dinosauri. Sentire un bimbo di tre anni che strillava: «Stegoraurus!» non mancava mai di stupirlo. Pronunciare nomi così complicati doveva essere un modo di esercitare un potere su una creatura gigantesca, un modo di controllare la situazione.” [Pagina 151]

Non è forse lo stesso identico meccanismo con cui il neonato affina passo passo le sue capacità linguistiche per “accaparrarsi” la presenza stabile e continuativa del genitore-protettore?

[24]  Lorenz, Il declino dell’uomo, Piano B, Prato, 2017, p. 58

[25] Ibidem, corsivo mio.

[26] 26 Recalcati, 2018b, p.87

[27] A. de Saint Exupery, Il Piccolo Principe, Bompiani, 2001

[28] 28 Cacciari, Psicologia del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 43

[29] 29 Freud, (1920), Al di là del principio di piacere, Newton Compton, Roma, 2012, p. 155

[30] “Di fronte all’accadimento, egli si trovava all’inizio in posizione passiva; quasi fosse travolto da suo impatto, ma a furia di ripetere l’esperienza, per quanto sgradevole fosse, sotto forma ludica, eccolo assumere un ruolo attivo”, ivi, p. 156

[31] 31 In questo senso, il meccanismo di compensazione appena descritto è simile alla sublimazione, capace di trasformare gli istinti in qualcosa di diverso e di funzionale per la civiltà: “La pulsione sessuale mette a disposizione del lavoro culturale delle quantità di energia estremamente grandi; e ciò è dovuto alla peculiarità particolarmente accentuata in essa di poter spostare la sua meta senza ridurre sensibilmente la propria intensità. Questa capacità di scambiare la meta sessuale originaria con un’altra meta che non è più sessuale, ma è psichicamente imparentata con la prima, viene chiamata capacitàdi sublimazione”, cit. Freud, La morale sessuale civile e il nervosismo moderno (1908) in Il disagio della civiltà.

[32] Freud, (1899), L’interpretazione dei sogni, Newton Compton, Roma, 2011, p. 26

[33] 33 Ivi, p. 28

[34] 34 Palombi, Jacques Lacan, Carocci, Roma, 2019, p. 115

[35] 35 Infiammazione al tendine rotuleo, lo stesso problema che pose fine alla carriera del Ronaldo brasiliano.

[36] 36 Balague, CR7, Mondadori, Milano, 2018, p. 288

[37] 37 Ivi, p. 289

[38] A distinguerli è l’atteggiamento rispetto al fatto di esibirsi in pubblico. […] «Ronaldo ama l’evento. Mettiamola così: immaginiamo che sia giocando in uno stadio, e Messi in un altro. Di Colpo tutti i riflettori si spengono e cala un buio totale. Ronaldo se ne tornerebbe a casa. Messi prenderebbe il pallone e andrebbe a giocare al parco con i suoi amici», ivi, p. 259

[39] 39 Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2018, p. 47

[40] Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. XXXIII

[41] non si può restare attaccati al cordone ombelicale, né al seno, né alle proprie feci, né si può avere tutto, godere di tutto, essere tutto […]”, Recalcati, 2014a, p. 30

[42]

[43]  Recalcati, 2014a, p. 29

[44]  Recalcati, 2018a, p. 45

[45] 45 Ibidem

[46]  Ivi, p. 46

[47] 47 Recalcati, 2018b, p. 87

[48] 48 Ibidem

[49]  Freud, (1915-17), Introduzione alla psicoanalisi, Newton Compton, Roma, 2013, p. 205

[50]  Lorenz, 2017, p. 79

[51] 51 Ivi, p. 81

[52]  Una simile affermazione entrerebbe nel ripostiglio del «nient’altro che» di Huxley, in cui vanno a confluire tutto ciò che fa parte del riduzionismo scientifico, come ad esempio l’idea per cui “i processi vitali non sono nient’altro che eventi di natura chimico-fisica”, Lorenz, Il declino dell’uomo, p. 153

[53] Non a caso Freud ravvisa nei sogni tutte le figure retoriche che contempla la poesia e Lacan arriva a sostenere: “L’inconscio è strutturato come un linguaggio. E non si tratta di un’analogia, voglio proprio dire che la sua struttura è quella del linguaggio”.

[54] 54 Lacan, 1969a, p. 135

[55] 55 Recalcati, Non è più come prima, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014, p. 31

[56]