Quando arriva la fine di un viaggio
di Eugenio Scalfari
Io sono quasi al termine del mio viaggio. La salute del corpo e della mente è buona, la capacità di lavoro non è diminuita e la fantasia è sempre quella che mi ha tenuto compagnia per tanti anni, conducendomi a progettare il futuro e spingermi in nuovi sentieri da esplorare e percorrere.
Eppure sento che il viaggio volge alla fine. Mi capita in questi giorni di rileggere il mio libro Incontro con Io. Dove ritrovo riflessioni che rifaccio mie adesso e vorrei riproporre al lettore. Dicevo, sento che il viaggio volge alla fine. Lo sento da molti segnali, il primo dei quali è propriamente quello di sentirlo. E poi dalla pienezza di me che ho finalmente raggiunto perché ora sono certo che tutto ciò che la mia natura era capace di esprimere nel pensare e nel fare io l’ho fatto e pensato. O forse in modo più stanco e meccanico, più trasandato e impreciso. Comunque che queste aggiunte ci siano non cambierà gran cosa. Non lascio nulla che non sia stato compiuto nei limiti che ho potuto e saputo. I disegni rimasti a mezzo, i destini non realizzati fino in fondo o perché fin lì la mia natura è riuscita a viverli, più oltre avrebbe fatto violenza a se stessa e non è preparata in proposito.
Ci sono anche altri segnali. Per esempio la vivezza con cui da qualche tempo mi tornano in mente i ricordi dell’infanzia, certi luoghi, certi volti, sensazioni che avevo smarrito, odori e sapori, il vento di libeccio che batteva le strade del paese dove sono nato e per lunghi giorni ne agitava il mare schiumoso contro gli scogli che chiudevano il porto; il volo dei gabbiani e delle rondini al cader della sera.
Quando la memoria ritorna verso l’infanzia è perché il futuro si è raccorciato e la mente trova compenso allungando il passato all’indietro, il più indietro possibile. Si dice che nel momento della morte, nell’ultimo istante la lucidità che ci resta, l’intera vita si ripresenta di fronte, tutta insieme prima che l’oscurità cada per sempre sui nostri occhi. Nessuno può raccontare se questa credenza corrisponda a ciò che accade realmente in quel punto terminale dell’esistenza, ma l’allungamento del passato man mano che si raccorcia il futuro è un’esperienza che siamo in grado di percepire. A me comunque accade così.
Non è affatto una sensazione sgradevole, non mi procura né allarme né disagio, anzi mi accarezza l’anima, suscita un sentimento affettuoso verso quei luoghi e quei tempi che erano rimasti sepolti e muti mentre la vita incalzava e sospingeva in avanti gli appetiti e i pensieri. Ma è tuttavia un avvertimento che modifica per chi lo riceve la direzione e lo spessore della lente con la quale guardiamo vivere il mondo e noi stessi.
Ho molta dimestichezza con la scrittura, per decenni ho scritto quasi ogni giorno articoli di giornale, qualche libro, un paio dei quali mi hanno anche rimescolato pensieri e idee, suscitandone di nuovi che non mi pareva fossero dentro di me prima di trovarmi su queste pagine.
Ma la mia scrittura professionale è cosa del tutto diversa e in questa occasione mi è stata in qualche modo di impedimento. È sempre stata una scrittura funzionale, utilitaria, pensata per uno scopo e indirizzata a destinazione. Quella scrittura ha avuto un suo stile: può piacere o non piacere ma l’ha avuto.
Ora di quello stile inerente alla professione che ho praticato per tutta la vita ho dovuto cercare di liberarmi. Non sono riuscito. Quando la consuetudine con le parole è stata così costante si sono creati dei circuiti, dei percorsi tra il cervello, i fatti, le parole che li esprimono e li traducono sulla carta, che riesce assai difficile abbandonare. Ho una certa invidia per coloro che si sono scoperti scrittori senza bisogno di scrollarsi di dosso le abitudini contratte nel tradurre in parole, in strutture verbali e sintattiche il flusso di realtà che erano chiamati a raccontare e commentare. Contro queste difficoltà tuttavia non ho lottato molto. La ragione l’ho già detta: non mi ero proposto di scrivere un libro né mi sono d’improvviso scoperto autore e quando mi domando che cosa io stia facendo con questa penna e su queste pagine non so rispondere e poco mi importa. So qual è la ragione che mi necessita ed essa consiste appunto in quel mutamento di prospettiva intervenuto da qualche tempo nella mia mente, che avvista panorami diversi, sensazioni finora non percepite e gli stessi oggetti che hanno vissuto con me e intorno a me: persone, animali, piante, luoghi, libri, mi rivela con contorni nuovi e con nuove corrispondenze.
Montaigne scrive nei suoi Essais: «Non sono io che ho fatto il mio libro, ma il mio libro che ha fatto me». Poiché non saprei dir meglio, lo cito per spiegare con le sue parole ciò che mi accade da qualche tempo. Del resto non avevo mai letto con così intenso interesse e così ampia varietà d’argomenti e di autori come dal momento in cui è cominciato in me questo cambiamento. Man mano che il pensiero ne suscitava uno successivo sorgeva il desiderio di rileggere o leggere un testo e questo ne richiamava un altro e così per molti mesi tornando indietro riscrivendo, rifacendo, rimontando un modo di lavorare per me del tutto inconsueto perché nel mio usare per mestiere le parole ero sempre stato molto rapido, la stesura definitiva fin dall’inizio. Dunque ho letto e riletto come non avevo fatto neppure nei miei diciotto anni, che sono l’età in cui si scoprono i libri e si ascoltano gli echi che vengono da lontano e ho scritto e riscritto per molto tempo.
Adesso che il lavoro è concluso ho una sensazione di assenza come se un compagno fedele se ne fosse andato lasciandomi in solitudine. Mi sarà difficile tornare a vecchie abitudini e a impegni troppo consueti. Il percorso che ancora mi resta da fare dovrò inventarmelo se saprò e se ne avrò voglia.
Il viaggio è la nostra dimensione naturale posto che viviamo immersi nel tempo e nello spazio. Viaggiamo sempre e comunque sia che ci si muova su e giù per il mondo, sia che si resti immobili nel proprio letto, che la mente pensi o che giaccia addormentata e dimentica poiché a un certo momento si sveglierà.
L’altro viaggio ha due possibili itinerari secondo che tu decida di viaggiare anche contro di te. Non è una necessità ma una opzione. In realtà la sola scelta quasi libera sia la nostra facoltà di compiere. Si viaggia per qualcosa, per arrivare da qualcuno che aspetta, per scoprire nuovi territori o soltanto per desiderio d’avventura. Viaggiamo perché altro non ci è dato di fare e il tempo che ci trasporta casualmente ci fa scoprire nuovi Eldoradi e incappare in paurose Cariddi. Ma quando quel percorso si svolge dentro di noi, allora le scoperte e le avventure, le persone e i fantasmi, sono ancora più coinvolgenti perché è nostra la storia che andiamo ricostruendo in cui con fatica e tremore dipaniamo il filo.
Spero che il lettore abbia apprezzato queste parole riproposte su un viaggio che volge alla sua fine.
Repubblica 31 gennaio 2021
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